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Carlo si mosse sostenuto da Urbano (che vendette per lui i vasi e gli arredi sacri e i beni de' religiosi) conoscendosi troppo scarsa di forze, ricorse allo spediente di adottare a figliuolo Luigi I d'Angiò fratello del re di Francia, dichiarandolo suo erede e successore nel regno. Ma il soccorso di costui fu troppo lento: Giovanna cadde in potere di Carlo, e morì soffocata nel castello di Muro l'anno 1382, addì 22 maggio.

Nè Carlo III (così denominossi Carlo della Pace dopochè fu in possesso del trono) ebbe regno tranquillo: perciocchè Luigi I d'Angiò, che non aveva potuto aiutare Giovanna, valse per altro a infastidire il vincitore; e Carlo stesso si procacciò inquietudini non mantenendo ad Urbano VI la promessa di dare ad un suo nipote il ducato di Capua. A poco a poco l'abbandonarono poi anche i suoi partigiani, parendo loro (come suole generalmente avvenire) che non li avesse degnamente rimeritati. Tuttavia nè Luigi I d'Angiò, nè Urbano VI poterono togliere a Carlo il suo trono: e quando egli nel 1386, ai 31 decembre, fu ucciso a tradimento in Ungheria, dov' era andato colla speranza di far sua anche quella corona, gli successe nel regno di Napoli il figliuolo Ladislao, allora minore d'età, che lo tenne fino al principio del secolo XV.

Frattanto nell' Italia superiore era sorto un principe pari in potenza e ambizione a Roberto, e più fortunato di lui. Fu questi Gian Galeazzo Visconti denominato Conte di Virtù, perchè Isabella di Francia gli portò in dote la contea di Vertus. Suo padre Galeazzo II, dopo avere per qualche tempo diviso col fratello Bernabò il possesso di Milano, aveva trasferita la sua residenza in Pavia, dove mori poi nel 1378, lasciando fama di principe estremamente crudele. Gian Galeazzo, nel maggio del 1385, imprigionò a tradimento il vecchio zio Bernabò, che d'astuzia e di crudeltà non era punto inferiore al fratello, e tirò a sè tutto lo Stato, escludendone per sempre, non solo Bernabò che morì, dicono fatto uccidere da lui insieme co' figli, nel castello di Trezzo, ma la sua discendenza. Quindi, potente e ambizioso non meno che scaltro e dissimulatore, spogliò de' loro Stati gli Scaligeri e i Carraresi; occupò Bologna, Assisi, Nocera, Spoleto pertinenti alla Chiesa; si fece nominar Signore di Siena e Perugia; comperò Pisa; ebbe nel 1395 per centomila fiorini dall'imperatore Venceslao il titolo di duca, e fu riconosciuto legittimo sovrano di ventotto città nell'Italia superiore. Aspirava manifestamente a impadronirsi di Firenze (per fare uno Stato solo di tanta parte d'Italia), e contro di essa combattè con pochi intervalli per ben dieci anni. Indarno furon chiamati contro di lui Roberto re dei Romani, e il conte d'Armagnac del sangue reale di Francia: le sue forze, le sue dissimulazioni, i suoi inganni lo rendevano superiore ad ogni ostacolo: Firenze, per giudizio del Machiavelli, sarebbe caduta, se Gian Galeazzo non fosse morto (addi 3 settembre 1402) quando aveva già preparato la corona e

le insegne per dichiararsi re d' Italia. Del resto, la Repubblica fiorentina mostrò apertamente in questo secolo di dover declinare a principato. La morte del duca di Calabria e l'imprudenza del duca d'Atene le avevan tolto dal collo due volte quel giogo al quale si era sottoposta da sè; ma le gare incessanti delle fazioni, e quell' usanza dei vinti di ricorrere ad un potente che li rialzasse, dovevano suscitare, quando che fosse, un ambizioso ed accorto che le riducesse tutte nella sua obbedienza. Cacciato il duca d'Atene, e prevalendo i Guelfi col popolo minuto, fu ammonito chiunque era tenuto ghibellino di non prendere alcun magistrato: e le cose vennero a tale in un tumulto denominato dei Ciompi, (1378-1381) che fu gridato gonfaloniere un Michele di Lando pettinatore di lana; il quale, se avesse voluto, poteva occupare quel posto che il duca non seppe tenere. Cessato poi per la sua virtù quel pericolo, stettero le antiche fazioni quiete alcuni anni; finchè nel 1393 il popolo novamente oppresso, ricorse a Vieri de'Medici domandando che prendesse lo Stato: e credono i più ch'egli avrebbe potuto farsi principe della città. Ma quel grado che Vieri allora per modestia ricusò, persistendo i Fiorentini nelle loro discordie, doveva poi essere cercato e tenuto da' suoi discendenti.

