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è riposto nel mio grembo ed è nutricato del mio latte e cresciuto e allevato del mio pane, e oggimai compiuto e grande fatto, come ogni uomo; e ha in sè tanto iscaltrimento di malizia e della reitade del mondo, ed è si desideroso d'avere e degli onori e delle cose mondane, che già mi soperchia di malizia, e non mi posso vantare che io in me n'abbia cotanta. E ha una bellissima favella, e in Dio non ha alcun intendimento. Se voi ancora da capo volete fare nuova legge, contraria a quella di Dio, e insegnarla a costui, e farla per lo mondo predicare, questi la farà credere per legge di Dio, e corromperanne tutte le genti, e farà ispegnere la verace fede cristiana, e rimetterà l'uomo in nostra podestà; ma vorrà per queste cose da noi essere beneficiato grandemente. Ed egli metterà a campo tutti i nostri intendimenti.1

Al detto consiglio s'accordarono tutti i demonj e le furie infernali; e fu comandato che piu non si dovesse aringare in su quella proposta. E quando fu il consiglio tutto partito, si ragunarono i demonj d'inferno, e feciono nuova legge contraria a quella di Dio e tutta d'altre credenze, e chiamaronla Alcoran; e insegnaronla a Maometti perfettamente, perchè l'avesse bene a mano. E poi dissero: Va'e predica questa legge, e di' che sia data da Dio; e noi saremo sempre teco in tutte le tue operazioni; e se tu ne farai questo servigio, e andrà innanzi per lo tuo fatto questa legge, noi ti daremo molte ricchezze e signoria di molte genti, e distenderemo la tua fama e avanzeremo lo tuo nome, e faremolo glorioso nel mondo più che non fu unque niuno che nascesse di femmina. Quando Maometti s'udi fare queste impromesse, essendo uomo molto mondano e di vanagloria pieno, e di Dio non avea alcuno pensamento; e sentendosi scaltrito delle malizie del mondo e con una bella favella e bene acconcio a queste cose, pigliò questa fede, e cominciolla a predicare oltremare, acciocchè la fede cristiana, che era a Roma a quella stagione, non se ne potesse avvedere. E convertivvi in piccolo tempo molta gente, tra per suoi scaltrimenti e per l'aiuto de' demonj, e appellasi Alcoran, e appo noi legge pagana.

Allevata e cresciuta questa legge pagana nelle parti d'oltremare, e creduta per legge di Dio da molta gente, i demonj d'inferno la condussono con tutto loro isforzo là dove le Virtù co' Vizj faceano le battaglie, e appellò a battaglia la Fede cristiana; e allora s'accorse di prima la nostra Fede di questa resía, e cominciossi in questo modo a lamentare: O Iddio onnipotente, verranno mai meno le mie fatiche? Vederò io mai tempo ch' io mi possa riposare? Ecco in mezzo della grande pace ch'avea, essendo tutti i miei nemici vinti,

1 Metterà fuori, accamperà come a battaglia tutto ciò che è nostra intenzione,

e convertite tutte le genti del mondo alla mia fede, m'è nata ora di nuovo crudele guerra, e sì di subito, che non me ne sono potuta avvedere. Bene veggio che chi ha a fare con così reo nemico come è Satanas, non si dee mai disarmare, perchè di subito assalisce le genti. O Satanas, nemico di Dio, rimarra'ti tu mai di trovare novitade per tôrre a Dio le anime degli uomini, che sai che sono di sua ragione e furono fatte da lui per avere paradiso, e perche riempiessono le sediora vuote di paradiso che perdesti? Bene ti converrà essere ingegnoso, che il possi ingannare o trarre a drieto i suoi proponimenti: è accorgomi per quello che tu fai, che la fede è la migliore virtù che l'uomo possa avere in questo mondo a potersi salvare, per tanti ingegni t'assottigli di provare l'uomo, e di farlo cadere in errore. E quando ebbe cosi detto, rifece incontanente sua oste nuova, e ragunò grandissima gente, perchè la vecchia era partita: e, apparecchiata d'ogni cosa, tornò al campo per combattere colla Fede Pagana. E quando di ciascuna parte furono fatte le schiere e le genti ammonite di ben fare, si cominciò tra queste due Fedi una battaglia si terribile e grande, e di mortalità di tutta gente, che mai non ne fu niuna somigliante, ove tanta gente perisse. Ma al dassezzo perdė la Fede Cristiana per lo grande aiuto de' dimonj, e fu cacciata di tutta la terra d'oltremare; e tutta la gente che abitavano di là si converti a quella fede, e appellaronsi Saraceni.

