Sayfadaki görseller
PDF
ePub

DEL

SECOLO DECIMOTTAVO

CXXXIII. Il cuor liberato d'amore.

Grazie a gl'inganni tuoi,

Al fin respiro, o Nice;
Al fin d'un infelice
Ebber gli Dei pietà.

Sento da' lacci suoi,
Sento che l'alma è sciolta;
Non sogno questa volta,
Non sogno libertà.

Mancò l'antico ardore:
E son tranquillo a segno
Che in me non trova sdegno,
Per mascherarsi, amor.

Non cangio più colore
Quando il tuo nome ascolto;
Quando ti miro in volto,
Più non mi batte il cor.
Sogno, ma te non miro
Sempre ne' sogni miei;
Mi desto, e tu non sei
Il primo mio pensier.

Lungi da te m'aggiro
Senza bramarti mai;
Son teco, e non mi fai
Ne pena nè piacer.

Di tua beltà ragiono,
Ne intenerir mi sento;
I torti miei rammento,
E non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
Quando mi vieni
appresso:
Col mio rivale istesso
Posso di te parlar.

Volgimi il guardo altero,
Parlami in volto umano ;
Il tuo disprezzo è vano,
E vano il tuo favor:

Chè più l'usato impero Quei labbri in me non hanno, Quegli occhi più non sanno La via di questo cor.

Quel che or m'alletta o spiace, Se lieto o mesto or sono Già non è più tuo dono, Già colpa tua non è:

Chè senza te mi piace La selva, il colle, il prato; Ogni soggiorno ingrato M'annoja ancor con te.

Odi s'io son sincero:
Ancor mi sembri bella;
Ma non mi sembri quella
Che paragon non ha.

E (non t'offenda il vero)
Nel tuo leggiadro aspetto
Or vedo alcun difetto,
Che mi parea beltà.

Quando lo stral spezzai,
(Confesso il mio rossore)
Spezzar m'intesi il core,
Mi parve di morir:

Ma per uscir di guai,
Per non vedersi oppresso,
Per racquistar sè stesso,
Tutto si può soffrir.

Nel visco in cui s'avvenne
Quell'augellin talora
Lascia le penne ancora,
Ma torna in libertà.
Poi le perdute penne
In pochi di rinnova;
Cauto divien per prova,
Nè più tradir si fa.

So che non credi estinto
In me l'incendio antico,
Perchè si spesso il dico,
Perchè tacer non so:
Quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
Per cui ciascun ragiona
De' rischi che passò.

Dopo il crudel cimento,
Narra i passati sdegni,
Di sue ferite i segni

Mostra il guerrier così.
Mostra così contento
Schiavo che uscì di pena,
La barbara catena
Che strascinava un dì.
Parlo; ma sol, parlando,
Me soddisfar procuro:
Parlo; ma nulla io curo
Che tu mi presti fe:

Parlo; ma non dimando
Se approvi i detti miei,
Ne se tranquilla sei
Nel ragionar di me.

Io lascio un'incostante,
Tu perdi un cor sincero :
Non so di noi primiero
Chi s'abbia a consolar.

So che un si fido amante
Non troverà più Nice,
Che un'altra ingannatrice
È facile a trovar.

Metastasio.

CXXXIV. Riposo di Diana.

Quand' ecco d'improvviso ognuno in-
[nalza
Del monte invêr la cima attenti i lumi:
Un drappello di veltri in giù si sbalza,
E abbaja e fruga, e annasa cespi e dumi.
E veggon Diana che da un'erta balza
Discende a visitare gli altrui numi.
Ella fa che la lite non si estenda,
Con l'alta maestade e reverenda.

La cacciatrice Diva, a la foresta
Seguito il lepre timido e vigliacco,
Anch'essa vuol entrare a questa festa;
E a sè raccoglie ogni sagace bracco.
Cala il can su le zampe la sua testa,
Sdrajato sul terreno il ventre stracco;
Ansa dal cavo fianco, e caccia innante
La sua riarsa lingua tremolante.

