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S'a' tuoi preghi, o Maria,

Vergine dolce e pia,

Ove 'l fallo abbondò la grazia abbonda.
Con le ginocchia della mente inchine
Prego che sia mia scorta,

E la mia torta via drizzi a buon fine.
Vergine chiara e stabile in eterno,
Di questo tempestoso mare stella,
D'ogni fedel nocchier fidata guida;
Pon mente in che terribile procella
I' mi ritrovo, sol, senza governo,
Ed ho già da vicin l'ultime strida.'
Ma pur in te l'anima mia si fida;
Peccatrice, i' nol nego,

Vergine; ma ti prego

Che 'l tuo nemico del mio mal non rida:
Ricordati che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,

Umana carne al tuo virginal chiostro.

Vergine, quante lagrime ho già sparte,
Quante lusinghe e quanti preghi indarno,
Pur2 per mia pena e per mio grave danno!
Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
Cercando or questa ed or quell'altra parte,
Non è stata mia vita altro ch' affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
Tutta ingombrata l'alma.

Vergine sacra ed alma,

Non tardar, ch'i'son forse all'ultim' anno.
I di miei, più correnti che saetta,
Fra miserie e peccati

Sonsen andati, e sol Morte n'aspetta.

Vergine, tale è terra e posto ha in doglia
Lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne;
E di mille miei mali un non sapea;

4

E per saperlo, pur quel che n'avvenne

Fòra avvenuto; ch'ogni altra sua voglia

1 Sono ormai presso a mettere le ultime strida; sono già vicino al naufragio e alla morte.

2 Soltanto.

3 Laura.

4 Se anche lo avesse saputo.

Era a me morte ed a lei fama rea.1
Or tu, Donna del ciel, tu nostra Dea
(Se dir lice e conviensi),"

Vergine d'alti sensi,

Tu vedi il tutto; e quel che non potea
Far altri, è nulla alla tua gran virtute,
Por fine al mio dolore; 3

Che a te onore ed a me fia salute.

Vergine, in cui ho tutta mia speranza
Che possi e vogli al gran bisogno aitarme,
Non mi lasciare in su l'estremo passo:
Non guardar me, ma chi degnò crearme;
No 'l mio valor, ma l'alta sua sembianza
Ch'è in me, ti mova a curar d' uom si basso.
Medusa e l'error mio m'han fatto un sasso
D'umor vano stillante;

Vergine, tu di sante

5

Lagrime e pie adempi 'l mio cor lasso;

Ch' almen l'ultimo pianto sia devoto.
Senza terrestro limo,

Come ful primo non d'insania vôto.

6

Vergine umana e nemica d'orgoglio,
Del comune principio amor t'induca;
Miserere d'un cor contrito, umile:
Che se poca mortal terra caduca
Amar con sì mirabil fede soglio,
Che devrò far di te, cosa gentile?

Se dal mio stato assai misero e vile
Per le tue man resurgo,

Vergine, i' sacro e purgo

Al tuo nome e pensieri e 'ngegno e stile,
La lingua e 'l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado;

E prendi in grado i cangiati desiri.

1 Ogni altra voglia del cuore, sarebbe stata esiziale a me, d'infa mia a lei.

2 Se è lecito chiamarti con questa denominazione pagana.

3 Tu puoi fare quello che Laura non potè; cioè porre fine al mio dolore.

Laura, anche altrove (son. 127) paragonata a Medusa che facea marmo diventar la gente.

5 Riempi.

6 Ricorda che tu pure fosti, come me, creatura umana.

1

Il di s'appressa, e non pote esser lunge;
Si corre il tempo e vola,

Vergine unica e sola;

El cor or coscienza or morte punge.
Raccomandami al tuo Figliuol, verace
Uomo e verace Dio,

Ch'accolga il mio spirto ultimo in pace.

GIOVANNI BOCCACCIO.

La vita e le opere di Giovanni Boccaccio, argomento a molti e notevoli studj moderni, non sono, peraltro, in molti particolari neppur oggi troppo sicure; e soprattutto presentano difficoltà, forse insormontabili, alcune questioni di cronologia.

