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rato per quale via si possa andare alla città pallantea per lo nostro re Enea; e però, se ci consentite che noi ci mettiamo alla ventura, noi siamo apparecchiati d'andare per lui. » A queste parole uno Troiano, ch'avea nome Alete, maturo d'anni e d'animo, gittato ch'ebbe lo braccio in collo a Niso ed Eurialo, lacrimando rispose: « Quali degni premj e quali guidardoni, o nobili giovani, vi potremo noi rendere? GI Iddii del cielo e li vostri costumi vi daranno pure li maggiori; poi li altri, che seguitano li maggiori, vi darà colui per cui voi andate, cioè lo pietoso Enea. » Dopo questo dire d'Alete, Ascanio si levò suso dicendo: « Ed io, al quale mi reputerò che rechiate salute se mi rimenate lo mio padre, o Niso ed Eurialo, per li grandi Iddii di Troia vi giuro che infino a ora vi pongo in grembo tutta la mia ventura e tutta la mia fede; e, rimenato che m'arete lo mio padre, simigliantemente vi giuro di darvi due grandi vaselli d'ariento, molto bene lavorati, li quali mio padre recò dalla città d'Arisba, quando la prese: anche vi darò due grandi talenti d'oro, con una bellissima coppa d'oro e di gemme, la quale la reina Didone donò ad Enea; e, se ci viene fatto che noi pigliamo Italia, tutte l'arme di Turno e ciò che ha Turno, fuor che lo cavallo, che tu Niso li vedesti ieri sotto, e l'elmo, che avea in testa, chè vorrò io queste due cose per me, tutto l'altro voglio che sia tuo; e sopra tutto questo ti prometto di darti uno contado nel regno del re Latino. » Poichè Ascanio ebbe parlato a Niso, si volse ad Eurialo in questa forma dicendo: «E a te Eurialo, venerando garzone, alla cui età s'approssima più la mia, ti dico che nel mio petto ti ricevo per mio compagno in tutti casi nulla gloria, nulla onore, nullo bene andrò ratio sanza te in tutti i miei fatti, a tempo di pace e a tempo di guerra, la mia fede e 'l mio amore sarà sempre teco. » Alle quali parole cosi rispose Eurialo: «Com'io t'ho impromesso, cosi sono acconcio di fare, pure che la fortuna ci sia prospera e benigna, e non malvagia; ma sopra tutti li doni che tu mi possi fare, o Ascanio, si è che la mia madre, la quale, come tu sai, è dell'antico sangue del re Priamo ed èmmi venuta dietro da Troia infino qui, se sciagura m'avvenisse, ch'ella ti sia raccomandata di consolarla, ch' io mi parto ora da lei e non le faccio motto, perch'io non potrei sostenere 2 alle sue lacrime: di questo solo ti priego. A queste parole d' Eurialo tutti li troiani, ch'erano ivi a consiglio, percossi di pietà incominciarono a lagrimare; ma sopra tutti Ascanio movendosi a pietade, così gli rispose: «Promettoti, Eurialo, che, se la fortuna ti fusse iniqua, la qual cosa voglia Dio che non sia, di tenere la tua madre sempre per mia; e per questo capo ti giuro, per lo

1 VIRG.: mores.... vestri, la virtù vostra.
2 Reggere; VIRG.: lacrimas perferre.

quale mio padre suole giurare, che, tornando te, farotti ciò ch'io t'ho promesso; ove tu non tornassi, osserverollo a tua madre. » E, dicendo questo colle lacrime negli occhi, si levò dal lato una bellissima spada col fodero tutto d'avorio lavorato, la quale avea fatta uno nobile maestro di Creti, ch'ebbe nome Licaone, e diella ad Eurialo. Due altri capitani, cioè Mnesteo ed Alete, diedero a Niso una pelle di leone ed uno elmo.