Essa, cui langue affaticato il piede,
Gitta fra l'erba la faretra e l'arco,
E, mostrando a que' Dei le fatte prede,
Appoggia a un troncon vecchio il fianco
[scarco.
Ogni dio le fa cerchio; ognun le crede
Se dice: questa acceggia ho colta al varco:
Uccise ho a un colpo sol queste due lepri,
Che a un tempo uscian da'lor natii ginepri.
Sue prede eran pernici, eran fagiani,
Erano gallinelle e starnoncini:
Chè non segue Diana animai strani,

Ma lepri, e quaglie, e miti uccelli e fini.
Veste or pensieri agevoli ed umani,
Ne più guerriera assal gli antri ferini:
Or tordi e starne fa segno a'suoi colpi,
Non cinghiali, non orsi, o lupi, o volpi.

Perchè, se tra noi s'amano le piume,
Se or si fugge il periglio e la fatica,
Par che arrida anche ai Dei si bel costume,
E sdegnin viver su la foggia antica:
E perfin Marte, quel suo duro nume,
Che ogni delizia avea per sua nimica,
Or di gire a la guerra ha preso in uso
In aureo svimer da i cristalli chiuso.

Già la Dea lassa vêr la fronte calda
Sventola il lieve cappellin di paglia;
La treccia slaccia, che pria stretta e salda
Stea sotto un reticel di verde maglia;
Talvolta scuote al gonnellin la falda :
E a la narrazïon più si travaglia;
Nè cicala ella sol, ma con le braccia
Figura i casi de la dubbia caccia.

Mentre alleggia la Dea così l'angoscia,
E in lungo tragge il suo vario sermone;
Palpa una ninfa a un can l'orecchia floscia,
Che tremola gli casca e penzolone;
Un'altra pela ad un fagian la coscia,
E sclama intenerita: almo boccone !
E chi misura il becco a la beccaccia,
E chi al lepre i mustacchi in su la faccia.
Pur tre prudenti Najadi ed acute,
Novel conforto a la molesta sete
Volgendo in mente, non da altrui vedute,
Partir de l'orto taciturne e chete:
Ne l'onde si tuffaro, e l'onde mute
Chiusersi sovra i lor capi quiete:
Zucchero e fraghe esse portaron seco
Dentro al paterno ed agghiacciato speco.

Nuova confezion ivi formaro,
Lo zucchero mescendo al succo espresso,
Succo che non riman liquido e raro,
Fatto dal ghiaccio ancor tenace e spesso.
E poichè dentro a vetro puro e chiaro,
Con rigoglioso colmo, l'ebber messo;
De l'acque uscite, a Diana l'offriro;
Che al sorso primo trae lungo sospiro.

Sospira di piacere e di dolcezza,
E va alternando con le lodi i sorsi:
Perchè la verginal sua bocca avvezza
Non ebbe a tal diletto a i tempi scorsi.
E la madre Pomona anch' essa apprezza
De'sorbetti l'amabile comporsi,
Onde ribes estiva e portogallo

Stava,

Vidersi incappellar poscia il cristallo. Roberte, Fragol canto II.

CXXXV. Il precipizio.

Era tranquillamente azzurro il mare;
Ma sotto a quella balza un sordo e fisso
Muggito fean le spumanti acque amare;
Chè un fiume, cui fu dal pendio prefisso
Cieco sotterra il corso, ivi formava
Co' moti opposti un vorticoso abisso.

Desio di rimirar qual s'aggirava
A spire il flutto, e tratto poi dal peso
Perdeasi assorto ne l'orribil cava,

Me mal saggio avviò fin allo steso
Dentro i profondi golfi orlo del masso,
E da incauto affrettar così fui

preso, Che sul confin io sdrucciolai col passo. Da l' erta caddi, e un caprifico verde Afferrai sporto fuor del curvo sasso. Gli spirti, che il terror fuga e disperde, Corsermi al cor, lasciando in sè smarrita L'alma, che il ragionar stupida perde.

In cotal guisa l'infelice vita Sospesa al troppo docil tronco stette Fra certa morte e vacillante aïta.

