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DEL

SECOLO DECIMOTTAVO

CX. La Gloria e l'Invidia.

Quand'io men vo verso l' ascrea montagna, Mi si accoppia la Gloria al destro fianco: Ella da spirto al cor, forza al pie stanco; E dice: andiam, ch'io ti sarò compagna. Ma per la lunga inospita campagna Mi si aggiunge l'invidia al lato manco; Edice: anch'io son teco. Al labbro bianco, Veggo il velen che nel suo cor si stagna. Che far degg' io? Se indietro io volgo

Muovon del pari il piè, muovono il canto; Vaghe così, che l'una a l'altra a canto Rosa con rosa par, stella con stella.

Non sai se quella a questa, o questa a

[quella Toglia, o non toglia di beltade il vanto: E puoi ben dir: null'altra è bella tanto; Ma non puoi dir di lor: questa è più bella.

Se innanzi al pastorello in Ida assiso Simil coppia giugnea, Vener non fora La vincitrice al paragon del viso:

Ma qual di queste avrebbe vinto allo

[i passi, Nol so: Paride il pomo avria diviso, So che Invidia mi lassa e m'abbandona; O la gran lite penderebbe ancora.

Ma poi fia che la Gloria ancor mi lassi.
Con ambe andar risolvo a la suprema
Cima del monte. Una mi dia corona;
E l'altra il vegga, e si contorca e frema.
Zappi.

CXI. Sogno.

Sognai sul far de l'alba; e mi parea Ch'io fossi trasformato in cagnoletto: Sognai che al collo un vago laccio avea E una striscia di neve in mezzo al petto. Era in un praticello, ove sedea Clori di ninfe in un bel coro eletto. lo d'ella, ella di me prendeam' diletto: Dicea: corri, Lesbino; ed io correa.

Seguia: dove lasciasti, ove sen gio 2 Tirsi mio, Tirsi tuo? che fa? che fai? lo gia latrando, e volea dir: son io. [zai:

M'accolse in grembo: in duo piedi m'alInchino il suo bel labbro al labbro mio: Quando volea baciarmi, io mi svegliai.

XCII. Sopra due belle.

Zappi.

Due ninfe emule al volto e a la favella, 1 Prendevamo. 2 Gi. Audò.

CXIII. La partenza.

[ ra?

Zappi.

Tornami a mente quella trista e nera Notte, quando partii dal suol natio, E lasciai Clori, e pianger la vid'io, Non mai più bella, e non mai meno altera.

Oh quante volte, addio, dicemmo, adE il pie senza partir restò dov'era! [dio; Quante volte partimmo, e a la primiera Orma tornaro il piè di Clori e il mio!

Era già presso a discoprirne il sole; Quando le dissi alfin... ma che le dissi, Se il pianto confondeva le parole?

Partii; chè cieca sorte, e destin cieco Voller così; ma come, ahi, mi partissi Dir non saprei: so che non son più seco. Zappi.

CXIV. Gli occhi d'Amore.

Fillide al suo pastore: Perchè senz'occhi Amore? E il suo pastore a lei: Perche quegli occhi bei Ch' esser doveano i suoi, Bella, gli avete voi.

Zappi.

CXV. La Fortuna.

La fortuna è una Dea senza cervello: E però tutto il giorno fa pazzie. Or questo abbassa, ed ora innalza quello, De le genti ama sempre le più rie, Ed è de la virtù vero flagello: Ha una mano gentil, l'altra d'arpie: Quindi è che sempre ruba e sempre dona; E consola e tormenta ogni persona. E come il sole, a noi quando compare, Spoglia di luce le lontane genti; E quando torna ad attuffarsi in mare, Rallegra gli altri, e noi restiam dolenti; Così fortuna appunto usa è di fare: Chè giorni non vi sono, ore o momenti Che sien felici altrui, che quegli stessi Non rendan gli altri di miseria oppressi. Fortiguerri, Ricciardetto, canto VIII•

CXVI. Il buon poeta.

Ma perchè non m'offusca sì la vista La difesa ch'io prendo de' poeti, Ch'io voglia porre in così chiara lista Subito quei che la marina Teti Sanno nomare, e la palude trista D'Averno,edi Vulcan le industrireti; E sanno dir begli occhi ed aureo crine, Fronte d'avorio, e labbra coralline;

Io dico chiaro che nessuna stima Ho di chi solo accozza tanto quanto Quattordici versacci con la rima. Il gran poeta non l'annaso al canto Unicamente: ma vo' che m'imprime Un non so che di nuovo, che d'incanto Abbia sembianza; e voglio che in lui sia Una bella e divina fantasia.