Vinta la Fede Pagana tutta la terra d'oltremare e convertite alla sua legge tutte le genti, colse baldanza sopra la Fede Cristiana; e fece fare molto navile, e passò il mare, e venne di qua con grandissimo istuolo di gente, e arrivò nelle parti di Sicilia. Quando la Fede Cristiana udi queste novelle fu molto dolente, perchè non avea gente che con lei si potesse assembrare, per la grande perdita che avea fatta nell'altra battaglia; però non le si fece a rincontro, ma guerni cittadi e castella per difendersi da lei, se potesse, chè non perdesse più terra. Ma non valse niente, perchè poscia la Fede Pagana fu iscesa in terra colla sua gente e il suo naviglio ebbe allogato ne' porti di Sicilia, non si vide rincontro di nemico, onde avesse paura, e venne pigliando tutta la terra in qualunque parti andava; sicchè in piccolo tempo tutta Italia conquistò. E dacchè ebbe Italia vinta, ch' era donna delle provincie a quella stagione, tutti gli altri reami e provincie feciono le comandamenta e giurarono la fedeltà, se non solamente il reame di Francia: e convertirsi alla Fede Pagana tutte le genti, e ispensesi la Fede Cristiana per tutto il mondo, sicché in niuna parte palesemente si predicava; avvegnachè ne fossero molti credenti, ma non palesemente.

1 Dopo che.

SECOLO DECIMOQUARTO.

NOTIZIE STORICHE.

Il pontefice Bonifazio VIII, dopo aver inaugurato il nuovo secolo con un solenne giubileo, volgendo in mente ambiziosi pensieri di primato temporale e per sottrarsi al pericolo che gli sovrastava, qualora Alberto d' Austria e Filippo IV il Bello si fossero collegati contro di lui, riconobbe l'imperatore austriaco, e sperò di averlo compagno a reprimere la baldanza del re francese. Ma Filippo non poteva essere cosi di leggieri spaventato nè illuso; e nel settembre del 1303 mandò Guglielmo Nogaret in Italia, il quale con Sciarra Colonna e con altri, già guadagnati da lui, e nemicissimi del papa, fece prigioniero Bonifazio in Anagni (8 settembre 1303). Una tradizione, accolta anche dall' Alighieri (Purg., c. XX), aggiunge che il vecchio pontefice fu trattato durissimamente, e che Sciarra Colonna trascorse fino a dargli uno schiaffo. Veramente, il popolo dopo tre giorni lo tolse loro di mano e lo condusse a Roma quasi trionfante; nondimeno il dolore e lo sdegno di quell'ingiuria soverchiarono le sue forze, e ne mori poco appresso, addi 11 ottobre 1303 in età di ottantasei anni.

