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in Italia un esercito al quale si unirono i Tedeschi, che qui si trovavano come soldati mercenarj sin dopo la morte di Enrico VII: perciò Galeazzo, che nel 1323 avea veduti i crocesignati fin ne'subborghi di Milano, nel febbraio del 1324 potè sconfiggerli a Vaprio in compagnia del fratello Marco, e sul terminare di quel medesimo anno trovossi libero da' suoi numerosi nemici.

Agli esterni pericoli successero allora le famigliari discordie; di che alcuni incolpano Galeazzo, geloso della gloria militare di Marco; altri accusano Marco stesso, intollerante di non essere primo nel governo come sentiva di esser primo nell' armi: e dicono che quando nel 1327 Lodovico il Bavaro venne in Italia per la corona imperiale, egli lo inimicò a Galeazzo, rappresentandoglielo come inclinato a pacificarsi col papa e coi Guelfi. Questo è certo, che Lodovico depose Galeazzo e lo fece imprigionare (1327) nei forni della torre di Monza, che egli stesso aveva fatti costruire contro i propri nemici; d'onde no trasse che dopo un anno, a preghiera del ghibellino Castruccio, o più verisimilmente per danari che in parte furongli sborsati ed in parte promessi da Azzo, figlio di Galeazzo I.

La venuta di Lodovico parve rinnovare in Italia tutto ciò che s'era veduto nell'antica gara tra il sacerdozio e l'impero. Il pontefice dalla sua sede di Avignone scomunicò l'imperatore; e questi dichiarò lui scismatico, eretico e decaduto. Pigliò poi in Roma la corona imperiale per mano di due vescovi scomunicati, e se la fece riconfermare da un antipapa (Pietro di Corbière monaco francescano) eletto da lui sotto il nome di Nicolò V; il quale poi, prevalendo la fortuna di Giovanni XXII, finì miserabile e prigioniero in Avignone. Sulle prime, parecchi Signori d'Italia favorirono Lodovico: ma egli per sua dappocaggine e per troppa avarizia perdette l'amore di tutti, fin quello de' propri soldati, che, non ricevendo mai i pattuiti stipendj, abbandonarono le sue insegne. Alcuni di questi si arruolarono nelle milizie de' principi italiani; altri errando sbandati qua e là accrebbero le miserie d'Italia; altri occuparono la rocca del Ceruglio, e quindi, fatto loro duce Marco Visconti, presero Lucca, e la venderono di poi a Gherardino Spinola genovese.

Così Lodovico ritornò in Germania (1329) tra le fischiate di tutta Italia, come ha detto il Balbo, senza avere potuto con quella spedizione, nè convalidare i suoi diritti all'impero nè abbattere la fazione dei Guelfi.

Prima della sua partenza avea fatto Vicario imperiale Azzo, da alcuni chiamato anche Azzone, Visconti (perchè Galeazzo era morto pochi mesi dopo riavuta la libertà): il quale, pacificatosi col pontefice, volle ricever da lui novamente quel titolo; poi ebbe (ciò che valeva assai più) la signoria di Milano dal Consiglio generale della città.

Poco dopo la partenza di Lodovico, discese come paciere in

Italia (nel 1330) Giovanni re di Boemia, figliuolo d'Arrigo VII: e non poche città, sia guelfe sia ghibelline, gli aderirono; perchè in un paese discorde e diviso ognuno trova fautori. Se fosse venuto per istigazione dell'imperatore o del pontefice, o piuttosto per proprio consiglio, non apparisce. Il certo si è ch'egli in brevissimo tempo e senza combattere ebbe alla sua obbedienza parecchie città; finchè poi i Ghibellini pigliarono sospetto di lui, che si chiariva troppo amico del papa. Anche Roberto di Napoli e i Fiorentini ingelosirono del boemo e della sua molta fortuna: quindi si unirono coi Ghibellini di Lombardia per liberarsi dal comune pericolo. Allora Giovanni dovette abbandonare l'Italia (1334): d'onde in breve tempo si partì anche Beltrando del Poggetto legato del papa, senz'altro frutto di tanta guerra che un male adunato bottino.