Armati, costoro montarono a cavallo e con silenzio uscendo del campo suo, entrarono nel campo di Turno; ivi trovarono tutta la gente dormire. El primo luogo dové percossono, fu lo luogo di Rannete. Questo Rannete era re di corona, ed era auguro dello re Turno; ma con tutto lo suo augurio non potè fuggire quella notte la morte; chè, come questi due, cioè Niso ed Eurialo, furono giunti a lui, egli dormia su per li tappeti. Niso, uccisi che n'ebbe assai della sua famiglia, uccise lui e poi li mozzò lo capo; e poi uccise uno bellissimo giovane, ch' avea nome Sarrano, lo quale avea tutta sera giucato. E beato a sè, se egli avesse tutta notte continuato il giuoco e non si fusse posto a dormire! Dall'altro lato Eurialo andava uccidendo, tagliando e troncando. E, fatto ch'ebbono grandissimo danno, Niso disse ad Eurialo: «Assai abbiamo fatto per una volta; andiánci; e, se tu vuogli pigliare alcuna cosa del campo, si piglia. » Allora Eurialo, benchè v'avesse molto ariento e molte arme e molte gioie, nulla cosa prese, se non se le coverte e lo scheggiale di Rannete;2 e Niso si pose l'elmo del re Messapo; e andarono via. Usciti fuori del campo e prendendo la via verso la città pallantea, ebbono scontrati trecento cavalieri della reina Cammilla, li quali veniano a Turno. Allora questi due volgendo la via, lo capitano di quelli cavalieri incominciò a gridare: « State fermi, o cavalieri; che via è questa che voi fate? chi sete? ove andate?» Alle quali parole Niso ed Eurialo non risposero: ma, quanto potero, fuggirono per una selva piena di pruni, la quale selva, perchè non avea via segnata nè sentieri, Eurialo si smarritte da Niso. Ed ecco quelli trecento cavalieri presero tutte le poste; e lo capitano, con alquanti di loro, si missero a cercare per la selva; ed ecco, come la sciagura volle, ebbono trovato Eurialo. Niso, ch'era campato, quando si vide senza lo compagno, addolorato a morte incominciò a gridare: «O sciagurato a me! Eurialo, ove t'ho lasciato? ove troverotti? per quale via t'andrò ratio? » E cosi dicendo tornò addietro ritrovando le sue pedate; e, come egli tornava, udio lo strepito e lo rumore, che facieno quelli cavalieri addosso ad Eurialo; e approssimandosi più,

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1 Dei suoi familiari; VIRG.: famulos.

2 Le gualdrappe e il cinto.

3 Le uscite, i passi; ed è vocabolo di caccia.

SCRITTORI VARI.

vide al lume della luna, ch'era già levata, intorniato Eurialo da costoro. Allora non sapendo che si fare nè in che modo liberare lo compagno, avendo due lanciotti in mano, misse mano all'uno, ed, alzando gli occhi alla luna, in questa forma orò: «0 luna splendore della notte, onore e bellezza delle stelle e guardia delle selve,1 soccorri ora alle nostre fatiche, e drizza e guida questo lanciotto, sicch' egli non vada indarno.» E detto questo gittò quello lanciotto, e giunse ne' fianchi a uno cavaliero, ch'avea nome Sulmone. Quegli, com' ebbe ricevuto lo colpo, cadde in terra del cavallo, e fu morto. Li compagni, voltandosi intorno e non vedendo persona, maravigliavansi donde era venuto quello colpo; ed eccoti Niso lanciò l'altro lanciotto e percosse un altro cavaliere nella tempia, ch'avea nome Tago e passollo dall'altro lato. Allora lo capitano di questa gente, tutto acceso d'ira, misse mano alla spada e gettandosi addosso ad Eurialo, disse: «Dacch'io non veggio chi ha fatto questo, tu porterai la pena di lui. » Quando Niso udio ciò, tutto spaventato e quasi fuori della mente, non potendo sostenere tanto dolore, cominciò a gridare: « Ecco me, ecco me; io fui, io; in me volgete il ferro, o Rutuli; questo inganno feci io, non l'ha fatto cotesti. » Come Niso dicea queste parole, quello capitano, col colpo della spada, passò le coste ad Eurialo e lo candido petto gli ruppe. E, volgendosi Eurialo in su la morte, lo sangue gli andava per le sue belle membra, el capo li caseò in sulle spalle, come casca il fiore, quando gli è tagliata la radice dal vomere dell'arato,2 o come casca il fiore del papavero, quando, per troppa gravezza, si piega il suo gambo. Allora Niso, vedendo morto Eurialo, gittossi tra tutti, e, intendendo con la spada in mano pure sopra colui che l'avea morto, li cavalieri l'ebbono intorniato. Quivi fu dura ed aspra battaglia; Niso rotandosi intorno,* bene che ricevesse molti colpi, molti ne diede. All'ultimo, ucciso ch' ebbe quello capitano d'un colpo che li diè nella gola, gittossi a morire in sul corpo del suo diletto compagno, dove con placida morte prese riposo. Morti in questo modo due principi de' Troiani, li Volsci mozzarono loro le teste, e puosorle in su le punte delle lancie, e presi li cavalli e l'arme loro, se n'andarono al campo di Turno, portando lo corpo del loro capitano in su uno palvese e facendo gran pianti. Come elli giunsono al campo, fatto già giorno, trovarono non minore pianto quivi, per lo più grande guasto ch'avieno trovato nel campo. Turno, poich' ebbe conosciuto alle coverte di Rannete e all'elmo di Messapo chi avea fatto quel danno, fece ficcare le lancie, dov' erano quelle due teste, dinanzi alle porte

2 Aratro.

1 VIRG.: custos nemorum.
3 Addrizzando, volgendo; VIRG.: solum.... Volscentem petit.
Rotando intorno a sè colla spada; VIRG.: rotat ensem.

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delli Troiani. E levato il rumore nel campo, comandò che tutti s'apparecchiassero a dare battaglia."

