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E piacemi veder colpi di spada
Altrui nel viso, e nave andare a fondo:
E piacerebbemi un Neron secondo,
E ch'ogni bella donna fosse lada.

Molto mi spiace allegrezza e sollazzo;
E sol malinconia m'aggrada forte;
E tutto di vorrei seguire un pazzo;

E far mi piaceria di pianto corte
E tutti quelli ammazzar ch'io ammazzo
Nel fier pensier là dove io trovo morte.

Rimpianto dell' amata lontana.

La dolce vista e 'l bel guardo soave
De' più begli occhi che si vider mai,
Ch'i' ho perduto, mi fa parer grave
La vita si ch'io vo traendo guai;
E 'n vece di pensier leggiadri e gai
Ch' aver solea d'amore,

Porto desii nel core

Che nati son di morte,

Per la partita che mi duol si forte.

Ohimè! deh perchè, Amor, al primo passo
Non mi feristi si ch'io fussi morto?
Perchè non dipartisti da me, lasso!,
Lo spirito angoscioso ched io porto?
Amor, al mio dolor non è conforto :
Anzi, quanto più guardo,

Al sospirar più ardo;

Trovandomi partuto 2

Da' quei begli occhi ov'io t'ho già veduto.
Io t'ho veduto in quei begli occhi, Amore,

Tal che la rimembranza me n'occide

E fa sì grande schiera di dolore

Dentro alla mente che l'anima stride

Sol perchè morte mai non la divide
Da me; come diviso

Mi trovo dal bel viso

E d'ogni stato allegro,

Pel gran contrario ch'è tra 'l bianco e 'l negro.3

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1

Quando per gentil atto di salute 1
Vêr bella donna levo gli occhi alquanto,
Si tutta si disvía la mia virtute,

Che dentro ritener non posso 'l pianto,
Membrando di madonna, a cui son tanto
Lontan di veder lei.

O dolenti occhi miei,
Non morite di doglia?

Si per vostro voler, pur che Amor voglia."
Amor, la mia ventura è troppo cruda,
E ciò che 'ncontran gli occhi più m'attrista:
Dunque, mercè che la tua man li chiuda,
Da c'ho perduto l'amorosa vista;

E quando vita per morte s' acquista,

Gli è gioioso il morire:

Tu sai dove de' gire

Lo spirto mio da poi,

E sai quanta pietà sarà di noi.
Amor, ad esser micidial pietoso
T'invita il mio tormento:

Secondo c'ho talento

Dammi di morte gioia,

Si che lo spirto almen torni a Pistoia.

II sepolcro di Selvaggia.

Io fui 'n su l'alto e 'n sul beato monte,
Ove adorai baciando il santo sasso,
E caddi 'n su quella pietra, ohimè lasso!;
Ove l'Onesta pose la sua fronte

E ch'ella chiuse d'ogni virtù 'l fonte,
Quel giorno che di morte acerbo passo
Fece la donna dello mio cor lasso,
Già piena tutta d'adornezze conte.3

Quivi chiamai a questa guisa Amore:
Dolce mio dio, fa' che quinci mi traggia
La morte a sè, chè qui giace il mio core.
Ma poi che non m'intese il mio signore,
Mi dipartii pur chiamando Selvaggia;
L'alpe passai con voce di dolore.

1 Saluto.

2 Voi lo vorreste, se lo volesse Amore.

3 Chiare, manifeste, famose.

In morte di Arrigo VII imperatore.

Da poi che la natura ha fine 'mposto
Al viver di colui, in cui virtute
Com' in suo proprio loco dimorava,
Io prego lei che 'l mio finir sia tosto,
Poi che vedovo son d'ogni salute:
Chè morto è quel per cui allegro andava,
E la cui fama 'l mondo alluminava,
In ogni parte, del suo dolce lome.
Riaverassi mai? non veggio come.

In uno è morto il senno e la prodezza,
Giustizia tutta e temperanza intera.
Ma non è morto: lasso!, che ho io detto?
Anzi vive beato in gran dolcezza,

E la sua fama al mondo è viva e vera,
El nome suo regnerà 'n saggio petto;
Che vi nutricherà lo gran diletto
Della sua chiara e buona nominanza,
Si ch'ogni età n'avrà testimonianza.

Ma quei son morti, i quai vivono ancora,
Che avean tutta lor fede in lui fermata 2
Con ogni amor sì come in cosa degna;
E malvagia fortuna in subit' ora
Ogni allegrezza nel cor ci ha tagliata:
Però ciascun come smarrito regna.
O somma maestà giusta e benegná,
Poi che ti fu 'n piacer tôrci costui,
Danne qualche conforto per altrui.

Chi è questo somm' uom, potresti dire
O tu che leggi, il qual tu ne racconte
Che la natura ha tolto al breve mondo,
E l'ha mandato in quel senza finire
Là dove l'allegrezza ha largo fonte?
Arrigo è imperador, che del profondo,
E vile esser qua giù su nel giocondo
L'ha Dio chiamato, perchè 'l vide degno
D'esser co' gli altri nel beato regno.