Su l'onde in rotator circoli strette Fissai, ritorsi, chiusi le pupille Da un improvviso orror vinte e ristrette; E tal ribrezzo misto a fredde stille D'atro sudor m'irrigidì le avvinte Mani al sostegno mio, che quasi aprille Fra cento vane al mio pensier dipinte Idee, che furo in un momento accolte, E cangiate e riprese e insiem rispinte.

Sconsigliato tentai co le rivolte Piante e al dirupo fitte, arcando il dorso, Arrampicarmi a le pietrose volte;

Ma il pie a toccar la roccia appena scorso Era, che il ritirai, dubbio qual fosse Peggior o il mio reo stato, o il mio soc[corso; Perchè a l'arbor, che al grande urto si [ scosse,

Temei col raddoppiar l'infausta leva
Sveller affatto le radici smosse.

Grida tronche da fremiti io melteva,
Che da i concavi tufi e da le grotte
Un eco spaventevol ripeteva.

Già dal forzato ceppo aspre e dirotte Sul corpo mi piovean ghiaje ed arene, E l'ime barbe già scoppiavan rotte; Già l'alma ingombra avean larve si [piene

Di morte, che pareami, anzi io sentia
Le inghiottite acque entrar fin ne le vene;
Perchè il vortice infranto, che salia
In larghi spruzzi da i spumanti seni,
Col ribalzato mar mi ricopria.

Varano, visione I.

CXXXVI. Il turbine.

Dal nembifero mosse alto Apennino
D'atri vapor nitrosi un turbiu carco
Su l'albeggiar del rorido mattino,

E l'opposto fendendo aere più scarco,
D'oscure lo coprì nubi spezzate,
Che a lungo stese e poi ricurve in arco
Scendean, salian or sciolte, or aggrup-
E dopo l'urto divideansi rotte [pate;
Da lampi lucidissimi e segnate,

E dal vortice ovunque eran condotte Ratto più che non è colpo di fionda, Seco traean grandine, vento e notte.

Dal re de' fiumi a la populea sponda M'avvidi il pien d'orror nembo appres

[ sarse Per lo increspar retrogrado de l' onda, Pel lume fier che sovra l'argin arse, E per la polve attorcigliata in suso, Che si folta ne gli occhi a me si sparse, Ch'io co le man difesi il ciglio chiuso. Varano, visione II.

CXXXVII. Il fenomeno detto la Fata Morgana, al faro di Messina.

Null'aria commovea l'acque, nè vento; Pur gonfio il mar sicano insorse e nero, E il calabro spianossi, e qual argento

Lustro fosse, di sè fe specchio vero
Co la cima erta sul trinacrio lido,
E il basso piè ne l'italo sentiero.

In questo pel chiaror cristallo fido Tante in magin vid' io, che a l'alma parve Che l'occhio fosse in presentarle infido.

D'infinite colonne un lungo apparve Ordin egual; ma in un baleno monche Sembrar, chè la metà somma disparve;

E in quella parte ove rimaser tronche, Si spiegar tutte, e di sè fer molt' archi Rozzi, e simili a quei de le spelonche,

Che si mostraro a l'improviso carchi Di vaghissime torri e di castella; E anch' esse, qual fumo che l'aria varchi, Spariro, e in vece lor nacque novella Di piramidi sculte aspra foresta,

In li ampia valle a fiori pinta e bella; E in mille colli e in mille armenti que[sta Cangiossi ancor; tal ch'io sclamai: tra✪ sogno forse con pupilla desta? [veggo? Varano, visione V.

CXXXVIII. L'aurora boreale.

Colà, dove Aquilon serba i ridutti Gelidi venti, che poi scioglie irato Contra le selve annose e i salsi flutti,

Dal polo fin de l' oriente al lato, Con luce di sanguigno ardor feconda Si tinse il taciturno aere stellato;

Tal che de l' Eridan presso a la sponda Ne rosseggiaro al ripercosso lume [da. Gli uomin,le navi, i tronchi e l'erbe e l'onMentre, seguendo il nuovo suo costume Ardea purpureo il ciel, gli apparve al [ lembo

Un, che l'aure inondò, ceruleo fiume;
E da l'azzurro e dal vermiglio grembo
Rai ne sgorgaro or agitati or cheti,
E ondeggiamenti del focoso nembo,

E globi che splendean come pianeti,
E lucide corone ed archi e liste,
E argentee volte e pescarecce reti.

