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Anco tu a far l'istesso. Un altro vizio
Regnar suol fra noi donne, e questo è
[ l'odio
Che per lo più si porta a padri, a madri,
A fratelli, a sorelle, e 'n somma tutte
Le genti del marito: vizio infame,
Vizio indegno di donna, che di donna
Aver procuri il nome: or bench' io stimi
Te saggia si, che senza il mio consiglio
Tu sia per schivar ciò, pur tel ricordo,
Perchè tu sia più cauta; e più mi giova
Di dirti oltra il bisogno, che lasciare
Cosa veruna a dietro. Onora ed ama
E riverisci e suocere e cognati,
E portati con loro in quella guisa
Che tu vorresti ch' altri si portasse
Teco, sendo tu suocera e cognata.
Sovra tutto a temer t'esorto, o figlia,
La fama rea, che s'una volta sola
Si sparge per le bocche, in van si tenta
Di ricovrar la buona: in guisa tarde
Son le lingue al ben dire, e preste e pronte
A i biasmi, a i disonori, a i vituperi.
Onde, per fuggir ciò, non vuo'che solo
Secretezza tu cherchi (che di rado
Giova esser cauta a donna disonesta),
Ma che tu viva sì, ch'indi proceda
Il parer a le genti onesta e buona:
Buona e onesta sarai, quando non tanto
Prezzerai gli ornamenti e la bellezza,
Quanto l'esser modesta e vergognosa.
Queste son quelle lodi, o cara figlia,
Che non fuggon con gli anni, anzi qual oro
Non temon de la ruggine e del tempo.
Si che, se queste gemme torneranno,
Poco curar dovrai di quelle gemine
Che le giovani vane hanno in più stima
Spesso, che l'onor vero e 'l vero bene.
E se ben il tuo grado non ricerca
Che d'ostro t'orni e d'oro, essendo nata
In stato umil, pompa però soverchia
Fora la tua, se superar volessi,
Col povero vestir, l'altre che sono
A te di grado e di bassezza eguali.
Oltra il vestir, d'un'altra cosa ancora
Debbo avvisarti, che non poco importa,
E questo è che giammai tu non ti creda
Che la bellezza che ne dà Natura
S'accresca co i belletti e co'colori, [chia,
Che nulla è meno il vero: io che son vec-
Ho conosciuto molte, che, volendo,
Benchè belle per sè, parer più belle
Con questi lisci, eran mostrate a dito

Da tutti, e da color che non sapeano
Di qual casa si fossero, tenute
Per donne disoneste: indegna cosa
Coprir il bel natio con la bruttezza
De le bellezze finte. Or dimmi un poco,
Figlia, qual è più vago, un fiore, un pomo
Preso dal proprio ramo col colore
Che lor comparte la natura e 'l sole,
Ovver un altro, benchè da buon mastro
Col pennello imitato? io credo certo
Ch'ogni saggio uom, che co'colori intende
D'acquistar fama dipingendo, tanto
Stimi di meritar lode maggiore,
Quanto meglio imitar sa la natura.
Or, se color natio vince il dipinto,
Se perfetta maestra è la Natura;
Perchè creder vorrem ch'in noi s'accresca
La beltà natural con la dipinta?
Sian dunque i tuoi belletti e i lisci tuoi
La pura acqua del fonte, onde ti lavi
E la faccia e le mani ogni mattina.
Non ti biasmerò già se tu ti specchi
Qualche fiata: che lo specchio al fine
Cosa è da comportar, tutto che spesso
Accresca in noi la vanità natia.

Tanto sia detto intorno a gli ornamenti,
E 'l viver come moglie: alquanto avanti
Trapassar mi convien, poi che le nozze
Ordinate non fur, perchè le donne
Sol divenisser mogli, chè ciò fora
Spezie di servitù, ma perchè quinci
Ne divenisser madri: il figlio è frutto,
(Se nol sai) de le nozze, e questo frutto
E dolce si, che la dolcezza sua
Può temprar mille amari, ond'è condita
La gravidanza e 'l maritale stato.
Lascio che a noi, che padri e madri siamo,
Reca estremo contento il veder nati
Figli de'nostri figli, e molto tempra
La doglia del morir, riconoscendo
Noi stesse ne'nipoti in cui speriamo
D'aver morendo una seconda vita.
Però, se fia che Dio ti faccia madre,
Odi quai sian di madre diligente
Le parti. Nato il figlio, a me non piace
Che'l costume tu segua ingiusto ed empio.
Di quelle donne ch' a' figliuoli loro,
Che nel ventre portàr, negano il latte.
Ben vediam tutto il di molti animali
Gli altrui parti nudrir, ma non vediamo
Però mancar a'propri: or qual più alpestre
Fera è de l'orsa? e pur verso i suoi figli
Tenera è sì, che la salute loro