Vo'che le umane e le divine cose Sappia quanto saper puote un mortale; E con le vaghe idee e luminose, Sopra l'aere più puro ei batta l'ale; E de la terra ne le parti ascose Entri, e discorra come l'acqua sale In cima a'monti, e come perdut'abbia Il sal che avea ne la marina sabbia. [ta, In somma, quando io dico un buon poeDico una cosa rara e pellegrina, Che grazia di natura e di pianeta A nascere fra noi raro destina. Ma non vo'già che da l'alba a compieta Diguazzi ognor ne l'onda caballina, Ne che ad ognor sul Menalo e Permesso

Riposi, sol contento di sè stesso.

Che quasi in ogni età furo ben molti E sommi duci e sommi imperadori, Che in braccio ancora de le muse accolti Bella vittoria coronò d'allori: Anzi d'april non son sì spessi e folti Per le campagne i leggiadretti fiori, Come gli uomini illustri che di paro Trattar la penna ed il fulmineo acciaro.

E quanti fur, che, con la toga in dossso, In mezzo a i padri ne l'ampio senato, Il poetico foco da sè scosso, In grazioso sermone e posato Dier salute a la patria; ed il già mosso Periglio a'danni suoi fu dissipato!

Fortiguerri, Ricciardetto, canto IX.

CXVII. Lodi della vita oscura.

Quei gode lieta e avventurosa sorte, Che vive in parte solitaria ed erma; Ne sa che cosa sia cittade o corte; Ne ora si distrugge, ora s'in ferma Per van desio di viver dopo morte; Ne le sue voglie ognor stringe e rafferma A'cenni altrui, ne tra speme e timore, Misero invecchia, e più miser si muore.

Quel piacer che si cerca e che si crede Chestia ne'gran palazzi e ingrembo a l'ore, Tempo è che ignudo a la suprema sede Rimenò de le Grazie il santo coro: E de le spoglie sue rimase erede, Per nostro scherno, il barbaro martoro; Il qual vestito de'suoi lieti panni, Chïunque lo ritrova empie d'affanni.

Solo tra' boschi e le romite ville L'allegra del piacer dolce famiglia Alloggia; e gode l'ore sue tranquille. Ed ei spesso dal ciel il cammin piglia Verso le selve; ed or nel cor di Fille, Ora alberga di Nice in su le ciglia : Quindi ritorna a rallegrar le stelle: Nè fa distinzion tra Giove e quelle '.

2

Ond'è che in vano si lusinghi, e spere Unire a signoria vero diletto, Chi tien parte del mondo in suo potere : Chè acerbe cure egli ha a covare in petto, E d'ogni cosa sempre ha da temere. E con ragion: perchè il Fabbro perfetto Che con peso, con numero e misura Fa il tutto, in questo pose ancor gran cura. Povero si, ma dolce e saporito, Il cibo diede al rozzo villanello;

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E gli die sonno placido e gradito,
Se letto non gli diede ornato e bello:
Ne, per quanto sia grinzo e incanutito,
V'è chi lo brami chiuso in un avello,
Per dar di mano a l'oro ed a l'argento,
E poter dissiparlo a suo talento.

