DEL SECOLO DECIMOTTAVO CXXXIII. Il cuor liberato d'amore. Grazie a gl'inganni tuoi, Al fin respiro, o Nice; Sento da' lacci suoi, Mancò l'antico ardore: Non cangio più colore Lungi da te m'aggiro Di tua beltà ragiono, Volgimi il guardo altero, Chè più l'usato impero Quei labbri in me non hanno, Quegli occhi più non sanno La via di questo cor. Quel che or m'alletta o spiace, Se lieto o mesto or sono Già non è più tuo dono, Già colpa tua non è: Chè senza te mi piace La selva, il colle, il prato; Ogni soggiorno ingrato M'annoja ancor con te. Odi s'io son sincero: E (non t'offenda il vero) Quando lo stral spezzai, Ma per uscir di guai, Nel visco in cui s'avvenne So che non credi estinto Dopo il crudel cimento, Mostra il guerrier così. Parlo; ma non dimando Io lascio un'incostante, So che un si fido amante Metastasio. CXXXIV. Riposo di Diana. Quand' ecco d'improvviso ognuno in- La cacciatrice Diva, a la foresta Essa, cui langue affaticato il piede, Ma lepri, e quaglie, e miti uccelli e fini. Perchè, se tra noi s'amano le piume, Già la Dea lassa vêr la fronte calda Mentre alleggia la Dea così l'angoscia, Nuova confezion ivi formaro, Sospira di piacere e di dolcezza, Stava, Vidersi incappellar poscia il cristallo. Roberte, Fragol canto II. CXXXV. Il precipizio. Era tranquillamente azzurro il mare; Desio di rimirar qual s'aggirava Me mal saggio avviò fin allo steso preso, Che sul confin io sdrucciolai col passo. Da l' erta caddi, e un caprifico verde Afferrai sporto fuor del curvo sasso. Gli spirti, che il terror fuga e disperde, Corsermi al cor, lasciando in sè smarrita L'alma, che il ragionar stupida perde. In cotal guisa l'infelice vita Sospesa al troppo docil tronco stette Fra certa morte e vacillante aïta. Su l'onde in rotator circoli strette Fissai, ritorsi, chiusi le pupille Da un improvviso orror vinte e ristrette; E tal ribrezzo misto a fredde stille D'atro sudor m'irrigidì le avvinte Mani al sostegno mio, che quasi aprille Fra cento vane al mio pensier dipinte Idee, che furo in un momento accolte, E cangiate e riprese e insiem rispinte. Sconsigliato tentai co le rivolte Piante e al dirupo fitte, arcando il dorso, Arrampicarmi a le pietrose volte; Ma il pie a toccar la roccia appena scorso Era, che il ritirai, dubbio qual fosse Peggior o il mio reo stato, o il mio soc[corso; Perchè a l'arbor, che al grande urto si [ scosse, Temei col raddoppiar l'infausta leva Grida tronche da fremiti io melteva, Già dal forzato ceppo aspre e dirotte Sul corpo mi piovean ghiaje ed arene, E l'ime barbe già scoppiavan rotte; Già l'alma ingombra avean larve si [piene Di morte, che pareami, anzi io sentia Varano, visione I. CXXXVI. Il turbine. Dal nembifero mosse alto Apennino E l'opposto fendendo aere più scarco, E dal vortice ovunque eran condotte Ratto più che non è colpo di fionda, Seco traean grandine, vento e notte. Dal re de' fiumi a la populea sponda M'avvidi il pien d'orror nembo appres [ sarse Per lo increspar retrogrado de l' onda, Pel lume fier che sovra l'argin arse, E per la polve attorcigliata in suso, Che si folta ne gli occhi a me si sparse, Ch'io co le man difesi il ciglio chiuso. Varano, visione II. CXXXVII. Il fenomeno detto la Fata Morgana, al faro di Messina. Null'aria commovea l'acque, nè vento; Pur gonfio il mar sicano insorse e nero, E il calabro