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ad essa, prima che ad altro terzo che in noi sia. Ultimamente dice che quello ch'è detto (cioè: che ogni vertù morale venga da una radice; e che vertù cotale e nobiltà convengano in una cosa, com'è detto di sopra; e che però si convegna l'una redurre all'altra, ovvero ambe a un terzo; e che se l'una vale quello che l'altra, e più, di quella procede maggiormente, che d'altro terzo) .tutto sia per (1) supposto, cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s'intende: e così termina questo verso e questa presente parte.

CAPITOLO XIX.

Poichè nella precedente parte sono pertrattate tre certe cose determinate, ch'erano necessarie a vedere come definire si possa questa buona cosa, di che si parla, procedere si conviene alla seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunque virtute. E questa si vuole E in due parti reducere. Nella prima si prova certa cosa, che dinanzi è toccata, e lasciata non provata : nella seconda, conchiudendo, si trova questa difinizione, che cercando si va; e comincia questa seconda parte: Dunque verrà, come dal nero il perso. Ad evidenza della prima parte da reducere a memoria è, che di sopra si dice, che se nobiltà vale e si stende più che vertù, piuttosto procederà da essa; la qual cosa ora in questa parte prova, cioè (2), che nobiltà più si stenda, e rende esemplo del Cielo, dicendo che dovunque è vertù, quivi

(1) La lezione del Biscioni è tutto sia per opposito. Il cod. Gaddiano 135 primo ha: sia proposito. Ma come debba correttamente leggersi ci viene additato dalle parole con cui termina la quinta stanza, o, come dice l'Autore, il quinto verso della Canzone qui comentata.

(2) Tutti i testi erroneamente ciò, eccettuato il Vat. 4778, il quale però ha laguna del verbo prova.

299 è nobiltà. E quivi si vuole sapere che (siccom'è scritto in Ragione, e per regola di Ragione si tiene) a (1) quelle cose che per sè sono manifeste non è mestieri di pruova; e nulla n'è più manifesta, che nobiltà essere dov'è vertù; e (2) ciascuna cosa volgarmente vedemo in sua natura (3) nobile essere chiamata. Dice adunque: Siccom'è 'l Cielo dovunque la Stella; e non è questo vero e converso (4), che dovunque è Cielo sia la Stella; così è nobiltate dovunque vertù ; e non vertù dovunque nobiltà (5). E con bello e convenevole esemplo. Chè veramente è Cielo, nel quale molte e diverse stelle rilucono; riluce (6) in essa le intellettuali e le morali vertù; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè pietà e religione; le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine: e tante sono le stelle che (7)

(1) Di questo a è laguna in tutti i testi.

(2) La copulativa e è mancante essa pure ne' mss. e nelle stampe.

(3) in sua natura qui va spiegato come se dicesse: in sua perfetta natura, o in tutta sua natura, o similmente. E Dante vuole significare, che nissuno ricusa di chiamar nobile quella cosa che ha in sè manifestamente il requisito della nobiltà, che negli uomini è la virtù, secondo ch'egli ha di già lungamente provato.

(4) Qui abbiamo levato il manifesto glossema de' copisti: «<e » converso, cioè rivolto. »

(5) Il lettore che desiderasse maggiore chiarezza potrebbe leggere nel modo seguente: e non vertù dovunque è nobiltà, che con bello e convenevole esemplo, veramente è cielo, nel quale ecc.

(6) riluce per rilucono, il singolare in vece del plurale, come in que' versi del Poema (Inf. 13. 43):

» Così di quella scheggia usciva insieme

» Parole e sangue ; ecc.

(7) Tutti i testi qui leggono oscuramente: e tante sono le stelle che dal cielo si stendono ; ma poichè prima parlasi più

nel suo Cielo si stendono, che certo non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno nella umana nobiltà, tante sono le nature e le potenzie di quelle, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate, nelle quali siccome in diversi rami fruttifica diversamente. Certo daddovero ardisco a dire che la nobiltà umana, quanto è dalla parte di molti suoi frutti, quella dell'Angelo soperchia, tuttochè l'angelica in sua (1) unitade sia più divina. Di questa nobiltà nostra, che in tanti e in tali frutti fruttificava, s'accorse il Salmista quando fece quel Salmo che comincia : « Signore »> nostro Iddio, quanto è ammirabile il nome tuo nel» l'universa terra!» là dove commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto (2) a essa umana creatura, dicendo: «Che cosa è l'uomo, che tu Iddio lo » visiti? L'hai fatto poco minore che gli Angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere (3) delle tue mani.» Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del Cielo alla umana nobiltà! Poi quando dice: E noi in donne, ed in età novella, prova ciò che dico; mostrando che la nobiltà si stenda in parte dove vertù non sia; e dice: (4) noi Vedem questa salute; tocca nobiltade (che bene è (5)

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volte di stelle e di virtù che rilucono, forse qui è da leggere: nel suo Ciclo risplendono.