Stima assai più che la sua propria vita.
In tutto nega dunque d'esser madre
Chi nega a'figli il latte, e 'n tutto nega
D'esser donna colei che d'ogni fera
E contra i propri figli assai più fiera.
Impara dunque ad esser donna e madre,
Donna e madre pietosa: io non vorrei
Però che per soverchia tenerezza
Gli allevassi vezzosi e delicati;
Perchè, se ciò disdice a'cittadini,
Come a noi starà ben, che nati siamo
A continue fatiche e non abbiamo
Riposo mai nè 'l giorno, nè la notte?
I maschi sian tua cura, in fin che il passo
Movan più fermo, e possan con la verga
Cacciar al pasco il mansueto armento;
Chè da quel tempo in su del padre dee
Esser uffizio l'insegnargli quello
Ch'a lor s'aspetti, e castigargli, quando
Pertinaci ei gli truovi o negligenti.
De le femmine poi la madre sempre
Il pensier aver dee, nè pur lasciarle
Giammai d'un passo, se gelosa è punto
De l'onor proprio, e ciò fin che cresciute
A l'età più matura, il padre prenda
Cura di maritarle, a cui s'aspetta,
Non a la madre, il ricercar partito
Conveniente al grado ed a la dote.
Perchè poi l'esser data ad Aristeo,
Che per uomo di villa è ricco assai,
Farà che tu terrai famigli e serve;
T'insegnerò come portar ti deggia
Con lor, se brami d'acquistarne il nome
Di padrona amorevole e prudente.
Sarai dunque con lor per mio consiglio
Non aspra, non crudele e non superba,
Nè troppo anco piacevole; chè quello
Partorisce odio estremo, ed è cagione
Di licenza quest'altro, e di disprezzo:
Dunque al mezzo t'appiglia, e giungi in-
L'esser con lor piacevole e severa. [sieme
Avvertisci anco di non esser mai
Scarsa con lor del meritato cibo,
E del dovuto premio, essendo queste
Sole e prime cagion di far che i servi
Non curino tesor di libertade.
Non ti fidar di lor; chè nulla è peggio
Del fidarsi de'servi, de'quai s'uno
Fedel tu ne ritrovi, è sorte, e quasi
Contro natura: abbi pur sempre l'occhio
A le cose più care; e se non vuoi
Esser fraudata, non lasciar che alcuno
Di lor dopo te vegghi, e di te primo

Abbandoni le piume; chè il fidarsi
E l'esser sonnnacchiosa son due cose
Che mai non partoriscon se non danno.
Non so che dirti più, perchè mi pare
D'aver detto abbastanza, ed a te tocca
D'osservar quanto udisti, e ricordarti
Che chi consiglio ascolta e non sen vale,
Senza suo pro da sezzo alfin sen pente.

Qui tacque Aresia; e perchè già s'udia
Cantar per tutto il vigilante augello
Che de la mezza notte altrui dà segno,
E già mancato in tutto a l'unta e negra
Lucerna era il liquor che nudre il lume,
Del foco avendo le reliquie estreme
Sotto il tepido cenere coverte,
Senza più dimorar, le membra al sonno
In preda dier sovra l'usate piume.

Baldi, Egloghe.