La vecchierella a la più fredda bruma
Si siede al fuoco con la sua conocchia,
E le dita filando si consuma;

E tien la nuora in luogo di sirocchia,
Talchè lite fra lor non si costuma.
Ne v'ha chi scaltro ed amoroso adocchia
La donna altrui : chè al villano par bella
La propria, e amor per altra nol martella.
Non s'odono per quelle amene spiagge
Furti, veleni, e sporchi tradimenti;
Ne chi, presente voi, vi palpi o piagge',
E poi, lontan, vi laceri co' denti,
E vostro onore e vostra fama oltragge 2.
Puri costumi in somma ed innocenti,
Contrarii affatto a la vita civile,
Albergan sempre in quella gente umíle.
Ma questa conoscenza più m'accora:
Chè son costretto in così chiara corte
A stare infin che non avvien ch'io mora.
Deh perchè non trovai chiuse le porte,
Roma superba, in quel punto e in quell'ora
Che a te guidommi la mia trista sorte?
Chè ritornato indietro allor saria,
E vivrei lieto in qualche villa mia.

Fortiguerri, Ricciardetto, canto X.

CXVII. Sopra la compassione.

Penso sovente che l'umana vita
Ricolma ell'è di tutti quanti i mali;
E niuna dolcezza è mai compita:
Ma quale in guerra viva, u' 'dardi e strali
Vibransi ognor su la città assalita;
Così piovon su i miseri mortali
Da tutti i lati miserie e sciagure:
Onde mirabil cosa è come dure 3.
La povertà ci affanna; e la ricchezza
Ci fa odiosi, superbi ed ignoranti:
L'amore ci riempie di tristezza;
L'ira e lo sdegno ci turba i sembianti:
Un mar turbato sembra giovinezza,
Pieno di rotte sarte, e legni infranti; .
È la vecchiezza languida e da poco;
E la virilità dura pur poco.

In somma in ogni tempo o in ogni stato
Non ha mai requie, e non ha mai conforto:
E quegli, al parer mio, solo è beato,
Piaggi. 2 Oltraggi,

3 Ove. 4 Dari.

Che nato appena, o poco dopo, è morto.
Perchè, se ben c'è qualche fortunato,
Il cui naviglio già si trova in porto;
Pure, in guardando le miserie altrui,
Moveransi a pietà gli affetti sui.

Perchè siccome le diverse corde
D' uno istrumento, se son ben temprate,
Fanno un suono dolcissimo e concorde;
In cotal guisa le genti create
Convien fra loro che natura accorde':
Onde non ponno 2 l'une esser toccate,
Che non rispondan l'altre. E di qua viene
Che abbiam tanto dolor de le altrui pene.

Che se non fosse questa gran catena,
E si vivesse come querce o abeti,
Fissi ad ognor su la paterna arena;
Ne cale a quei che spezzi ed inquieti
La scure l'altre piante, e non ne han pena;
Cosi staremmo noi contenti e lieti
Su le miserie di questo e di quello.
Ma natura ci diè senso e cervello.

E ci diede per quello gentilezza,
E per quest'altro, senno e intelligenza:
Onde per l'una il male altrui s'apprezza,
E fassi nostra ancor la sua doglienza;

per altro s'accresce l'amarezza,
Chè, come dice il Savio in sua sentenza,
Quei che aggiunge sapere, aggiunge affan-
Emen si dolgon quelli che men sanno. (no;
Fortiguerri, Ricciardetto, canto XV.

CXIX. La rana.

FAVOLA.

Piene son di mille mali
Tutte le strade de la vita umana,
Siano chiassetti, o vie ample e reali.
Dunque che si ha da far? Ciò che la rana
Consigliava una volta a'figli suoi,
Che uscir volean de le loro pantana.

Figliuoli miei, che? vi pensate voi
Quinci partendo aver vita tranquilla,
La quale non v'affligga e non v'annoi?

Qui siam cibo talor d'alcuna anguilla;
Ma, se ne andrete per li verdi prati,
O pe'campi di questa o quella villa,

E serpi e falchi e topacci affamati
Faran di tutti voi strage si fera,
Che sarete ad un tratto esterminati.

A cui il figlio maggior, con aspra cera,
Madre, rispose, dunque il fango e l'erba
Sarà nostra magion e giorno e sera?

Certo sorte migliore a noi si serba

I Accordi. 2 Possono.

Uscendo fuora; abbiamla avanti gli occhi: Dunque si lasci questa vita acerba.