Benedetto XI, che gli successe, tenne il pontificato soltanto nove mesi; poi morì in Perugia (1304) dov' erasi trasferito per la poca sicurezza di Roma. Suo successore fu Bertrando di Goth (1305-1314) arcivescovo di Bordeaux, creatura di Filippo il Bello re di Francia: e poichè gli Orsini e i Colonnesi, potenti di ricchezze e di fautori, tenevano sempre Roma sossopra e infermo il pontificato, riuscì facilmente a Filippo di persuaderlo a lasciare un paese, dove non avrebbe potuto essere nè autorevole mai nè sicuro. Il nuovo eletto andò quindi tramutandosi per varie città della Francia; coronossi nel 1305 in Lione prendendo il nome di Clemente V, e fermò la sua sede in Avignone nel 1308. Dalla elezione di Clemente V, o dal momento che egli si stabili in Avignone, comincia per la Chiesa quel periodo storico, durato sino al 1377, che suol denominarsi « Cattività di Babilonia. »

In questo medesimo anno (1o maggio 1308) morì Alberto d'Austria: laonde Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, sollecitava Clemente V ad effettuare la promessa di Bonifazio VIII, coronandolo imperatore: ma quel pontefice propose segretamente Arrigo conte di Lussemburgo, temendo la soverchia grandezza a cui la Casa di Francia sarebbe salita acquistando la dignità imperiale. Essa fu dunque conferita ad Arrigo, settimo di questo nome.

Quest' imperatore fu il primo, da Federigo II in poi, che pas

sasse le Alpi (1310) e tentasse almeno di ridestare in Italia l'autorità dell'imperio e la parte ghibellina. Nel suo viaggio ricondusse in Milano Matteo Visconti, che n'era stato espulso dalla fazione guelfa de' Torriani; i quali perdettero allora e stato e patria per sempre. Matteo fu eletto vicario imperiale, e in breve tempo (dal 1310 al 1315) s'impadroni di Piacenza, Bergamo, Novara, Pavia e di molte altre città. Ad Arrigo, diedero favore in quella spedizione i Signori di Lombardia, i conti di Savoia, i Pisani e Federigo I d'Aragona re di Sicilia. Gli si opposero i Guelfi di Toscana, specie i Fiorentini, e Roberto d'Angiò re di Napoli, il quale col favore della parte guelfa aspirava al dominio di tutta Italia. E fu tale e così vivo il contrasto ch'egli trovò in Lombardia e in Toscana, accompagnato dalle occulte mene della Curia papale, ch' egli, ormai disanimato, mori a Buonconvento nel territorio di Siena addi 24 agosto 1313, mentre avviavasi a combatter Roberto nel proprio suo regno: la sua sepoltura è nel camposanto di Pisa. Cosi furono tronche le speranze de' Ghibellini.

Vuolsi notare per altro che, al tempo del quale parliamo, nè i Ghibellini volevano propriamente ristabilire la potenza imperiale, nè i Guelfi cercavano l'ingrandimento de' papi: tutt' e due queste fazioni aspiravano ad essere indipendenti dall'Imperio non meno che dalla Chiesa; e solo cercavano di aiutarsi collegandosi temporariamente con quella tra queste due podestà di cui temevano meno, contro l'altra ond'erano oppressi o minacciati. Dei Ghibellini poi alcuni, come i Bianchi di Firenze, erano fuornsciti sino dal 1302; altri, come i Signori lombardi, erano in istato e potenti. Quando morì dunque Arrigo VII, que' Ghibellini ch'erano fuorusciti o trovavansi in città dominate dai Guelfi, perdettero le speranze concepite alla sua venuta; ma i Signori di Lombardia non peggiorarono punto la loro condizione. Essi non erano ghibellini se non quanto era guelfo Roberto di Napoli; e combattevano in compagnia di Arrigo per sottrarsi al pericolo di cadere nella signoria di quel re, non già per ristabilire in Italia la potenza imperiale. Ma il vantaggio a cui agognavano combattendo, non poteva andar disgiunto da un pericolo forse più grave di quel che fuggivano: perchè, se avessero abbattuto Roberto coi Guelfi, come potevano assicurarsi che Arrigo non manomettesse la loro indipendenza? La morte di quell' imperatore venne dunque a sottrarli da tale pericolo; e le circostanze che sopraggiunsero poi li salvarono da quell' altro pel quale s'erano uniti con lui. Queste circostanze furono primamente l'interregno da Arrigo VII a Lodovico il Bavaro suo successore; la lunga dimora di tredici anni che questi fece in Germania combattendo per la corona con Federigo il Bello duca d'Austria, al quale una parte di Tedeschi aveva conferita la regia dignità; la politica de' papi che non s'indussero mai a riconoscerlo imperatore; il cattivo successo della sua spedizione in Italia; le discordie e le sètte nate tra i Guelfi.