Non molto dopo (nel 1334) successe nel pontificato Benedetto XII francese; il quale dava intenzione di voler ricondurre la sede pontificia a Roma, se i re di Francia e di Napoli non gli si fossero opposti. Lo impedirono eziandio dal riconoscere e coronare Lodovico il Bavaro; e così mantennero viva l'antica lotta fra il sacerdozio e l'impero.

Nel 1337 Mastino della Scala signore di Verona comperò a nome de' Fiorentini la città di Lucca da Gherardino Spinola. Negando poi di consegnarla perchè bramava di farla sua, i Fiorentini, congiunti co' Veneziani, gli mossero guerra; e forse gliela ritoglievano, se nel miglior dell'impresa i Veneziani non li avessero abbandonati. Ma qualche tempo appresso, Mastino medesimo, avendo perduta la città di Parma, e trovandosi in guerra con Azzo Visconti, offerse Lucca ai Fiorentini ed ai Pisani che se ne mostravano egualmente desiderosi. I Fiorentini, come più ricchi, prevalsero nel contratto; ma i Pisani vennero improvvisamente all'armi, e coll'aiuto dei Visconti s' impadronirono di Lucea nel luglio 1342.

Questa mala riuscita accrebbe le civili discordie de' Fiorentini. Già prima d'allora, minacciati dalle armi di Castruccio che li aveva vinti nella battaglia di Altopascio (1325) ed era corso fin sotto le mura della stessa Firenze, eransi rivolti al pericoloso consiglio di eleggersi per signore Carlo duca di Calabria figliuolo del re Roberto; e benchè quella signoria fosse costata loro quattrocentomila fiorini senza alcun vantaggio, nondimeno, trovatisi novamente in angustie non seppero imaginare altro rimedio, e domandarono un' altra volta l'aiuto di quel re. Ed egli vi mandò e fu accettato dalla Signoria come capitano del popolo (1342) Gualtieri di Brienne, duca titolare d'Atene, che in breve per la sua scaltrezza e per le dissensioni di quella città fu dal popolo minuto gridato signore a vita. E s'egli avesse saputo usar con misura la sua buona fortuna, avrebbe forse potuto esser padrone di quella repubblica; ma gittatosi alla tirannia, nel volger di un anno diventò odioso

a tutti gli ordini della cittadinanza quanto da prima era amato, ed a stento ebbe salva la vita. L'insurrezione contro di lui, che dicesi « Cacciata del Duca di Atene, » cominciò il 26 luglio 1343, ed ebbe fine, con un patto di abdicazione, il 3 agosto successivo. Il solo principe lombardo, che di que' tempi avrebbe potuto contendere ad Azzone Visconti il primato, era Mastino della Scala: e ne fece anche prova, giovandosi di Lodrisio cugino e nimicissimo di Azzone stesso. Ma Lodrisio fu pienamente sconfitto (21 febbraio 1339) presso Parabiago, e le speranze dello Scaligero uscirono vane. Azzone, rimasto più forte e più riputato di prima, trasmise ai figliuoli Luchino e Giovanni maggiori possedimenti di quelli lasciatigli da' suoi antenati.

Solamente Roberto di Napoli possedeva allora potenza da tener fronte ai Visconti: ma da qualche tempo gli anni e l'esperienza di tante imprese infruttuose lo avevan distolto dalle armi. Egli mori nel 1343: e dopo trentaquattro anni di regno, dopo tante guerre, tanto desiderio e tante speranze di recar tutta Italia sotto di sè, lasciò non accresciuto punto nè poco il suo Stato. E non avendo alcun figlio, nominò erede Giovanna I, nata dal defunto suo figlio Carlo duca di Calabria, e già maritata da lui ad Andrea d'Angiò, suo lontano parente, secondogenito di Caroberto re d'Ungheria.

Andrea, disamato da tutti per la sua cattiva indole e per la rozza educazione ricevuta, in vece di ottenere la corona di Napoli alla quale agognava, forse spinto da chi sperava di farsi grande sotto di lui, fu strangolato in Aversa (gennaio 1345): e Giovanna sposò in seconde nozze il cugino Luigi di Taranto.