LXII. Segni della tempesta
e della serenità.

La luna e'l sol mirasti: or volgi il guardo
A'più minuti lumi, e i segni impara
Che ti mostra fedel l'antica notte;
La notte, in cui pietate allor si desta
Che gl'infelici naviganti scorge
Fra l'onde errar dispersi; e il mesto suono
Le fere il cor de' lagrimosi accenti.
Se dunque osserverai ch'ella ti scopra
Il suo stellato altar di nubi scarco
Ove l'altro seren 2 d'acquoso velo
Sia ricoperto, affretta al fido porto,
Mentre cede al governo ancor la vela,
Riedi; chè, se nol fai, del mar, che a
[ scherno
Avesti, andrai misera preda, e 'ndarno
Dirai felice e fortunato a pieno
Quel cauto marinar che allor non sciolse,
Ne por si volle a si palese risco.
Mase mentre è il Centauro in mezzo il cielo,
L'omero avrà di breve nube carco
E fia l'Altar, come già dissi, ardente;
D'Austro non s'abbia tema; anzi da'regni
De la lucida aurora Euro s'attenda.
Fie 3
ancor d'irato ciel non dubio segno
Quando le chiare stelle a poco a poco
Perdendo andranno i luminosi rai:
E se quando la terra abbraccian l'ombre,
Cadere altra di lor vedrassi, seco
Lungo traendo e sfavillante solco,

1 Ferisce. 2 Cioè il resto del cielo.
3 Fia. Sarà.

Da fieri venti intempestivo assalto
Da quella parte moverassi dove
Segno, cadendo, il lucido sentiero.

I due figli di Leda, amiche stelle.
Si che se quando a te mostran cortesi
La luna, il sol, le stelle, il mar e 'l cielo,
Contemplerai; rare fïate incerto
Sarai di quel ch'Eolo e Giunon prepari.
Baldi, Nautica, lib. II.

LXIII. La condizione dell'agricol tore e quella del navigatore.

Anzi il soffiar de'furiosi venti Si commove Nettuno, e col muggito Fa lunge rimbombar le curve sponde: Fugge dal mar, che minacciar già sembra Tempesta, l'aïrone; e più che puote, Procacciando si va tranquilla parte, Per lo sereno ciel ratto volando; Veggionsi incontro al vento ir le palustri Taccia dunque il cultor, nè si querele 1, Foliche a schiera, e per l'eccelse cime Giudice me, nè misero si chiami De gli altissimi monti in lungo filo Perchè il suo faticar correndo in giro Distendersi le nnbi; e frondi e piume Per l'istesso sentier sempre ritorni; Volar per l'aere errando. Il vento acquoso E perchè spesso al sole ed a la neve Destasi allor che 'l ciel lucidi lampi Fra soverchi disagi ei geli e sudi; Vêr gli alberghi di Borea o d'Euro o d'O- E che talor di sue fatiche estreme [stro Il frutto caggia 2 e la speranza indarno: Subiti accende; e quando a'laghi intorno Ch'a gran torto si duol, se l'occhio volge, Progne veloce vola; e mormorando E dritto mira il periglioso stato Le loquaci anitrelle in su le sponde De l'audace nocchiero. Egli se 'l giorno De gli stagni e de'fiuini in strana guisa Suda premendo il faticoso aratro, Braman lavarsi, e van tuffando il capo O d'arbos el di questa in quella riva Entro le gelid'acque. In secca arena Translato tronca i troppo audaci rami; Spazia allor la cornice, e l'onda chiede Respira al fine, e quando il sol si parte Dal ciel con roca voce: i bassi fondi Par dar loco a la notte, i buoi disciolti Del mar lasciando il polpo, in su le rive Da le arate campagne a l'umil tetto, A le rotonde e picciolette pietre Che già vede fumar, l'orme rivolge: Co'suoi tenaci piè saldo s'attiene: Ove col cibo che apprestato gli ave Le pietose alcioni in su gli scogli, La sua casta compagna, egli riprende Co i pargoletti lor, distesi i vanni, Il perduto vigore; e 'ntanto in seno Del sol godonsi i rai tepidi e chiari: Gli riportan scherzando i dolci figli Mostranoad ora ad or, guizzando, il curvo Le pargolette membra: onde egli obblia Dorso i lievi delfin; perchè, presago Le passate fatiche. E benchè d'oro Di tempestail nocchiero, o fugga, os'armi Non splenda il suo ricetto, e non s'estolla Contra il marino orgoglio. Or chi pe trebbe Sovra colonne di lucenti marmi; Narrar i segni ad un ad un, che il cielo Benchè sovra alti piè di sculto argento Ne mostra pria che 'l mar si turbi? ed anco Candidissime faci ei non accenda, Dopo ch'egli è turbato; a fin che surga Il cui splendor de le superbe sale Del bramato seren ne'petti altrui A gli occhi scopra le ricchezze e l'arte ; Verde la speme? Di tranquillo e piano Lieto è però si le corone e i manti, Aver segni possiam quando le nubi Ricco in sua povertà sprezza e non cura. Struggendo vansi a poco a poco, e chiare A lui ridono i prati: a lui sol versa Scopronsi in ciel le più minute stelle: Giacinti e rose la surgente aurora; Quando la grave ed importuna nebbia A lui, dolce cantando, i primi albori Ne le valli si posa e 'ntorno al mare Salutan gli augelletti; e i fonti e i faggi Giacendosene umil, lascia serena Porgon chiari i cristalli, opache l'ombre, De gli alti monti le selvose cime. Ove l'aride labbra immolli, ed ove Ne men lucido e chiaro il tempo adduce Posi dormendo il faticato fianco. La figlia di Taumante, il ricco lembo D'ardenti ornata e coloriti fregi.