1

Se non che la potenza di Roberto era tanta, da non comportare che i Ghibellini rimettessero punto del loro zelo per contrastargli. Oltre alle forze del Regno, combatteva con quelle de' Fiorentini che, vivo Arrigo, gli si erano dati per cinque anni (1313-1318); e con le forze ancora di Pistoia, Prato e Genova, che avevano seguito l'esempio di Firenze. Morto poi Arrigo, gli si aggiunse anche il grado di Vicario imperiale conferitogli dal pontefice Giovanni XXII di Cahors, succeduto dopo lunga vacanza pontificia a Clemente V, morto in Avignone il 20 agosto 1314, il quale dichiarò vacante l' imperio, non volendo riconoscere nè Lodovico il Bavaro nè Federigo d'Austria suo competitore; e mise fuori quella strana ed esorbitante dottrina, che, vacando l'imperio, la somma delle cose spettasse al pontefice. Però i Ghibellini, necessitati di star sempre in sull'armi, ebbero a capo nella Toscana Uguccione della Faggiola, già partigiano di Arrigo, e fattosi signore di Pisa e di Lucca dopo la morte di lui; poi Castruccio Castracani degl' Interminelli, lucchese, che successe ad Uguccione quand' egli nel 1316 perdette la confidenza e l'amore dei Lucchesi e Pisani, e fu cacciato da ambedue le città. E in Lombardia si sostennero colle forze principalmente di Matteo Visconti e di Can Grande della Scala signor di Verona.

La contesa tra le due fazioni si agitò particolarmente sotto le mura di Genova (nel 1318). Roberto, fatto capo de' Guelfi per dieci anni in quella città, vi sostenne l'assalto de' Ghibellini accorsi per espugnarla; tra i quali si rese illustre principalmente Marco Visconti, figliuolo di Matteo. Genova non fu presa; ma Roberto perdette tutti gli altri vantaggi che le sue forze gli avrebbero dato, se avesse potuto usarne a suo senno.

Si crede che quel re e papa Giovanni XXII si fossero accordati di partirsi l'Italia tra loro. A tale effetto, Giovanni, oltre all' aver inviato Beltrando del Poggetto cardinale e secondo alcuni suo figlio, affinchè si unisse col re e coi Guelfi, ricorse alle scomuniche, e ne fulminò fieramente Matteo Visconti (1318), ch'era il maggiore ostacolo a' suoi disegni. Nè contento a quella scomunica, interdisse le città soggette a Matteo, e pubblicò una plenaria remissione di colpe e di pene a chiunque pigliasse le armi contro lui ed i suoi fautori.

I tempi erano tuttora propizj a tali procedimenti; quindi Matteo si vide abbandonato da molti; e secondo uno storico antico avea a guardarsi da' suoi cittadini come da pubblici e capitali nemici. Sicchè, per cessare maggiori danni, si ritrasse dal governo, cedendolo a Galeazzo I suo figlio; e si volse ad opere di pietà, per ismentire le accuse che gli erano date. Nel giugno del 1322 morì a Crescenzago in un convento nell'età di settantadue anni.

Nè Galeazzo avrebbe potuto resistere all'armi che il pontefice suscitavagli contro, se Lodovico il Bavaro, rimasto finalmente vittorioso di Federigo d' Austria, non avesse creduto di dover sostenere i nemici di Roberto e del papa. Quell' imperatore mandò

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