Canzon, piena d'affanni e di sospiri,
Nata di pianto e di molto dolore,

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Nacque a Vico Pisano non si sa quando, ma probabilmente circa il 1270. Fu frate della regola di San Domenico e menò vita esemplare, tutta dedita ad opere di carità cristiana. Fondò il monastero di Santa Marta in Pisa: mori in questa città nel 1342.

I suoi scritti sono in prosa e in poesia: difficilissimo n'è l'ordinamento cronologic, nè sono risolute tutte le questioni riguardo all' attribazione di alcuni di essi al Cavalca.

Delle opere in prosa alcune sono originali, o, almeno, compilazioni, altre volgarizzamenti: alle prime appartengono la Disciplina degli spirituali; il Tratta delle trenta stoltizie, parte in versi; il Trattato della mondizia del cuore; i Frutti della lingua; la Medicina del cuore, ovvero Trattato della pazienza; lo Specchio di croce; lo Specchio dei peccati; l' Esposizione del Simbolo degli Apostoli; il Trattato dello Spirito Santo (pubblicato da F. ZAMBRINI, Imola, Galeati, 1886). Compose anche altre operette minori. Queste scritture, come i volgarizzamenti, furono pubblicate molte volte, e di alcune v' hanno rarissime edizioni del secolo XV. (Per queste e per le stampe moderne, v. le Bibliografie del GAMBA, dello ZAMBRINI, ec.)

Tra i volgarizzamenti dal latino ricordiamo: Il Pungilingua e le versioni dell'Apocalisse, degli Atti degli Apostoli, d'un Dialogo di San Gregorio, d'un' Epistola di San Girolamo. Il volgarizzamento de' libri biblici famoso sotto il nome di Bibbia vulgare (1a ediz., Venezia, Jenson, 1471) fu male attribuito al Cavalca, ed è dovuto a più autori (v. S. DE BENEDETTI in proposito della ristampa fattane da C. NEGRONI, in Riv. critic. della lett. ital., anno IV, n. 1). Delle Vite de' Santi Padri, che derivano dalla compilazione detta Vita Patrum colle successive aggiunte, si sa di certo che il Cavalca tradusse (v. Esposiz. del Simbolo, I, 39, II, 10, e Med. d. cuore, XX) solo la terza parte, cioè il libro aggiunto di esempj, visioni, ammaestramenti, ec.; per quel ch'è degli altri libri si resta dubbiosi (v. C. PASQUALIGO sulla ediz. di C. GARGIOLLI,

Torino, Paravia, 1887, in Riv. critic. della lett. italiana, anno IV, n. 3). Finchè peraltro la controversia non sia definitivamente risoluta, poniamo sotto il nome tradizionale ciò che togliamo dalla parte quarta delle Vite.

Delle poesie, il Cavalca ne intercalò varie in certi trattati ascetici sono sonetti, serventesi, laudi, tutte di non molto valore, salvo la schiettezza della lingua. (V. Notizie bibliografiche, in Saggio di poesie di f.D. C. per cura di L. SIMONESCHI, Firenze, Stianti, 1888.)

Il valore e l'indole delle idee morali del Cavalca rispecchiano il sentimento non solo ascetico, ma cristianamente pratico della sua vita (FRANCESCO FALCO, D. C. moralista, Lucca, tip. del Serchio, 1892). Notevole è come egli concilj il più puro spirito evangelico colla libertà di parola, che pur usa contro la corruzione ecclesiastica del suo tempo. I pregj della sua prosa, che consistono nella ingenuità, lucidità e concisione dello stile e nella freschezza della lingua furono fin troppo dal Giordani decantati; il quale stimava il Cavalca padre della prosa italiana, primo, migliore, ottimo prosatore della nostra lingua (Op., XIV, 418). Anche il CAPPONI lo dice maggiore forse di ogni altro che avesse mai l'idioma nostro, quanto alla proprietà delle parole e alla disinvoltura dell' andamento e alla naturalezza delle armonie (St. della Repubbl. di Firenze, Firenze, Barbera, 1875, lib. II, c. 8).

[Per la biografia, vedi A. M. FABRONI, Memorie storiche di più uomini illustri pisani, Pisa, Prosperi, 1791, II, pag. 359 e segg.]

Il monaco Abraam e Maria sua nipote. Or avvenne, essendo Abraam molto vecchio, che, morendo un suo fratello carnale secolare, lo quale era stato molto ricco, i parenti sì gli menarono una sua nipote, ch'era rimasta, di sette anni, ch' avea nome Maria, e lasciarongliele ch'egli la governasse come gli paresse. La quale egli ricevendo, fecele una cella allato alla sua, e per una finestra, che fece in mezzo fra sẻ e lei, si le insegnava lo Saltèro e altre scritture, e ammaestravala della via di Dio; e quella, come savia e buona, crescendo in etade e in santitade, si sforzava di seguitare lo suo zio in astinenzia e in ogni altra perfezione; e cantava insieme con lui i salmi e le laude di Dio, e con gran fervore ogni di si studiava di crescere di virtù in virtù. El suo zio Abraam assiduamente pregava Iddio piagnendo per lei, che Iddio le traesse del suo cuore ogni affetto terreno, e che non pensasse nè si ricordasse delle molte ricchezze che suo padre avea lasciate dopo sé, le quali tutte incontanente egli fece dare a' poveri, per liberare sè e lei di quella sollecitudine e di

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