(1) Così legge il cod. Vat. Urb. con sintassi più scorrevole che la volgata: tuttochè l'angelica sia in sua unità più divina. (2) Le stampe hanno del divino effetto, e essa umana creatura ecc. Noi abbiamo adottata la bella e corretta lezione del cod. Barberino.

:

(3) sopra l'opere, leggono il cod. Barb., il Vat. Urb. ed il Gadd. 134. Anzi il Vat. Urb. porta: e posto l'hai sopra le opere delle mani tue. Il Biscioni ha: sopra l'opera; assai meno bene de' due testi citati, perocchè la sentenza del Salmo è in plurale.

(4) Il codice Vat. Urb.: e dice poi: Vedem ecc.

(5) Le stampe: che bene e vera salute. Nè vuolsi tener conto

vera salute) essere dov'è vergogna, cioè tema di disonoranza, siccome è nelle donne e nelli giovani, dove la vergogna è buona e laudabile: la qual vergogna non è vertù, ma certa passion buona. E dice: E noi in donne, ed in età novella, cioè in giovani; perocchè, secondochè vuole il Filosofo nel quarto dell'Etica, vergogna non è laudabile, nè sta bene ne' vecchi, nè negli uomini studiosi; perocchè a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna gli inducono. Alli giovani, nè alle donne non è tanto richiesto (1) (dico tale riguardo); e però in loro è laudabile la paura del disonore ricevere per la colpa: che da nobiltà viene e nobiltà si può credere il loro (2) timore, e chiamare, siccome viltà e innobiltà (3) la sfacciatezza; onde buono e ottimo segno di nobiltà è nelli pargoli e imperfetti d'etade, quando, dopo il fallo, nel viso loro vergogna si dipigne, ch'è allora frutto di vera nobiltà.

de' codici, perchè ognuno sa che gli amanuensi trascuravano i segni ortografici. Al che se avessero badato gli editori troppo devoti de' mss., non avrebbero pubblicati tanti spropositi a carico de' poveri autori.

(1) I mss. e le stampe leggono concordemente: non è tanto richiesto di cotale; e però in loro è laudabile ecc. Nel SAGGIO, pag. 77, parendoci che vi fosse laguna del sustantivo riguardo, non abbiamo esitato ad aggiugnerlo, e leggemmo: non è tanto richiesto di cotale riguardo. Ora ne sembra che, tenendo ferma l'aggiunta, sia da emendarsi come si è fatto nel testo.

(2) Questo passo così si legge in tutti i testi: e nobiltà si può credere il loro chiamare; e ognuno s'accorge che havvi laguna. A noi pare di averla bene supplita coll' aggiugnere il subbietto che si può credere nobiltà, il quale mancava da prima, e non poteva supporsi compreso nel v. chiamare, quando anche si pretendesse usato a modo di nome; nè in chinare, come vorrebbe che, in luogo di chiamare, si leggesse monsignor Dionisi.

(3) Il cod. Vat. Urb.: siccome viltade ed ignobilitade ecc. Il Barb.: ignobilità.

CAPITOLO XX.

Quando appresso seguita: Dunque verrà, come dal nero il perso, procede il testo alla difinizione di nobiltà, la quale si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobiltà, di che tanta gente erroneamente parla. Dice adunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è, dunque ogni vertute, ovvero il gener lor, cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobiltà. E rende esemplo nei colori, dicendo: siccome il perso dal nero discende; così questa, cioè vertù, discende da nobiltà. Il perso è un coJore misto di purpureo e di nero, ma vince il nero, e da lui si denomina: e così la vertù è una cosa mista di nobiltà e di passione; ma perchè la nobiltà vince quella, e la vertù denominata da essa è appellata bontà. Poi appresso argomenta per quello che detto è, che nessuno per poter dire : Io sono di cotale schiatta; non dee credere essere con essa (1), se questi frutti non sono in lui (2). E rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia, cioè questa divina cosa, sono quasi come Dei, sanza macola di vizio: e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, siccome le Divine Scritture manifestano. E non paja troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: Ch'elli son quasi Dei; chè, siccome di sopra nel settimo Capitolo del terzo Trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini. E ciò prova Aristotile nel settimo dell' Etica per lo testo d'Omero (3) poeta ; sicchè

(1) Sottintendi nobiltà.

(2) con lui, P. E.

(3) Il testo d'Omero, che può vedersi anche nelle citazioni in

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