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dell'ambito per entro al quale le menti si aggiravano, e dal ravvicinamento che vien dovunque a prodursi per il fatto stesso del discorrere insieme. S'ebbe così una lingua poetica, che parve appartenere a tutto il paese senza essere propria di nessuna città o provincia. Questo stato di cose durò per qualche generazione, e si lasciò poi dietro un lunghissimo strascico. Ma esso era stato determinato da fattori d'indole troppo artifiziosa e passeggiera, perchè potesse mantenersi anche quando fosse necessario sostenere una lotta. E le forze che lo oppugnarono furono oltremodo potenti, e in parte già avevano cominciato ad agire prima assai che se ne avvertissero gli effetti.

Era antica cioè una certa tendenza istintiva verso il tipo delle parlate toscane: favorite da ragioni geografiche, e soprattutto dall' essere, come s'è detto, lo specchio più fedele della parola di Roma. E i dialetti toscani medesimi acquistarono presto coscienza della loro superiorità, mentre invece altri assai neppure osavan mostrarsi quali erano, fuori del semplice uso giornaliero. A questo modo una preminenza toscana si veniva tacitamente preparando. E la preminenza fu promossa dall'essersi in questa regione, e in Firenze soprattutto, destato un vigore di vita, tale veramente da meravigliare. Il trionfo del toscano e del fiorentino sarebbe tuttavia riuscito ben più lento, se su questo gran piedestallo non si fosse levata a giganteggiare la figura di Dante. La Divina Commedia, ammirata universalmente, divenuta presto il libro per eccellenza della nazione, dette al fiorentino la vittoria definitiva. E dietro a Dante se ne vennero il Petrarca e il Boccaccio, che a destra e a sinistra accrebbero ampiezza alla via; e inoltre una schiera numerosa d'altri minori, che grazie ai tre si trovarono convertiti in scrittori nazionali, di più o men provinciali che sarebbero stati altrimenti. Da quel tempo le battaglie che il fiorentino ebbe a combattere furono assai più di nome che d'altro. Per un pezzo tuttavia gli scrittori delle varie provincie, se in esso e negli autori suoi si affisavano, continuavano sempre a dar luogo ad elementi proprj del loro dialetto, o di una tradizione scritta locale. Bisogna venire fino al secolo XVI perchè un nuovo momento incominci; e nel determinare quel momento ebbe gran parte il Bembo.

Sicchè, conchiudendo, i nostri dialetti sono la perpetuazione, variamente alteratasi nel tempo e nello spazio, del linguaggio parlato di Roma. La lingua italiana è, con certi contemperamenti e mescolanze, il dialetto fiorentino, venuto a prevalere fra tutte le parlate della nazione per virtù propria, per opportunità geografiche e storiche, per l'eccellenza degli scrittori che ebbero a servirsene.1 PIO RAJNA.

1 Non saprei certo terminare questa esposizione senza segnalare le pagine ; sul Toscano e il linguaggio letterario degli Italiani, colle quali l' Ascoli chiude quel suo scritto sull'Italia dialettale, che già ho avuto a ricordare più addietro (pag. 10, n. 1).

NOTIZIE LETTERARIE.

I PRIMI MONUMENTI LETTERARJ DEL VOLGARE.

Difficil cosa è assegnare con qualche precisione quando il volgare italiano, o, a meglio dire, i volgari italiani, uscendo dall'umile condizione di idiomi soltanto parlati, cominciarono ad adoperarsi così nel verso come nella prosa, ad uso letterario. Durante i secoli non pochi, che corsero dalla caduta dell'impero romano alla costituzione dei Comuni, un nuovo linguaggio fu parlato, ma parlato solamente, da molte e molte generazioni, e via via divenne più stabile, più preciso, più ricco seguendo le vicende della nazione: la quale, per effetto delle conquiste barbariche ridotta già tutta plebe, sicchè prevalsero allora e si svolsero le forme idiomatiche plebee, risorse poi, mutate in meglio le fortune, a dignità di libero popolo. Tutto ciò che concerneva la vita privata, gli affetti domestici, le professioni e i mestieri, i commercj, i traffici, l'agricoltura dovette sempre più, col succedersi de' secoli, spettare al volgare e in esso manifestarsi: nè certo era piccol dominio; ma quanto invece concerneva la vita pubblica, la legge, l'amministrazione, il culto restava proprio della lingua latina, imbastardita e sempre più corrotta; anzi durò in forma siffatta anche lungo tempo dopo che il nuovo linguaggio erasi già costituito ed organato nelle sue forme essenziali, e della propria attitudine ad ogni significazione e della bellezza sua aveva porto svariate e cospicue testimonianze.