Ben conobb' io nel meditar le viste Fiamme dipinte con mirabil'arti Raccolte da natura e fra lor miste,

Che i sottili nitrosi efflussi sparti Dal gelo acuto per gli aerei campi Salir dal zolfo ad irritar le parti

Dal sole attratte, quando avvien cheavAlto del Cane sotto l'ignea stella, [vampi E allor scoppiaro in color varii e in lampi.

Sparia, poi riaccendeasi ogni facella; Ed era or l'ostro illanguidito, ed ora Fea di vivo fulgor mostra novella. Varano, visione V1.

CXXXIX. La tempesta di mare.
La fronte il cavo abete avea diritta
Là dove il passaggier al lido ibero
Su le salse di Gallia acque tragitta;

Ei tesi lini a un aquilon leggiero. Spiegando, qual se avesse a i fianchi penne, Radea col volo il liquido sentiero;

Si che inocchieri al lor periglio intenti Salir pe' gradi a l'aspre corde intesti Le agitate a raccor tele stridenti

Fra i sibili del vortice funesti, Cui resister mal puote Ercinia e Ardenna; Ma tal fe la procella impeto in questi, Che duo di lor, in men che il dito ac

[ cenna,

L'ampia vela aggruppando a l'arbor carco, Divelti fur da la tremante antenna:

E come augei l'aure fendendo in arco, Dopo un languido oimè sparver assorti De' golfi irati nel terribil varco.

Notte recando e verno erravan sorti Nel tenebrato ciel nuvoli spessi, Che ricoprian di nebbia i lidi e i porti;

Ed al crescer de l'ombre i flutti stessi Parean del legno sormontar le sponde, Crescendo mole e feritade in essi. [de, Venian pugnando insiem grossissim'onAltre a proda, altre a poppa, e fean in [ parte Or monti erti, or voragini profonde;

E ognor del mare a la gonfiata parte Levavasi la nave, e al sen più basso Avvallando rendea delusa ogni arte.

Noi pel terror immoti a par d'un sasso Restammo in pria; ma la vicina morte I piè ci sciolse, ed affrettonne il passo

A librar, benchè invan, col pondo forte De'corpi il lato, in cui per l'urto esterno S'ergea troppo l'abete in dubbia sorte:

Ma pel gran moto ad ambo i lati alterno Lassi cademmo, e il nostro inutil corso I tempestosi fiotti ebber a scherno.

Privi di Sol, di guida e di soccorso, Stesi sul pian del legno combattuto, Squallidi per immenso mare scorso, Piagneam col timonier, che avea per[duto Fra le infinite acque e l'orror notturno Lena e consiglio, e temea smorto e muto Gli ultimi abissi, ove un crudel vul

[ turno

Traportator spignea la poppa errante. Varano, visione VII.

CXX. Il prato.

Spinsi, qual uom mosso da voglie strane Di cammin novo, su i parmensi liti [ venne Le piante da la via retta lontane;

Quando a gonfiar l'onde improvviso

Turbin, e il mare fra contrarii venti
Per dirotta fortuna alto divenne;

E campi attraversando, e rinverditi Solchi ove in frondi par che sviluppato

Il seme a biondeggiar le spiche inviti, Dopo un bosco da querce annose om[brato, Giunsi in aperto piano, in cui senz' arte Stendeasi ricco di germogli un prato.