spianossi, e qual argento Lustro fosse, di sè fe specchio vero In questo pel chiaror cristallo fido Tante in magin vid' io, che a l'alma parve Che l'occhio fosse in presentarle infido. D'infinite colonne un lungo apparve Ordin egual; ma in un baleno monche Sembrar, chè la metà somma disparve; E in quella parte ove rimaser tronche, Si spiegar tutte, e di sè fer molt' archi Rozzi, e simili a quei de le spelonche, Che si mostraro a l'improviso carchi Di vaghissime torri e di castella; E anch' esse, qual fumo che l'aria varchi, Spariro, e in vece lor nacque novella Di piramidi sculte aspra foresta, In li ampia valle a fiori pinta e bella; E in mille colli e in mille armenti que[sta Cangiossi ancor; tal ch'io sclamai: tra✪ sogno forse con pupilla desta? [veggo? Varano, visione V. CXXXVIII. L'aurora boreale. Colà, dove Aquilon serba i ridutti Gelidi venti, che poi scioglie irato Contra le selve annose e i salsi flutti, Dal polo fin de l' oriente al lato, Con luce di sanguigno ardor feconda Si tinse il taciturno aere stellato; Tal che de l' Eridan presso a la sponda Ne rosseggiaro al ripercosso lume [da. Gli uomin,le navi, i tronchi e l'erbe e l'onMentre, seguendo il nuovo suo costume Ardea purpureo il ciel, gli apparve al [ lembo Un, che l'aure inondò, ceruleo fiume; E globi che splendean come pianeti, Ben conobb' io nel meditar le viste Fiamme dipinte con mirabil'arti Raccolte da natura e fra lor miste, Che i sottili nitrosi efflussi sparti Dal gelo acuto per gli aerei campi Salir dal zolfo ad irritar le parti Dal sole attratte, quando avvien cheavAlto del Cane sotto l'ignea stella, [vampi E allor scoppiaro in color varii e in lampi. Sparia, poi riaccendeasi ogni facella; Ed era or l'ostro illanguidito, ed ora Fea di vivo fulgor mostra novella. Varano, visione V1. CXXXIX. La tempesta di mare. Ei tesi lini a un aquilon leggiero. Spiegando, qual se avesse a i fianchi penne, Radea col volo il liquido sentiero; Si che inocchieri al lor periglio intenti Salir pe' gradi a l'aspre corde intesti Le agitate a raccor tele stridenti Fra i sibili del vortice funesti, Cui resister mal puote Ercinia e Ardenna; Ma tal fe la procella impeto in questi, Che duo di lor, in men che il dito ac [ cenna, L'ampia vela aggruppando a l'arbor carco, Divelti fur da la tremante antenna: E come augei l'aure fendendo in arco, Dopo un languido oimè sparver assorti De' golfi irati nel terribil varco. Notte recando e verno erravan sorti Nel tenebrato ciel nuvoli spessi, Che ricoprian di nebbia i lidi e i porti; Ed al crescer de l'ombre i flutti stessi Parean del legno sormontar le sponde, Crescendo mole e feritade in essi. [de, Venian pugnando insiem grossissim'onAltre a proda, altre a poppa, e fean in [ parte Or monti erti, or voragini profonde; E ognor del mare a la gonfiata parte Levavasi la nave, e al sen più basso Avvallando rendea delusa ogni arte. Noi pel terror immoti a par d'un sasso Restammo in pria; ma la vicina morte I piè ci sciolse, ed affrettonne il passo A librar, benchè invan, col pondo forte De'corpi il lato, in cui per l'urto esterno S'ergea troppo l'abete in dubbia sorte: Ma pel gran moto ad ambo i lati alterno Lassi cademmo, e il nostro inutil corso I tempestosi fiotti ebber a scherno. Privi di Sol, di guida e di soccorso, Stesi sul pian del legno combattuto, Squallidi