Nacque, come par dimostrato, a Parigi nel 1313: figliuolo naturale del mercante fiorentino Boccaccio di Chellino, che si era recato in quella città circa il 1310, e d'una nobil giovane francese, di nome Giannina. I nomi paterno e materno egli portò chiamandosi Giovanni Boccacci, o Boccaccio come si dice più comunemente. La sua famiglia era originaria del castello di Certaldo in Valdelsa: venne fanciullo, col padre, a Firenze: onde si disse ora fiorentino, ora certaldese (C. ANTONA-TRAVERSI, Della patria di Giovanni Boccaccio, Napoli, Perrotti, 1881). Fu a scuola di Giovanni da Strada, e, com'egli stesso racconta, prima di sette anni componeva già alcuni versi (De geneal. deorum, XV, 10). Il padre che esercitava la mercatura, e fu poi fattore della compagnia de' Bardi (1336-1338) (vedi DEL LUNGO, Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII, Milano, Hoepli, 1891, p. 160 e segg.), volle avviarlo a' commercj: forse dal padre stesso fu condotto a Napoli fin dal 1327 (A. CASETTI, Il B. a Napoli, in N. Antologia, marzo 1875, e G. DE BLASIIS, La dimora di G. B. a Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol., anno XVII, 1892). In questa città passò la giovinezza, amico fin d'allora di Niccolò Acciaiuoli, in quel tempo semplice mercante anche lui; ma in mezzo allo splendore di quella natura e di quella vita crebbe la sua avversione per il commercio, che poi lasciò col permesso di darsi agli studj del diritto canonico, i quali non gli piacquero più del commercio. Come molti altri grandi, potè seguire soltanto assai tardi l'inclinazione sua, che lo portava allo studio degli scrittori antichi e della poesia. Fu iniziato alla mitologia dal genovese Andalò Del Negro; e dal bibliotecario di re Roberto, Paolo

1 L'ultimo giorno.

2 Respiro.

Perugino, alle dottrine astronomiche. Secondo racconta anche Filippo Villani, in una visita alla tomba di Virgilio in Posilipo si senti come chiamato a serbar fede per tutta la vita agli studj delle lettere. Negli anni giovanili sembra che sentisse amore per più d' una donna, e si trovano nominate Galla, Pampinea, Abrocomia; ma amore vero e potente pose in quella che ei chiamò Fiammetta. In circostanze quasi identiche all'innamoramento del Petrarca, un sabato santo (11 aprile 1338?) egli vide la bionda Maria de' conti d'Aquino, figlia di re Roberto e sposa d'un personaggio della corte, (Per alcuni dubbiosi particolari sulla famiglia di Fiammetta, v. DE . BLASIIS, Le case de' Principi angioini, Napoli, Giannini, 1889, p.59.) Costei, meno ritrosa di Beatrice e di Laura, cedette alle lusinghe del giovine poeta, cui chiese poi e versi e novelle, e che riamò; ed il loro amore fu tenuto con molta accortezza celato agli occhi della gente (C. ANTONA-TRAVERSI, Della realtà dell' amore di m. G. B., nel Propugn., vol. XVI e XVII, 1883-84, e nella Rivista Europea, vol. XXIX e XXXI, 1882-83. Cfr. l'episodio d' Idalagos nel Filocolo). Ma quest'amore non durò a lungo: anzi il poeta fu abbandonato da Fiammetta. Pare anche che un falso amico gli facesse perdere i vantaggi che era riuscito a crearsi, migliorando la sua fortuna : richiamato dal padre, fra il 1339 e il 1341, lasciò Napoli e tornò a Firenze. Al più tardi nel 1346, era a Ravenna presso Ostasio da Polenta, e a Ravenna tornò altre volte presso parenti; nel 1348 era a Forli presso Francesco Ordelaffi, cui, secondo alcuni, accompagnò nell'Italia meridionale; ma se non è sicuro che fosse a Napoli, certo fu lontano da Firenze durante la terribile pestilenza, gli orrori della quale potè descrivere per udita. In cotest' anno o nel successivo perde il padre, che amò certo molto meno della madre, la quale abbandonata a Parigi (nè altro se ne sa), fu vivo desiderio e rimpianto pel cuore di questo glorioso figliuolo. Dovette allora assumersi la cura del minor fratello, Iacopo (v. I. SANESI, Un documento ined. su G. B., in Rass. bibliografica della letter. ital., n. 2, 1893). Morta ormai la principessa Maria, chiuse il periodo delle dissipazioni giovanili gli rimase peraltro una mal dissimulata avversione per il matrimonio, e ne fanno fede il Corbaccio e la Vita di Dante. A indirizzare per nuova e più retta via il corso della sua vita, giovò molto l'amicizia che strinse col Petrarca, che forse anche prima di questo tempo aveva conosciuto per lettera e sicuramente nelle opere. Si videro nel 1350 in Firenze: nel 1351 il Boccaccio andò ambasciatore al Petrarca a Padova e dimorarono insieme alcuni giorni, avendo comune e vivo l'entusiasmo per gli studj classici. Il Boccaccio ebbe onori ed incarichi in Firenze, ma non ufficio pubblico costante: fu de' camarlinghi del Comune e dell' ufficio di Condotta (1367-68); servi, come allora molti uomini di lettere, in qualità di ambasciatore; e se, non a Ravenna nel 1350 alla figliuola di Dante, nel 1351 a Lodovico di Brandeburgo conte del Tirolo; nel 1354 a Innocenzo VI in Avignone, dove fu ancora più tardi (1365 e 1367)