Il vasto loco pien di vario-sparte Folte erbette, che nulla arbor, nè fratta Con intralciati rami ingombra o parte, Dolce allargommiil cor, cui sembra in[tatta

A par del guardo aver sua libertate,
L'immenso avidamente a scorrer atta.
Qui nel varco di quelle a fior smaltate
Piagge il fianco posai sotto rugoso
Olmo d'opache insiem foglie intrecciate,
Ove il puro aere, il rezzo ed il ripuso
Grato a stanchezza invogliò più l'ingorda
Vista a vagar per l'ampio strato erboso.
Rotto ora il lato spazio era da lorda
Trave d' un altaleno, onde pendea
Vaso a trar l'acqua avvinto a docil corda,

Or da capanna vil, su cui serpea
L'ellera, i cerri ad agguagliar avvezza,
Che l'aride nel letto alghe radea

Rozzi obbietti al pensier; ma la rozzezza
Spirava per l'erbifera pianura
Lieta semplicità, se non bellezza.

Scorrea la morbidissima verzura
Favonio, cui son le odorate rose
E i molli gigli amica e facil cura,

E quelle umili piante e rugiadose
Piegando, inteneria co la diffusa
Aura le fibre lor sotterra ascose;

Mentre il passero grigio, e la delusa Spesso da'rai de gli aggirati specchi Lodola, e a l'arduo vol la rondin usa,

Aleggiando scegliean i levi stecchi
Per tesser nido a la futura prole
Di molle creta e di sermenti secchi.

Il suolo, ove arator non mai si duole Che a fecondarne i germi indarno ei suDi cui cultor è con Natura il sole, [di, Si adescato m'avean, che a me que'ruCampi s'offrian leggiadramente ameni [di Più assai de'colti co'più eletti studi. Varano, visione x.

CXLI. Il deserto.

Mi trovai dentro a vasti campi aperti,
In cui non allignò mai verdeggiante
Erba nè pinto fior, nè irrigò fonte
Con limpid'acque le frondose piante:
Non rupe nuda nè selvoso monte

Ivi si ergea; ma sol di sabbia piene
Valli ampie si perdean co l'orizzonte,

Sfumando i confin lor ne le serene Vie dell'etere azzurro. Unica al guardo Lungi splendea ne le solinghe arene

Mole alta fin dove ferir può dardo, E colà il grande e non più visto obbietto M'invitò il passo per tristezza tardo.

Sul terren da qualunque arte negletto Maravigliando io gia che l'occhio avvezzo Si a lungo fosse a non mai vario aspetto; Ch'io dal Sul non varcava a l'ombra e [al rezzo Ma sempre egual fendea lume, e la stessa Aria nullo spirante odor, nè lezzo;

E sol qua e là de la men grave e spessa Arena sorgea fuor con fiacche forze Macchia di spini appena sorta e oppressa, Ch'io m'avvidi esser nido in cui rinforze Vipera od aspe il giovanil veleno Da le svestite loro aride scorze.

Varano, visione VL

CXLII. La sorgenti dell' Arno.

Vago di penetrar perchè Natura Non mai d'Arno gli umori appien consumi, E incerto ancor se del mar l'onda impura

Per sotterranee ghiaje e chiusi dumi Feltrata salga a le montagne, e scenda Partita in rivi ed in perpetui fiumi;

lo l'erta ascesi d'una roccia orrenda, Che in mezzo a l'appennine Alpi nevose Le vie tosche e l'emilie avvien che fenda;

Ch'ivi scontrando ognor le rigogliose Acque scorrenti da l'origin prima Disvelarne credei le fonti ascose.

Stendeasi larga quell'alpestre cima In scabri sì, ma rinverditi prati, Benchè ad aspro soggetti indocil clima.

Questi d'argin informi e di solcati
Dorsi e di gore e d'ineguali fosse
In varie strane fogge eran vergati.

Cento scorgeansi in essi, ove serbosse La pioggia, late vasche, altre già vote D'acqua, altre sceme, altre ricolme e gros

Di là salii balze più eccelse, e note [se. Solo a i rapaci augelli, e trovai boschi, Spelonche e abissi, in cui giaceano immote Le nevi e ghiacci, o splenda il giorno [o infoschi, Non mai squagliati, perchè troppo inerte È il sole a riscaldar quegli antri foschi. ' Vidi in altre caverne al ciel scoperte

« ÖncekiDevam »