Tra Genova e Venezia continuò anche in questo secolo, colla concorrenza nel commercio, la cagione di combattersi: e agitarono una lotta famosa sotto il nome di guerra di Chioggia (1378-1381); perchè i Genovesi, impadronitisi di quella città, furono vicinissimi a una vittoria compiuta. E in questo secolo anche la repubblica di Venezia ebbe dentro di sè quelle dissensioni che fino allora avevano travagliata soltanto la sua nemica. L'invidia de' nobili contro l'ammiraglio Vittor Pisani fu cagione che i Genovesi sbaragliassero a Pola (1379) la flotta veneta, ma Venezia fu salva per la propria energia e per la magnanimità di Vittor Pisani; bensì per gare intestine e gelosie private il doge Marin Faliero, congiurando col popolo contro l' aristocrazia, avrebbe sovvertito la repubblica se non fosse stato scoperto a tempo e punito (17 aprile 1355).

In questo secolo, pieno di guerre e di turbolenze, vide l'Italia due principi animosi e potenti, Roberto di Napoli e Gian Galeazzo Visconti di Milano, e fors' anco un terzo, Ladislao, aspirare a ridurla tutta intiera sotto di sè. Parvero, e probabilmente anche furono, uomini ambiziosi intenti solo al proprio vantaggio: nè deve recar meraviglia che i contemporanei li combattessero come rapaci e li condannassero come usurpatori: nondimeno se avessero potuto effettuare i loro disegni, molto è stato ed è ancora di male che non sarebbe avvenuto.

I costumi di questo secolo furono tali da render credibile fin anche, come si divulgò allora dalla parte ghibellina, che un frate domenicano avvelenasse Arrigo VII colla particola della comunione. Nè di tante guerre, allora agitate, trasse l'Italia almeno il vantaggio di una buona milizia paesana: perocchè la invilirono

dapprima i mercenarj forestieri, de' quali si valsero i Visconti, i marchesi di Monferrato e i duchi di Savoia; poi le Compagnie di ventura, in sul cominciare fatte di stranieri poi d'italiani, sotto il qual nome s'intendono certe bande stipendiate da un capo o condottiero che non era signore di verun luogo, ma vendeva l'opera sua e de' suoi a chiunque ne lo richiedesse e meglio lo pagasse. Queste Compagnie, di fede incertissima, cogli stipendj, colle estorsioni e con le rapine, impoverivano amici e nemici del pari; studiavansi che non fosse mai pace durevole, perchè nella pace nessuno abbisognava di loro; e furon cagione che i popoli, abbandonando l'esercizio delle armi, smarrissero l'antico valore. Finalmente, o per caso o per colpa di tante guerre e di tanti eserciti forestieri e nazionali, soggiacque frequentemente l'Italia in quel secolo anche ai flagelli della fame e della peste, tremenda quella già ricordata del 1348, e perdette così gran numero di abitatori, che d'allora in poi non fu mai più popolata come prima.

E nondimeno nel secolo XIV o Trecento, come d'ordinario suol chiamarsi, specie nelle storie letterarie, fiorirono grandissimamente in ogni parte d'Italia le arti e le lettere, fondando quella splendida civiltà che poi si diffuse in tutta l'Europa. Già nelle etă precedenti eransi fatti, così nelle arti come nelle lettere e nelle scienze, non piccoli passi; di che sono prova alcuni monumenti ancora ammirati, come la chiesa di san Marco in Venezia, di stile bizantino, e il duomo di Pisa di stile romanico; la fama in che eran salite parecchie Università e pubbliche Scuole, massimamente di Bologna, Padova, Napoli; e le scritture che tuttora ci rimangono di molti eruditi, filosofi, cronisti e poeti. Nel secolo XIV 'poi, col numero delle città indipendenti, dovette crescere anche quello delle persone atte a trattare pubblici affari, a proporre buone leggi, a sostenere ambascerie; le quali persone non sorgono dove non sieno pubbliche scuole, valenti professori, biblioteche, e tutti insomma que' mezzi che si richiedono a coltivare gl'ingegni. Ben presto poi il desiderio d'assicurarsi l'indipendenza, e le guerre da città a città fecero sentire il bisogno di fortificarsi d'armi e di mura; e per conseguente il bisogno di procacciarsi ricchezze coll'agricoltura, coll' industria, col commercio. Quindi troviamo che in alcune provincie le campagne rendevano imagine d'immensi giardini; in molte città fiorirono fabbriche di stoffe e d'armi che tutta Europa comperava; non poche, come Firenze e Pisa, avevano banchi privilegiati in Francia ed altrove; le marittime, segnatamente Venezia e Genova, possedevano fattorie oltre mare, in Egitto, nella Siria, nell' Asia Minore, nella Tracia ec.: da per tutto si attese sollecitamente a quelle arti che più son necessarie al vivere agiato e sicuro. A questo le cittadinanze erano spinte dalla persuasione che non potrebbero altrimenti avere durabile prosperità; e coloro che già copertamente agognavano a sovvertire la libertà e farsi principi o tiranni, avevano un doppio mo