(A. HORTIS, G. B. ambasciatore in Avignone, Trieste, Hermanstorfer, 1875). Nel 1359 rivide il Petrarca a Milano, e nello stesso anno gli mandò, copiato di suo pugno, un esemplare della Commedia; fece ottenere a Leonzio Pilato una cattedra di greco nell'università fiorentina e da esso, non troppo dotto maestro per verità, prese lezioni di quella lingua, della quale forse alcun cenno gli aveva dato il monaco calabrese Barlaam. Un piccolo possesso a Certaldo non bastava ad assicurargli una comoda esistenza, e nel 1362 fu a Napoli insieme col fratello col proposito di fermarvi dimora, allettato dalle promesse del fiorentino Niccolò Acciaiuoli, diventato gran siniscalco della regina; ma da questo, che rappresentò come Midas nella fiera invettiva d'una sua ecloga, non ebbe l'aiuto che si riprometteva, e andò a stare con un altro fiorentino, Mainardo Cavalcanti; poi, di nuovo coll'Acciaiuoli presso Baia. A Firenze aveva avuta prima di partire una strana visita d'un Gioacchino Ciani, già compagno di un Pietro Pietroni senese, morto in concetto di santo: con rimproveri e invito, anzi intimazione, a lasciare le lettere e predizione di prossima morte. A Napoli non trovò il conforto che si era aspettato, e ne riparti nel 1363 recandosi a Venezia presso il Petrarca, il quale (Senili, I, 3) l'aveva già confortato a darsi pace delle parole del Ciani, e sconsigliato dall'abbandonare gli studj e i libri prediletti. Nel 1364 era a Certaldo; nel 1367 a Venezia, dove ebbe liete accoglienze dalla figlia del Petrarca e dal marito di lei: il Petrarca rivide l'anno dipoi a Padova. Non si può ammettere un suo viaggio in Calabria; a Napoli tornò nel 1370 e vi stette fino al 1371, ricusando le offerte che gli venivano d'aiuti e favori da molte parti, anche dal Petrarca. Nel 1373 lo troviamo a Firenze coll'incarico di esporre pubblicamente la Commedia, o il Dante, come dissero nella supplica perchè si istituisse questo ufficio (21 agosto 1373) alcuni cittadini. Fu la prima cattedra dantesca, degnamente conferita ad un così caldo fautore del culto del grande poeta: l'incarico ebbe per un anno collo stipendio di 100 fiorini d'oro, e cominciò a leggere nell'ottobre del 1373 nella chiesa di Santo Stefano, continuando per tutti i giorni non festivi; ma non andò molto avanti perchè ammalato. Ebbe anche alcune contrarietà e pare pensasse perfino di ridursi a vita monastica: nell'autunno del 1374 si ritirò a Certaldo (I. ROSELLINI, Della casa di G. B. in Certaldo, in Antologia, novembre 1825, n. LIX), e vi rimase malazzato sino al giorno 21 dicembre del 1375, in cui mori. Fu sepolto nella chiesa di Sant' Iacopo e Filippo (G. DE POVEDA, Del sepolcro di m. G. B. e di varie sue memorie, ec., Colle, Pacini, 1827). Aveva lasciato per sua epigrafe questi versi :

Hac sub mole jacent cineres ac ossa Johannis ;
Mens sedet ante Deum meritis ornata laborum
Mortalis vite. Genitor Bocchaccius illi;
Patria Certaldum, studium fuit alma poesis ;

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