Son altro indizio ancor di certa pace
In mezzo a le tempeste orride e nere

3

Altramente a colui, vivendo, avviene, Che ricchezze adunar brama fra l'on de. Perchè lasciata la mogliera e i figli,

1

Quereli, 2 Cada. 3 Ha.

Quasi dal patrio nido a forza spinti,
Se stesso esposto a volontario errore,
Erme penétra e sconosciute arene:
D'ogni nube paventa; e mai non dorme
D'altissima paura il petto scarco:
Arde a l'estivo tempo; e benchè d'acque
Sia d'ogni intorno cinto, indarno brama
Fresco rimedio a la focosa sete:
Da'colpi de la morte un picciol legno
Gli e frale scudo: e, quel ch'è vie più grave,
Rare fiate avvien ch'ei ne riporte
Mercè che sembrial gran travaglio eguale.
Non vo' però che tu, benchè d'estrema
Fatica sia quest'arte, e di periglio,
Perciò paventi; e neghittoso viva
Tutta l'etate tua povero e vile:
Perchè spesso in cangiar contrada e parte,
Cangia uom fortuna; e 'n regïon lontana
Trova tesor che nel paterno nido
Avria forse aspettando atteso indarno.
Sii pur saggio e prudente, e col consiglio
Rompi fortuna rea: perchè a colui
Solo il pregio si dee, che ardito e forte
Riede superator d'ogni periglio.
Non vedi tu che i celebrati eroi,
Per fabricarsi gloria, ebber tenzone
Co'mostri e con l'inferno? e che la fronte
Solo a colui l'illustre fronde cinse,
Che sudò vincitor ne'campi elei?
Pon mente al Lusitan, che, ben che il regno
Aggia 2 colà 've 'l Sol cade ne l'onde,
Tal col proprio valor calle s'aperse,
Che, Cerne addietro e 'l carro de gli Dei
(Mete non degne a l'animoso corso)
Di gran lunga lasciato, incontro al sole
Voltò così, che fra gli estremi Eoi
Poté spiegar le vincitrici insegne.

Baldi, Nautica, lib. III,

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Chi, per voler l'esterna
E caduca beltà, lascia l'eterna.
Giovine oggi mi finge
La man che mi dipinge:
Dimani, ahi! fredde brine
M'ingombreran l'antico mento e 'l crine.
Ogui cosa com'ombra
Veloce il tempo sgombra;
E i nomi insieme e l'opre
Muto silenzio e cieco oblio ricopre.

Baldi.

21. Per la cetra di Virgilio. Quella cetra gentil, che in su la riva Canto di Mincio, Dafni e Melibeo Sì, che non so, se in Menalo o 'n Liceo, In quella o in altra età simil s'udiva;

Poichè con voce più canora e viva Celebrato ebbe Pale ed Aristeo, E le grand'opre che in esilio feo Il gran figliuol d'Anchise e de la Diva;

Dal suo pastore in una quercia ombrosa Sacrata pende, e se la muove il vento, Par che dica superba e disdegnosa :

Non sia chi di toccarmi abbia ardimento; Chè se non spero aver man si famosa, Del gran Titiro mio sol mi contento.

Di Costanzo.