Lodovico I il Grande re d'Ungheria, per vendetta dell' ucciso fratello, cacciò dal regno la regina Giovanna; ed essa fuggì in Avignone, dove seppe acquistarsi la protezione del papa, cedendogli in perpetuo quella città.

Sopraggiunse frattanto l'anno 1348, famoso per la terribile pestilenza descritta dal Boccaccio, che tanto nocque all'Italia, e sopra tutto a Firenze. Per fuggire il pericolo di tal malattia, Lodovico abbandonò il regno, lasciandovi un suo vicario. Costui non impedi che Giovanna vi ritornasse: perciò Lodovico fu di nuovo in Italia; ed avea già quasi riconquistato ogni cosa, quando papa Clemente VI ottenne d'esser eletto arbitro fra Giovanna e lui con questa condizione: che se la regina fosse giudicata colpevole della morte di Andrea, cederebbe il regno a Lodovico; se fosse trovata innocente, questi contenterebbesi di trecentomila fiorini. Giovanna fu assoluta; e Lodovico, fedele alla sua promessa, usci del regno, rinunziando generosamente anche al pattuito compenso.

In questo tempo l'autorità dei papi era poca in Italia, perchè stavano fuori; quella dell'impero era anche minore, perchè i Guelfi non riconoscevano Lodovico di Baviera, e presso i Ghibellini già da gran tempo l'imperatore non era altro che un nome. Aggiun

gasi che Clemente VI nel 1346 dichiarò scismatico ed incapace di regnare Lodovico di Baviera, facendogli sostituire Carlo IV di Lussemburgo, figliuolo del già mentovato Giovanni re di Boemia. Però in Roma un Cola di Rienzi, uomo di bassa origine, ma fornito di studj e dotato d'immaginazione più che di giudizio, nel 1347 aveva potuto farsi tribuno, e ristabilire una specie di repubblica. In sulle prime parve degno che nel suo nome si rinnovasse l'antica maestà romana; ma in capo a sei o sette mesi, quando venne il bisogno di fare esperienza di sè, fuggì occultamente cacciato dai suoi stessi concittadini e abbandonò l'ardita impresa. Ricoverò da prima presso Lodovico re d'Ungheria, e poi alla corte di Carlo IV; il quale volendo gratificarsi al papa Innocenzo VI lo mandò in Avignone. Quivi il Petrarca s'interpose per lui; e fu tenuto colà in una specie di prigionia fino all'anno 1353, quando il popolo di Roma tumultuando, e illuso sempre da quell'idea dell'antica repubblica, conferì a Francesco Baroncelli, scrivano, quella dignità di tribuno che Cola di Rienzi aveva occupata già di suo arbitrio. Il pontefice Innocenzo VI spedi allora in Italia (1354) come suo legato il cardinale spagnuolo Egidio Albornoz, arcivescovo di Toledo, valente guerriero ed accorto politico. Costui menò seco il Rienzi; e, per abbattere il nuovo tribuno, finse di voler restituire quell' ufficio all'antico. Il Baroncelli fu tosto abbandonato ed ucciso: ma poco durò anche a Cola di Rienzi il favore della plebe; nè l'Albornoz avrebbe voluto che gli durasse. Accusato da' suoi nemici che aspirasse a farsi tiranno, sentì il popolo gridar la sua morte, e volle fuggir di bel nuovo travestito dal Campidoglio: ma fu riconosciuto e trucidato a furore (8 ottobre 1354).

In quel medesimo anno mori l'arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano dopo Luchino. Costui, mentre visse suo fratello Luchino, si era sempre astenuto dalle cose dello Stato, attendendo agli ufficj episcopali prima in Novara e poi in Milano. Ma quando Luchino (nel 1349) mori, assunse il governo de' pubblici affari, e mostrò che non se n'era tenuto lontano nè per inettitudine nè perchè non avesse caro quel grado. Aggiunse ai possedimenti de' suoi maggiori alcune città, fra le quali Bologna, che i Pepoli gli vendettero al prezzo di duecentomila fiorini, affinchè non venisse in potere del papa; e Genova, che gli si diede spontanea per sottrarsi al pericolo di cadere nella signoria de' Veneziani, contro ai quali avea combattuto infelicemente. Lo Stato dei Visconti comprendeva allora diciannove grandi città, e le loro armi eran temute in terra ed in mare. Giovanni ruppe guerra anche ai Fiorentini, ma senza profitto.