per immenso mare scorso, Piagneam col timonier, che avea per[duto Fra le infinite acque e l'orror notturno Lena e consiglio, e temea smorto e muto Gli ultimi abissi, ove un crudel vul [ turno Traportator spignea la poppa errante. Varano, visione VII. CXX. Il prato. Spinsi, qual uom mosso da voglie strane Di cammin novo, su i parmensi liti [ venne Le piante da la via retta lontane; Quando a gonfiar l'onde improvviso Turbin, e il mare fra contrarii venti E campi attraversando, e rinverditi Solchi ove in frondi par che sviluppato Il seme a biondeggiar le spiche inviti, Dopo un bosco da querce annose om[brato, Giunsi in aperto piano, in cui senz' arte Stendeasi ricco di germogli un prato. Il vasto loco pien di vario-sparte Folte erbette, che nulla arbor, nè fratta Con intralciati rami ingombra o parte, Dolce allargommiil cor, cui sembra in[tatta A par del guardo aver sua libertate, Or da capanna vil, su cui serpea Rozzi obbietti al pensier; ma la rozzezza Scorrea la morbidissima verzura E quelle umili piante e rugiadose Mentre il passero grigio, e la delusa Spesso da'rai de gli aggirati specchi Lodola, e a l'arduo vol la rondin usa, Aleggiando scegliean i levi stecchi Il suolo, ove arator non mai si duole Che a fecondarne i germi indarno ei suDi cui cultor è con Natura il sole, [di, Si adescato m'avean, che a me que'ruCampi s'offrian leggiadramente ameni [di Più assai de'colti co'più eletti studi. Varano, visione x. CXLI. Il deserto. Mi trovai dentro a vasti campi aperti, Ivi si ergea; ma sol di sabbia piene Sfumando i confin lor ne le serene Vie dell'etere azzurro. Unica al guardo Lungi splendea ne le solinghe arene Mole alta fin dove ferir può dardo, E colà il grande e non più visto obbietto M'invitò il passo per tristezza tardo. Sul terren da qualunque arte negletto Maravigliando io gia che l'occhio avvezzo Si a lungo fosse a non mai vario aspetto; Ch'io dal Sul non varcava a l'ombra e [al rezzo Ma sempre egual fendea lume, e la stessa Aria nullo spirante odor, nè lezzo; E sol qua e là de la men grave e spessa Arena sorgea fuor con fiacche forze Macchia di spini appena sorta e oppressa, Ch'io m'avvidi esser nido in cui rinforze Vipera od aspe il giovanil veleno Da le svestite loro aride scorze. Varano, visione VL CXLII. La sorgenti dell' Arno. Vago di penetrar perchè Natura Non mai d'Arno gli umori appien consumi, E incerto ancor se del mar l'onda impura Per sotterranee ghiaje e chiusi dumi Feltrata salga a le montagne, e scenda Partita in rivi ed in perpetui fiumi; lo l'erta ascesi d'una roccia orrenda, Che in mezzo a l'appennine Alpi nevose Le vie tosche e l'emilie avvien che fenda; Ch'ivi scontrando ognor le rigogliose Acque scorrenti da l'origin prima Disvelarne credei le fonti ascose. Stendeasi larga quell'alpestre cima In scabri sì, ma rinverditi prati, Benchè ad aspro soggetti indocil clima. Questi d'argin informi e di solcati Cento scorgeansi in essi, ove serbosse La pioggia, late vasche, altre già vote D'acqua, altre sceme, altre ricolme e gros Di là salii balze più eccelse, e note [se. Solo a i rapaci augelli, e trovai boschi, Spelonche e abissi, in cui giaceano immote Le nevi e ghiacci, o splenda il giorno [o infoschi, Non mai squagliati, perchè troppo inerte È il sole a riscaldar quegli antri foschi. ' Vidi in altre caverne al ciel scoperte |