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pio disgiunto affatto da quello di nobiltà vera. Or qui non potrebbe egli mettere innanzi un'idea contraria, accennando che il più o il meno dei beni della fortuna concorrer possa a far sì che in un'anima possa o no risplendere il raggio divino di quella nobiltà di cui parla. Di più, quel forse non è dell' indole dell'argomentare sempre positivo, proprio di Dante. In fine non corrisponde al testo medesimo della Canzone, dov'è scritto: che la nobiltà è una grazia che Dio dona a quell' anima che vede star perfettamente nel suo corpo. (V. Cap. III. v. 116.) Ed ha già detto poc'anzi (v. 34.) che la nobiltà è torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente.

N. XL.

Pag. 306. potrebbe essere che la verità si vedrebbe essere

in tutte.

Tutti gli antecedenti dimandano che (giusta l'avviso dato già dagl'illustri Editori) leggasi nobiltà in luogo di verità. Mi sia permesso accennare soltanto, che forse (per ciò che dimostra il susseguente periodo: E però dico ec.) potrebbe combinare ancor meglio legger virtù. In qualunque modo qui verità non ha luogo.

N. XLI.

Pag. 320. per accidentale infertade.

Infertà e infertade, in luogo d'infermità e infermitade, sono voci registrate anche nel Vocabolario con esempj d'altri autori antichi. Ma essendo manifesto che le due prime non altro sono che uno storpiamento delle due seconde (la legittima indole delle quali è dimostrata dal latino infirmitas), non crederei che nel fior della lingua e nel testo di Dante convenisse salvarla, a dar vita a sconciamenti siffatti, che appartengono piuttosto agli usi del volgo, che non alla proprietà dello scrivere. Ben avvisano infatti gl'illustri Editori che alcuni codici leggono infermità, • infermitade.

N. XLII.

Pag. 322. (6) e questo basti alla presente digressione: e poi volgi; così l'edizione volgata.

Ben saviamente gl'illustri Editori del Convito hanno tralasciato le ultime parole e poi volgi, qualificate per appicco di qualche copista postovi prima di voltare la carta. Queste parole nullameno, che si vedono in tutte le stampe e in tutti li codici, valsero a me un avviso che non sarebbe di poco momento, se portasse a cognizione del vero. Considerato infatti che tutto il Cap. XXIII. serve al comento delli versi 121. 122. 123. 124. della Canzone, mi condussero elleno a sospettare che, finita la digressione, continui il Capitolo, e che quindi un brano del Cap. XXIV. debba essere restituito all'altro che lo precede. Ne volli tosto cercare una prova; e conobbi di fatto che tanto nella Canzone quanto nel Comento l'Allighieri parla prima dell'età in generale, poi di ogni età in particolare, e quindi delle virtù morali che ad ognuna di esse debbono corrispondere. M'avvidi pertanto, che non continuando il Cap. XXIII, sino alle parole della natural vita (pag. 325), la materia delli due Capitoli rimarrebbe intralciata

e non ben disgiunta, come dimanda la diligenza di un Autore, che in punto d'ordine e in attenzioni di tal indole è tanto esatto da non credere che possa andare congiunto sì vasto ingegno a sì minute cure e sollecitudini. Proporrei adunque che il Cap. XXIII. fosse continuato sino alle parole citate della pag. 325, e che il Cap. XXIV. avesse principio da quelle che seguono: Per tutte queste etadi ec.

N. XLIII.

Pag. 324. ma presso ad otto mesi.

Gl'illustri Editori avevano già pensato alla correzione di mesi in anni; ma poi li tolse da quel consiglio il sospetto che Dante inchiuda la puerizia nell'adolescenza. Or io sottopongo alla loro dottrina quelle considerazioni che troncano, lo spero almeno, ogni dubbio. A pag. 320 è già indicato da Dante esservi tra le età della vita umana il basso stato della puerizia. Or egli avvisa che l'adolescenza non comincia dal principio della vita; appunto perchè non inchiude nell'adolescenza questo basso stato della vita, che è la puerizia. Manifestamente poi dopo la senettute computa dieci anni, o poco più o poco meno, di senio; ed è appunto per formare la corrispondenza cogli otto anni che precedono l'adolescenza. Più chiaramente ancora. Dante insegna, che come l'adolescenza non principia la vita, così non la termina la senettute; e siccome sonvi otto anni di basso stato di puerizia, così vi sono dieci anni, o poco più o poco meno, di senio. Il convincimento sarà fatto maggiore, dato che sia uno sguardo alla seguente

ANNI

Tavola dell'età dell'uomo secondo la dottrina di Dante,
e dell'ufficio proprio d'ognuna.