Così, anche quando il volgare diventava forma sempre più generale del quotidiano linguaggio, più cause lo trattenevano dall'esser adoperato ad espressione letteraria; e in primo luogo la durevole autorità del latino, che non solo era lingua dell'Impero e del giure, ma lingua pur anco della Chiesa, che facendolo suo l'aveva una seconda volta reso universale, e del quale mantenevasi lo studio nelle scuole grammaticali e retoriche. Vi si opponevano anche le condizioni generali della cultura, scarsa in sè e alla quale pochi attingevano: sicchè, ove alcuno dotato di certo vigor d'intelletto si fosse volto a scriver storie, non avrebbe pur pensato di abbandonare l'idioma di Livio e di Orosio; e volendo esprimer sensi di amore e di religione nel verso, non sarebbesi dilungato dai modelli di Virgilio, d'Ovidio e di Boezio: nè solo per l'efficacia della tradizione, ma perchè l'opera sua non sarebbe in effetto riuscita grata e giovevole all'universale. A che affaticarsi per cosa che non sarebbe stata apprezzata, e in favore di chi non sarebbe stato riconoscente, anzi neppur sarebbesene addato? Ma, quando le condizioni civili si fecer men ferree e le menti ringagliardironsi, e il linguaggio volgare venne acquistando maggior regolarità e forbi

tezza, dovette parere, ed essere in realtà, meno disadatto ad esprimere qualche cosa di più alto, che non fossero le relazioni e le necessità della vita comune.

Afferma Dante, che « lo primo che cominciò a dire siccome poeta volgare, si mosse però che volea far intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole a intendere i versi latini (Vita Nuova, § XXV): e tale osservazione è degna di quella mente sovrana. Ed anche noi dobbiam credere che il primo impulso all'uso poetico del volgare, venisse dal sentimento più che dall' intelletto. Se non che l'amore verso la donna non dovette essere unica ispirazione al nuovo canto, ma anche la pietà religiosa, che, fervente ne' cuori, diede origine allora a tanti capolavori delle arti plastiche, e la carità pur anche del natio loco, tanto più fortemente sentita quanto più angusta, nel concetto e nel fatto, era allora la patria. Le prime manifestazioni del volgare furono adunque canti d'amore, laudi sacre e preghiere e leggende, anche in prosa, e poesie a glorificazione del Comune e ricordi storici, nell'una forma e nell'altra, delle più notevoli imprese di guerre e di parti. Già anteriormente il volgare apparisce interpolato, e a grado a grado prevalente in atti giuridici, in carte private, in memorie domestiche, in documenti mercantili, ma ciò avviene per necessità di chiarezza, non per libera elezione e con intento d'arte. L'uso letterario si ebbe adunque più tardi, quando la parola volgare, già infiltratasi tra le forme latine, sempre più prese il campo, e nell'intelletto e nella coscienza di tutti fu ormai verbo comune: quando, componendo versi volgari, l'amatore non si volgeva soltanto alla donna amata, ignara del latino, a chiederle mercè, ma sapeva di diffondere per tal modo fra i giovani innamorati e le donne gentili le lodi della bellezza e virtù di lei, e sopra di sè chiamare l'altrui ammirazione: e col verso o colla prosa sacra si riduceva come a formola per tutti e in servigio di tutti, il comune sentimento di amore e devozione a Dio, alla Vergine, ai Santi: e, ricordando le gesta gloriose della patria, si rafforzava quel vincolo che ad essa legava l'intera cittadinanza, si che questa sembrasse parlar tutta per bocca di un solo. Ma poichè tutto ciò non ha data fissa, e se l'avesse, sarebbe diversa nelle varie parti d'Italia, ben s'intende che non può dirsi quando precisamente avvenisse che dall'uso parlato il volgare facesse passaggio all'uso letterario.