22. Per la morte del figlio in età tenera.

De l'età tua spuntava appena il fiore, Figlio, e con gran stupor già producea Frutti maturi, e più ne promettea L'incredibil virtute e 'l tuo valore;

Quando Atropo crudel mossa da errore, Perchè senno senile in te scorgea, Credendo pieno il fuso ove attorcea L'aureo tuo stame, il ruppe in sì poch'ore: E te de la natura estremo vanto Mise sotterra, e me ch'ir dovea pria [to: Lasciò qui in preda al duol eterno, al pian

Ne saprei dir se fu più iniqua e ria, Troncando un germe amato e caro tanto, O non sterpando ancor la vita mia.

Di Costanzo.

LXIV. Per vittoria riportata da Giovanni de' Medici contro i Turchi.

Se de l'indegno acquisto
Sorrise d'oriente il popol crudo,
E'l buon gregge il Cristo

Giacque di speme e di valore ignudo;
Ecco che pur, l'empia superbia doma,
Rasserenan la fronte Italia e Roma.
Se alzar gli empii Giganti
Un tempo al ciel l'altere corna; al fine
Di folgori sonanti

Giacquer trofeo, tra incendii e tra ruine:
E cadde fulminata empia Babelle
Allor che più vicin mirò le stelle.

Sembrava al vasto regno
Termine angusto omai l' Istro e l'arene:
Nuovo Titano, a sdegno

Già recarsi parea palme terrene;
Posto in obblio qual disdegnoso il cielo
Serbi a l'alte vendette orribil telo.
Spiega di penna d'oro,
Melopomene cortese, ala veloce;
E'n suon lieto e canoro

Per l'italiche ville alza la voce:
Risvegli omai ne gli agghiacciati cori
Il nobil cantò tuo guerrieri ardori.
Alza l'umido ciglio,
Alma Esperia, d'eroi madre feconda;
Di Cosmo armato il figlio
Mira, de l'Istro in su la gelid' onda,
Qual ne' regni de l'acque immenso scoglio,
Farsi scudo al furor del tracio orgoglio.

Per rio successo avverso
In magnanimo cor virtù non langue;
Ma qual di sangue asperso
Doppia teste e furor terribile angue,
O qual de la gran madre il figlio altero,
Sorge cadendo, ognor più invitto e fiero.
D'immortal fiamma ardente
Fucina è là su i luminosi campi,
Ch' alto sonar si sente
Con paventoso tuon, fra nubi e lampi,
Qualor di bassi regni aura v'ascende
Di mortal fasto, e l'ire e i fochi accende.

I Anteo.

LEOPARDI, Crestomazia. II.

Su l'incudi immortali [Bronti.
Tempran l' armi al gran Dio Steropi e
Ivi gli accesi strali

Prende, e fulmina poi giganti e monti:
Ivi, ne certo in vano,

S'arma del mio signor l'invitta mano.
Quinci per terra sparse
Vide Strigonia le superbe mura:
Quinci ei ne l'armi apparse

Qual funesto balen fra nube oscura;
Ch' alluma il mondo, indi saetta, e solve
Ogni pianta, ogni torre in fumo e 'n polve.
Oh qual ne' cori infidi

Sorse terror quel fortunato giorno!
I paventosi gridi

Bizanzio udi, non pur le valli intorno;
E fin ne l'alta reggia, al suo gran nome,
Del gran tiranno inorridir le chiome.
Segui: a mortal spavento

Lunge non fu già mai ruina e danno.
Io di nobil concento

Addolcirò de' bei sudor l'affanno ;
lo de la palma tua, con le sacr'onde,
Cultor canoro, eternerò le fronde.

Chiabrera.

LXV. Per vittoria ottenuta dalle galee di Toscana contro quelle di Allessandria.

Voi dal tirreno mar lunge spingete I predatori infidi;

E ne' golfi sicuri

De l'imperio ottoman voi gli spegnete.
L'Egeo sel sa, che d' Alessandria scerse
Dianzi ululare i lidi,
Quando in ceppi sì duri
Poneste il pie de le gran turbe avverse,
E sotto giogo acerbo
Il duce lor superbo.

Oh lui ben lasso! oh lui dolente a
Che in region remote
[ morte!
Non più vedrassi intorno
L'alma beltà de la gentil consorte.
Ella, in pensar, piena di ghiaccio il core,
Umida ambo le gote,

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