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Uomini, studiate Dante, studiatelo bene, e in questa breve e misera vita sarete meno infelici. Egli vi scorge a DIO.

N. XLIV.

Pag. 334. Questo appetito mai altro non fa, che cacciare e fuggire.

A più pronta intelligenza di quello che segue porrei in nota, che questo cacciare qui sta nel senso del lat. venari, non già dell'expellere o del fugare. È infatti dell'appetito umano o l'andar dietro ad un oggetto per ottenerlo, o far tutto per evitarlo. Cacciare è del primo; fuggire del secondo caso.

N. XLV.

Pag. 339. e buona provvedenza delle future.

È del savio ricordar bene il passato, conoscer bene il presente, preveder bene intorno al futuro. Or provvedere non si dee mai confondere col prevedere. Eppur vedo che nel Vocabolario della Crusca non è poca la confusione delle voci e degli esempj riguardo ai vocaboli Provedenzia - Provvedenzia - Provedenza - Provvedenza - Provedere - Provve dere ec. ec., tanto che in italiano ognuna potrebbe essere adoperata in due sensi affatto diversi, sia pel latino providere, che pel latino prævidere. La confusione è derivata per certo da poca differenza di lettere nei due vocaboli, e da molta ignoranza nei copiatori. Comunque sia, nel testo di Dante collocherei per diritto il legittimo previdenza in confronto dell'intruso provvedenza, il quale si merita la condanna già pronunziata nella Proposta contro tant'altre simili voci, bruttura di volgo e storpj di

amanuensi.

N. XLVI.

Pag. 345. questi fu padre di Telamon, di Peleus e di Foco.

Parmi consentaneo alla regola usata dagl' illustri Editori rispetto ad altri moltissimi nominativi delle storie antiche o delle favole, che si scrivano del pari al modo volgare anche li due Peleo e Telamone.

N. XLVII.

Pag. 348. nè il nobilissimo nostro Latino Guido Montefel

trano.

Dante in questo luogo del Convito loda il Conte per la risoluzione presa, nella sua grave età di 74 anni, di ritirarsi in un chiostro; e notano gli Editori, che Dante medesimo nel Poema (Inf. C. XXVII. v. 67) lo colloca nell'Inferno: dal che sembra, scrivono essi, avervi contraddizione tra questo passo del Convito e quello della Commedia; la quale per altro, soggiungono, sparirà agli occhi di chiunque pensi che ivi Dante parla da poeta, e qui parla secondo la storia. Il Mazzoni nella Difesa (lib. IV. c. 10.) aveva notato pur esso un intoppo eguale; ma, per torsi d'impaccio, aveva proposto che Dante nel Convito parlato aveva come semplice filosofo morale, e nella Commedia come teologo. Or si perdoni al solo amore della verità se per mezzo di una semplice distinzione di epoche mi tengo sicuro non solamente di aver fugato ogni dubbio di contraddi

zione in Dante, ma di aver messa in pienissima luce una nuova prova, che l'Autore della Commedia, e come storico e come filosofo e come teologo, è sempre una cosa sola: il Cantor della rettitudine.

Da quando il Conte veste l'abito di S. Francesco in Ancona (15 Novembre 1296) a quando muore in Assisi (28 Ottobre 1298) non corrono che 22 mesi e 15 giorni. Dal giorno in cui l'uomo del secolo, il guerriero temuto, il Ghibellino imperterrito si allontana dalla scena del mondo, e si merita la lode dello scrittor del Convito, da un tal giorno, dico, sino a quello ch'è l'ultimo della sua vita, avvien egli nulla di strepitoso e notorio, per cui lo scrittore della Commedia (dopo l'anno 1500) dovrà punirlo di una vocazione pochi mesi dopo smentita? Si. Il claustrale, chiamato da Bonifazio, torna a meschiarsi nelle faccende della guerra e del mondo, e nel 1297 dà l'astuto consiglio per cui è presa -la città di Preneste. Se dunque Guido il vecchio, che si toglie alle cure del mondo, diventa esempio di virtù nel 1296, e si merita la pubblica lode datagli nel Convito; Guido il claustrale, che mesi dopo torna a meschiarsi nelle brighe di Bonifazio, smentisce la sua vocazione, e si merita il biasimo che dopo morte e dopo il 1300, cioè quando era venuta ben in chiaro la cosa, gli appone a perpetuità il Cantore della Commedia.