Neanche può determinarsi per una letteratura come la nostra, se l'uso del verso precedesse quello della prosa. Che ciò avvenga

1 V. ad es. la Carta capuana del 960, in MONACI, Crestomasia italiana dei primi secoli, Città di Castello, Lapi, 1889, pag. 1 (efr. RAJNA, I più antichi periodi risolutamente volgari nel dominio italiano, nella Romania, XX, 385 e segg.); la Carta fabrianese del 1186, e la picena del 1193, in MONACI, pag. 11 e 16; i Frammenti di un libro di banchieri fiorentini del 1211, in MONACI, pag. 19, ec. Per età più tarda, vedi i Ricordi di una famiglia senese (1231-61) pubblicati nell'Arch. stor. itul., Append., vol. V.

presso nazioni, le quali sono sole autrici a sè medesime della propria cultura letteraria, e presso le quali la lingua si svolge come per sè stessa accompagnandosi al successivo perfezionarsi dell'intelletto e della coscienza nazionale, è cosa generalmente conosciuta. Ma gli Italiani dell'età de' Comuni erano come una seconda genitura della razza latina, e la loro cultura una continuazione modificata dell'anteriore, e la lingua, quasi forma materna e usuale del prisco idioma paterno e grammaticale. Per la poesia poi, come per la prosa, trovavano essi modelli ed esempj non solo dietro di sè, ma intorno a sè, nelle favelle primogenite di Francia e di Provenza. Tuttavia, anche presso di noi può ammettersi che prima si poetasse e poi si componesse in prosa; ma, per le speciali condizioni de' tempi, non dovrebbe maravigliare se un giorno qualche prosa si rinvenisse, ad esempio una leggenda spirituale, anteriore a qualsiasi documento poetico finora conosciuto: chè, in fin de'conti, non si tratterebbe se non di traduzione, o ricomposizione più o men libera nel volgare corrente, di un testo di bassa latinità. Ma per la prosa di vera e propria materia scientifica o morale o storica, occorreva più tempo: e ciò è, maggior maturità e vigor intellettuale. Nè i primi saggi, anche in coteste materie, non che nelle narrazioni di casi di guerra, d'amore, di galanteria, di beffa, altro non sono in fondo, se non volgarizzamenti dal latino o dal francese. La tradizione domestica come i modelli stranieri erano d'impedimento al libero svolgersi della prosa: e quello che, nel testo o ne' volgarizzamenti, offrivano la letteratura latina e la francese pareva bastasse ai bisogni intellettuali come al piacevole passatempo. La gente più raffinata, le donne e i cavalleri, leggevano i « franceschi romanzi » specie della tavola rotonda, o nell'idioma nativo o nelle traduzioni, e com'è ben noto, mal incolse da quella lettura a Paolo e Francesca la gente colta o mezzanamente colta possedeva or. mai i volgarizzamenti de' più celebrati fra gli antichi, e anche fra gli scrittori dell'età più recente, come ad esempio, di Albertano e di Arrighetto da Settimello; e possedeva anche la vasta enciclopedia storica e scientifica da Ser Brunetto raccolta e distesa in francese, come in linguaggio non solo plus délitable, ma anche plus communs, e che non pertanto erasi creduto utile traslatare quasi subito nel nostro idioma. Il primo esempio di prosa volgare veramente libera, dove la parola è connaturata col pensiero e col sentimento, e sgorga spontanea, di getto, copiosa, bella di propria bellezza, senza vincolo di modelli nè per la sostanza nè per la forma, specchio verace e limpido della mente e dell'animo dell'autore, è, sul finire del dugento, la Vita Nuova: ma l'autore è Dante Alighieri!