Frattanto molti signori di Lombardia e le città di Toscana invitavano il nuovo imperatore Carlo IV a calare in Italia per deprimere la grandezza de' Visconti; ma Giovanni seppe adoperarsi in modo che quel monarca non mosse contro di lui. Nè perchè poi col tempo discendesse in Italia, portò guerra ai Visconti;

perocchè i nipoti di Giovanni (morto l'anno 1354) in parte se lo guadagnarono a forza di doni, in parte lo impaurirono col far pompa dinanzi a lui di ricchezza e d'armi: e così la venuta di quell' imperatore (1354), in cui il Petrarca aveva riposta tanta fiducia, non fu d'alcun momento nelle cose italiane.

Tre erano i nipoti di Giovanni; Matteo II, Bernabò e Galeazzo II. Morto Matteo, gli altri due si divisero gli Stati, e Milano fu posseduto metà dall' uno, metà dall'altro; nè per questo venne meno la loro potenza. Il governo di que' due principi fu assoluto e atrocemente tirannico: ma non sappiamo davvero qual governo di quella età potrebbe meritare altro nome.

Le guerre frequenti e il lusso introdotto dai Visconti furon cagione che i principi aggravassero i popoli di rovinose gabelle: sopra tutto per altro erano a mala condizione le città soggette alla Chiesa; le quali, stando i papi in Avignone, trovavansi esposte alle usurpazioni di piccoli signorotti; e quando veniva qualche legato pontificio con un esercito per liberarle, il rimedio soleva esser peggiore del male, dovendo esse pagare a caro prezzo anche le spese della loro liberazione.

Finalmente i papi volsero di nuovo il pensiero all'antica loro sede. Urbano V venne a Roma due volte, cioè, nel 1367 e 1368, poi ritornò in Avignone, cedendo al maggior numero de' cardinali. Ne Gregorio XI, creato nel 1370, potè ricondurre a Roma la Santa Sede innanzi al gennaio del 1377; e si crede ch'egli pure stesse per cedere alle instigazioni de' cardinali francesi o partigiani di Francia, quando nell'anno seguente mori in Roma. Allora pertanto il popolo cominciò a domandare pubblicamente che si creasse un papa romano; persuadendosi che ogni straniero preferirebbe sempre Avignone a Roma; ma fu eletto un napoletano, Bartolommeo Brignano vescovo di Bari, che prese il nome di Urbano VI (1378); il quale non pensò più ad Avignone, ma non contribui punto alla quiete d'Italia nè della Chiesa. I suoi modi altieri gli disaffezionarono una gran parte de' cardinali, la regina Giovanna di Napoli ed anche il popolo romano; sicchè ne sorsero molte discordie, e fu creato un antipapa sotto il nome di Clemente VII, già cardinal di Ginevra. Il pontefice si volse a Lodovico re d'Ungheria per muoverlo contro Giovanna, che s'era mostrata proclive a Clemente; ma quel re, già vecchio, non volle pigliar quella guerra: bensì permise e fors' anche desiderò che la pigliasse Carlo di Durazzo soprannomato Carlo della Pace, che allora combatteva per lui contro i Veneziani. La regina Giovanna, alla quale di tre matrimonj non era rimasto alcun figlio, aveva dato in moglie a questo Carlo della Pace la sua nipote Margherita. Entrata poi in sospetto di lui, aveva preso per quarto marito Ottone di Brunswich, capitano di molta fama in quel tempo; ma perchè essa non volle accomunare con lui nè il titolo nè la potenza reale, irritò Carlo e Margherita senza procacciarsi un valido aiuto. Però quando

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