E tanto è lunge da Dante la taccia di contraddizione, che anche nell'Inferno (C. XXVII. v. 84) il Conte si loda di quella sua prima conversione, che gli sarebbe giovata; e maledice (v. 106) ai pravi argomenti che lo hanno sedotto da poi. Or non vedo quali sudori (come scrive il Foscolo: Discorso, §. CXVIII.) costar dovesse a Dante il collocare prima nel Convito, poi nella Commedia due giudizj affatto diversi, quanto li fatti ai quali si riferiscono. Rimane soltanto da notare a questo luogo, che da tutto ciò emerge composto il Trattato IV. del Convito tra l'anno 1296 e 1298, prima che la città di Preneste fosse presa dal pontefice Bonifazio, e prima che fosse ben nota la pratica relativa.

N. XLVIII.

Pag. 356. per esemplo del buono Fra Tommaso d'Aquino.

Dante nel Poema (Purg. C. XX. v. 69, Par. X. 98, XII. 110 e 144, XIII. 32, XIV. 6) colloca il santo Dottore nella più alta gloria dei comprensori celesti; ma non lascia di qualificarlo, qual era ancora prima della canonizzazione, Fra Tommaso. In questo luogo poi del Convito non porta si avanti la sua gloria, e lo chiama soltanto il buono. Se ne ha la causa in questo, che quando Dante scriveva il Poema, il della processo canonizzazione di S. Tommaso era di già introdotto pubblicamente; non per anche quando componeva il Trattato IV. del Convito. Abbiamo infatti dai Bollandisti, che Tommaso non fu posto nel novero dei Santi che nel 1323, due anni dopo la morte di Dante, e che invece il della processo canonizzazione fu incominciato quattro anni prima, cioè nel 1319. Poteva dar quindi il Poema quasi per certo quello che la Chiesa predisponeva ad esaltazione dell'Angelo delle scuole. All' opposto quando Dante scriveva questo Trattato, cioè nel 1997, erano appena 23 anni passati dalla morte di lui, avvenuta nel giorno 7 Marzo del 1274, quando il santo Dottore, nato nel 1225, contava appena 49 anni di età. Si vede quindi che nel Convito sarebbe stato arrischiato un epiteto qualunque di santità che doveva prima essere esaminata,

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ARGOMENTI

DELLI TRATTATI E CAPITOLI COMPONENTI IL CONVITO

DI DANTE ALLIGHIERI

TRATTATO I.

Introduzione al Convito: difesa del vulgare eloquio,
in cui è scritto.

CAPITOLO I. L'uomo è mosso naturalmente a sapere: non tutti possono ottener questo fine: chi sa, deve altrui liberalmente largire il cibo della Sapienza: è di questo cibo che s' imbandisce il convito mediante la sposizione di quattordici Canzoni. pag. I.

CAPITOLO II. Si scusa l'Autore del dover parlare di sè, e troppo a fondo del suo argomento: mostra quando e con qual fine sia permesso parlare di sè, e dà gli esempi di Boezio e di S. Agostino: accenna che la sostanza delle sue Canzoni, mosse da virtù, non da passione amorosa, sta nascosta sotto figura di allegoria ignota a tutti, s'egli non la dichiara. p. 7.

CAPITOLO III. Si scusa l'Autore per quel po' di durezza che si troverà nel Convito: ne accenna la causa nel suo infortunio; colpito dal quale, mostra come possa essere diminuita a suo scapito la stima di taluni, sebbene a torto. p. 13.

CAPITOLO IV. Aggiunge che procurò di scrivere con più di gravità il Convito, a compenso di quello che, per essersi fatto conoscere di persona a tutti quasi gl' Italici, può avere discapitato nella loro opinione. p. 16.

CAPITOLO V. Entra a provare che in questa sua opera doveva far uso del Volgare e non del Latino, per convenienza di ordine, essendo le Canzoni scritte in Volgare; ond'è che un Comento latino sarebbe stato superiore ad esse per nobiltà, virtù e bellezza di lingua. p. 19.

CAPITOLO VI. Aggiunge che il Latino sarebbe stato come servo non conoscente del suo padrone e degli amici suoi, perchè il Latino non comprende la cognizione del Volgare, e non è comune a quanti parlano il Volgare. p. 23.

CAPITOLO VII. Segue a mostrare che il Latino a gran pena s'avrebbe potuto accomodare al Comento delle Canzoni volgari, perchè il superiore mal segue il comando dell'inferiore; perchè il Latino ha già nelle sue scritture molte parti delle

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