Ed ella a lui: tu parli come i sciocchi. La natura ci ha fatti pe'pantani; E ne'pantani hanno a stare i ranocchi. Ciò detto, slargò l'acqua con le mani, Bassò il capo, alzò l'anche, e andonne al Lasciando ne la riva i figli insani. [fondo, Così dich'io. Liborio, in questo mondo Ogni stato ha i suoi guai: e chi desia, Mutando il suo, trovarne un più giocondo, Cade in una grandissima pazzia.

Fortiguerri, capitolo IV.

CXX. Sopra la nobiltà.

Dietro la scorta de'tuoi chiari passi, Signor, ne vengo, d'una in altra etate, Fra'nostr'avi a cercar di nobiltate

Le insegne, onde talun si altero stassi.
Ma più che in quel cammino addietro
Scorgo la rozza antica povertate, [vassi,
Semplici mense in umil foggia ornate,
E schiette vesti, e tetti oscuri e bassi:

Infin che a le capanne ed a le ghiande Mi veggo addutto, e al prisco stato umile; E il meschin trovo pareggiato e il grande. O nobiltà, com'è negletta e vile L'origin tua, se in te suoi rai non spande Virtù, che sola può farti gentile!

Manfredi.

CXXI. Giuramento alla donna amata.

Vaga angioletta, che in si dolce e puro Leggiadro velo a noi dal ciel scendesti, Ed or beando vai quest'aure e questi Colli,che di tal don degni non furo; [ro; Per quella man, per quelle labbra io giuPer quei tuoi schivi atti cortesi, onesti, Per gli occhi, onde tal piaga al cor mi festi. Ch'io già morronne (e sorte altra non curo). Che, se ben gelosia del suo veneno M'asperse, mai non nacque entro il mio [petto Pensier che al tuo candor recasse oltraggio. E se nube talor di reo sospetto Alzarsi osò, per dileguarla a pieno Del divin volto tuo bastò un sol raggio. Manfred.

1 Facesti.

LEOPARDI, Crestomazia. II.

CXXII. Per nuova monaca.

Poichè scese qua giù l'anima bella Che nel sen di costei posar dovea; Incerta errando in questa parte e in quella, Niuna degna di lei salma scorgea. [pella

Qual basso luogo è questo? e chi m'ape Qua giù dal ciel? sdeguando ella dicea: E già per ritornar, di stella in stella, Era a l'alta, onde scese, eterna idea.

Pur, seguendo de' fati il gran disegno, Entrò nel vago destinato velo: Vago bensì, ma pur di lei non degno.

E già lo sprezza; e già colma di zelo Cerca, rotto il suo fral breve ritegno, Tutte le vie di ricondursi al cielo.

Qual feroce leon che assalit'abbia Pastor mal cauto, e il preme, e in fuga [il caccia; Quei d'elce o quercia a l'alte annose braccia Ricovra, e schiva del crudel la rabbia. Il qual gli è intorno, e con spumanti

[ labbia

Ruggendo il mira, e pur quel tronco ab-
[braccia
Con l'unghie adunche, e il crolla, e pur
[procaccia
Salirvi, e sparge invan col piè la sabbia;
Così costei, che del leon d'inferno
Fuggi gli artigli, ed ha ricovro amico
Su i santi rami del gran tronco eterno;

L'ira non teme più del fier nemico:
E lo vedrem, pien d'aspro duolo interno,
Tornar ruggendo a quel suo centro antico.

Vergini, che pensose, a lenti passi, Da grande ufficio e pio tornar mostrate, Dipinta avendo in volto la pietate, E più ne gli occhi lagrimosi e bassi;

Dov'è colei che fra tutt'altre stassi Quasi Sol di bellezza e d'onestate? Al cui chiaro splendor l'alme ben nate Tutte scopron le vie d'onde al ciel vassi? Rispondon quelle: ah non sperar più mai Fra noi vederla: oggi il bel lume è spento Al mondo, che per lei fu lieto assai.

Su la soglia d'un chiostro ogni orna[mento

Sparso, e gli ostri e le gemme al suol veEil bel crin d'oro se ne poria il vento. [drai ̧ Manfredi.