tivo di secondare quel popolar movimento, per illudere le moltitudini, ed accrescere colla loro operosità quelle ricchezze sulle quali speravano di mettere, quando che fosse, le mani. Così nell'Italia superiore (per tacer de' minori) i Maggi, i Coreggeschi, gli Scaligeri, gli Estensi, i Bonacossi in Brescia, in Parma, in Verona, in Ferrara, in Mantova; poi i Polenta in Ravenna, gli Ordelaffi in Forli, i Malatesta in Rimini; oltre Roberto re di Napoli, e Gian Galeazzo Visconti signore di Milano, tutti mostrarono di favorire gli studj e onorare gli studiosi, cominciando quella serie di protettori, de' quali avremo occasione di parlare più tardi.

NOTIZIE LETTERARIE.

Dopo i contrasti e le guerre dei tempi antecedenti, sembrava, tra il finire del tredicesimo e il principio del decimoquarto secolo, fondarsi e costituirsi in Italia un nuovo assetto: nel mezzogiorno le monarchie, le signorie in Lombardia e Romagna, le repubbliche aristocratiche nei golfi adriatico e tirreno, nel mezzo le repubbliche popolari e in Roma il papato, affermante con Bonifacio VIII la sua supremazia anche nell'ordine temporale. Ma tutto ciò non ebbe nulla di definitivo e di stabile; e prova soltanto qual potenza di vita avesse allora la nostra penisola, ma come sventuratamente le mancasse il senso dell'unità politica e lo stimolo di disciplinare ad un fine le forze disperse. L'opera più bella e durevole di cotesta età fu invece nell'ordine intellettuale ed è la formazione di una lingua comune e di una nazionale letteratura.

Il secolo XIV eredò i germi di cultura che avevano a lui trasmesso le età anteriori, e li svolse con meraviglioso vigore, dando, in acconcio terreno e con appropriata temperie, una mèsse rigogliosa, e non meno bella che buona. Ambedue coteste creazioni del genio italiano nel secolo XIV, la lingua e la letteratura, restano come saldo fondamento per l'avvenire: la favella potrà bensì mutarsi in talune forme di minor conto, e lo stile seconderà lo svolgersi incessante del pensiero, ma l'impronta e il carattere dell'una e dell' altro durano ancora quali furono allora determinati; e la letteratura mantiene a traverso ai secoli quell' indole, mista di spontaneità e d'imitazione, d'antico e di nuovo, ch'ebbe nelle sue prime origini.

Allorchè, parlando della letteratura nostra, si nomina il Trecento, vengono subito a mente i tre grandi scrittori, che l'empiono delle loro opere e della lor fama: Dante, il Petrarca, il Boccaccio. L'intelletto nostro rimane ammirato pensando alla potenza ed universalità del genio di Dante e all'alto ufficio ch' egli assegnò alla poesia; ma la nostra ammirazione non deve restringersi al solo autore di sì nuova ed eccelsa opera, e fa d'uopo riconoscere che l'età che fu maestra all'Alighieri e lo ispirò, che fu degna di udire il suo canto e lo volle divulgato ed illustrato sulle cattedre e nelle chiese, dovette essere assai men rozza di quel che non voglia figurarsela l'orgoglio di noi moderni. Anche il Petrarca non parlò ad una generazione indegna o incapace di udirlo e di gustarlo; e il suo Canzoniere è segno di una maturità di pensiero e di una squisitezza di sentimento, che non dovevano certamente appartenere al poeta soltanto. L'espressione della passione d'amore nella letteratura italiana, e può dirsi in generale nelle nuove letterature romanze, è frutto di una ispirazione che il proprio tempo forni al Petrarca, e ch'ei gli rese in una forma d'arte perfetta.

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