1 Sur une centaine d'exemplaires des romans de Tristan et de Lancelot, que possèdent nos bibliothèques de Faris, plus de cinquante portent la marque d'anciens possesseurs italiens: P. PARIS, Hist. litter. de la Fr., XXVI, 351. Cfr. NoVATI, I codici franc, dei Gonzaga (Romania, XIX, 161).

-La poesia, adunque, anche presso di noi può credersi che precedesse la prosa, pur riconoscendo che a far nascere una forma poetica, antica assai e cospicua fra le altre, massima efficacia avessero esempj di fuori; ma non mancano però, come vedremo, indizj di ispirazione indigena egualmente remoti. Non sono intanto ancor passati molti anni che fra noi disputavasi qual fosse il più antico poeta volgare, a quel modo stesso che si disputa, e non di rado invano, sul primo inventore di qualche trovato materiale. Cosiffatta inchiesta può ammettersi, se voglia intendersi del più antico poeta, del quale a noi siano pervenuti i versi; ma se volesse intendersi in modo assoluto, come se uno fosse stato il primo inventore del verso volgare, eni gli altri, meravigliati di quella novità, avessero imitato, è del tutto priva di valor scientifico. E il vero è che la ricerca facevasi coll'intento di trovare veramente il primo. Ma, come, date certe condizioni di temperie, spuntano più fili d'erba in un prato e in un bosco più alberi contemporaneamente mettono le foglie, così, date le condizioni d'Italia nell'età del suo risorgimento, si può e si deve supporre che non uno, ma molti, senza saper l'un dell'altro e per naturale impulso, provassero l'attitudine del volgare al verso, cui intanto la poesia leonina, fiorita durante tutta l'età media, prestava il compimento della rima, e le letterature d'oil e d'oc presentavano modelli da imitare. Codesta disputa sul primo poeta ferveva più specialmente fra la Sicilia e la Toscana, delle quali la prima metteva innanzi il suo Ciullo d'Alcamo, e l'altra Folcacchiero de' Folcacchieri, poetante il primo, come asserivasi, anteriormente al 1190, e il secondo nel 1177. Ma la sana critica ha ormai dimostrato, e peggio per chi non vuol capirlo, che l'uno non poté scrivere se non dopo il 1231,1 e che l'altro viveva ancora nel 1252. Sgombrato così il terreno dalle antiche ire e borie municipali, la ricerca ha assunto quel carattere che solo deve avere, e che sopra le abbiamo assegnato.

Ma anche soltanto l'affermare, nello stato presente degli studj, qual è il più antico rimatore volgare fra quelli di cui ci restano o testimonianze o memorie sicure, è cosa assai ardua, perchè mancano in troppi casi i dati cronologici. Abbiamo, ad esempio, un Ritmo cassinese,3 ma ne è incerta l'età, e potrebbe anche esser meno antico di quanto altri crede, nè certamente è del secolo decimo, come da prima fu asserito: anche la Cantilena di un giullare,* goffa infilzatura di versiculi a strofe monoritmiche, dal Bandini, e poi da altri, fatta risalire al duodecimo secolo, manca di

1 Vedi D'ANCONA, Studj sulla letterat. dei primi secoli, Ancona, Morelli, 1884, pag. 241 e segg.

2 C. Mazzi, F. Folcacchieri, rimatore senese del secolo XIII, Firenze, Le Monnier, 1878.

3 MONACI, op. cit., p. 13, e nei Rendic. dell'Acc. dei Lincei, serie V, fasc. 5, 1892. Vedi NOVATI, Il ritmo cassinese e le sue interpretazioni, in Studj crit. e letter., Torino, Loescher, 1889.

MONACI, op. cit., pag. 9.

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