6

CXXIII. Trasformazione di Canopia
e del figliuolo.

In così dir, si vide il pargoletto
Che al sentenea, rimpicciolirsi a un tratto;
Le braccia in ali, e 'l labbro in sottil rostro
Cangiarsi; e un augellin tutto comporsi;
Che la lingua sciogliendo in dolci canti
Lamentevoli si, ma pur soavi,
Rapido saltellava e sen fuggia;
Rapido ritornava sorvolando,
Rapido s'aggirava, ed incostante
Ritornava a la madre; nè sapea
Dove tornar, dove fuggir cantando,
Se a lei sul crin, su gli omeri o sul seno
O sul materno braccio non posava;
Senza saper quai sien le poppe o'l grembo;
Chè nulla più de la primiera immago
Vedea, nè di sua madre ombra apparia:
Poichè Canopia in quel medesmo punto
Sentissi il pie fatto radice, e tutto
Vide (se a veder più valeano gli occhi)
Assottigliarsi il corpo in verde canna;
Le mani in foglie, e 'l crin converso in ti-
[glio;
Nè più aver fronte, ma un cespuglio misto
Di frondi minutissime e di fiori
Vedresti; e d'un odor grave e sonnifero
Spargersi tulta; e così viva starsi
In arborea sembianza; e sentir spesso
Vicino il figlio garrulo e canoro,
Essa canape fatta, ei canneruolo;
Essa del figlio consolando i lai,
Esso a la madre rammentando il fallo,
Che in si varia natura trasformolli:

Fin che la falce a lei tronchi le piante,
E metta in fuga lui dal grembo amato,
Che al caldo Austro a narrar volli i suoi
[casi.
Baruffaldi, Canapajo, libro V.

CXXIV. Sopra la città di Roma.

Avanzi son di memorabil opra,
Men dal furor, che da l'età, securi. [scopre

Ma, in tanta strage, or chi m'addità e
In corpo vivo, e non in bronzo o in sasse,
Una reliquia di Fabrizi e Curi?

Ghedini.

CXXV. L'amante rigettato.

Pur m'avete una volta,
Lodato il Ciel, da voi sbanditò affatto;
Nè più, sia notte o giorno,
Volete a verun patto

Che al vostro albergo io mi raggiri intorno.
Per me la porta è chiusa,
Il negozio è finito,

Spenta è la cortesia, morta è pietà;
E se il caso si dà,

Che in me cresca per voi d'amore il male,
Posso andare a mia posta a lo spedale.

Questi accidenti strani,

S'io fussi un uom collerico e irascibile,
O men del mondo e de le donne pratico,
Mi farian sciorre i bracchi, e darmi a'cani.
Ma, perch'io son flemmatico,
L'avermi a disperar stimo impossibile.
E benchè il dar ne i lumi,
Chiamar crude le stelle, iniquo il fato,
Costume sia d'un amator sprezzato;
Ne le sventure mie

opra.

Non son per porre un tal concetto in
Ch'hanno che far le nostre scioccherie
Colla gente di sopra?
Altri pensier che questi
Hanno in capo le stelle. Ed al destino
Penso che nulla importi

S'altri lo chiama autor del suo travaglio:
Chè degli asini al ciel non giugne il raglio.
Nè men seguir l'esempio
Di certi amanti io voglio,
Che da l'amata lor mandati a spasso,
(Oltre al pianto e al cordoglio)
Chi vuol precipitarsi,
Chi tra l'acque annegarsi,
Chi con ferro omicida il seno aprirsi;
E cento appresso e mille

Sei pur tu, pur ti veggio, o gran latina
Città; di cui, quanto il Sol aureo intorno
Nè altera più,nè più onorata mira, [gira, Strane pazzie, più che da far, da dirși.
Quantunque involta ne la tua rovina. Con questi io non m'impiccio;
Queste le mura son cui trema e inchina Ne per cagion sì lieve
Pur anche il mondo, non che pregia o am-
[mira;

Queste le vie per cui con scorno ed ira
Portår barbari re la fronte china.

E questi che v'incontro a ciascun passo,

In error caderei tanto massiccio.
So che non v'è maniera,
Per provar se la morte è buona o trista,
Di dar per alcun tempo

La propria vita in attual deposito;

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