In quello che Turno s'apparecchiava a combattere lo campo delli troiani, ecco la fama volare per tutto lo campo, come Niso ed Eurialo erano stati morti. E, come la detta fama pervenne alli orecchi della madre d'Eurialo, subitamente doventata tutta fredda e ghiacciata, le cadde lo lavorio ch'avea tra le mani, e, levata da sedere, corse alla porta, urlando, piangendo, battendosi, e tutti li capelli stracciandosi. E, montata che fu in sulla porta, veduto ch'ebbe lo capo del figliuolo in su la lancia, incominciò a gridare: << Così fatto ti veggio, Eurialo? com' hai potuto, o tardo reposo della mia vecchiezza,' lasciarmi cosi sola? o come fustù cosi crudele, che non volesti dare alla tua madre misera, copia di parlarti, quando a sì fatti pericoli ti mettesti? oimè, figliuolo mio, dove ti vedo giacere! Giaci, dolorosa la vita mia in terra latina, ch'è così di lungi da casa tua, preda d'uccelli e di cani! e non fui, dolorosa a me, a vederti morire; gli occhi non ti pote' chiudere; le ferite non ti pote' lavare; e le tue membra, che giacciono nude in terra, non ti pote' ricoprire: dove t'andrò ratio, o Eurialo, figliuolo mio? in quali parti giacciono le tue belle membra senza 'l capo? questo è lo dono, che tu m'hai mandato nella tua morte, o figliuol mio? che veggio! lo tuo capo in su la punta della lancia? per vedere questo, disavventurata! ti sono venuta dietro per mare e per terra? O Rutuli, ch'avete morto lo mio figliuolo, io vi prego, s'alcuna pietade è in voi, che colli ferri ch' avete ucciso lo mio figliuolo, voi uccidiate me e, se questo non fate, io ti priego, Iddio del cielo, che abbi misericordia di me misera, che tu mi saetti colla tua saetta, da che in altro modo non posso finire la mia vita crudele e misera. » A questo pianto si fiaccarono sì gli animi de' Troiani, che non faceano altro che piangere ; e a difendere lo campo aveano già perdute le forze. Per la quale cosa Ascanio, veggendo che la donna incendea con lo suo incendio lo dolore della gente, la fece pigliare tra braccia e portarlane a casa.—(Dai Fatti di Enea, rubr. 36-37, secondo l'ediz. di D. CARBONE.)

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FRA BARTOLOMMEO DA SAN CONCORDIO. Circa il 1262 nacque in San Concordio, nel suburbio pisano (ora Barbaricina), ovvero in Pisa stessa da famiglia, che indi traeva il proprio nome. Erroneamente da taluno fu detto della famiglia de' Granchi. Gio

1 VIRG.: tu ne illa senecte sera mea requies? Opportunità; VIRG.: misera data copia matri.

VIRG.: hoc fletu concussi animi.

Attizzava, accrescera; VIRG.: illam incendentem luctus.

vanissimo entrò nell' ordine domenicano, ove (come dice il suo biografo della Cronica del convento di Santa Caterina), juste vivendo, semper studendo, indesinenter docendo, gratiose monendo, copiose inveniendo, affectuose construendo, durò settant'anni. Studiò a Bologna ed a Parigi: arricchitosi di scienza profana e sacra, fu predicatore, poco men grato e valente, dice il biografo, di Fra Giordano (a lui attribuiti si hanno a stampa Sermones quadragesimales, Lione, 1519): nel 1256 e nel 1304 abbiamo memoria che fosse lettore in Firenze; altri documenti attestano la presenza di lui in Pisa dal 1312 al 1326 nel convento di Santa Caterina, ove a sua cura si edificò la libreria. Mori l'11 luglio 1347.

Molto scrisse in latino e in italiano. Compose in latino un trattato De documentis antiquorum, dove da cento e più scrittori sacri e profani raccoglie un duemila sentenze, ordinandole e commentandole, e ch' egli stesso, ad istanza di Geri degli Spini fiorentino, tradusse poi in volgare con efficacia, brevità e chiarezza, come sentenzio il SALVIATI, e il PARINI conferma, lodandone lo stile preciso, succoso ed energico, dando all'opera sua il titolo di Ammaestramenti degli antichi (1a ediz., Firenze, Marescotti, 1575; la migliore è quella procurata da V. NANNUCCI, Firenze, Ricordi, 1846). Tradusse a istanza di Nero Cambi fiorentino le opere storiche di Sallustio, talvolta compendiandole (1a ediz. procurata da G. CIONI, Firenze, Grazioli, 1790); in italiano si ha anche un Trattato della memoria artificiale, ma V. NANNUCCI, che lo riprodusse dopo gli Ammaestramenti, dubita con solide ragioni che sia scrittura di lui, e crede gli sia stato appropriato per sapersi ch'ei compose un'opera in latino di cotesto titolo. Lo stesso editore riporta come suo volgarizzamento la lettera dell' università di Parigi per la morte di san Tommaso. L'opera sua maggiore scritta nel 1338, è quella Summa casuum conscientiæ, a cui del resto meglio conviene il titolo di alcuni codici: Summa juris canonici et civilis, la quale durò a lungo nelle scuole teologiche, e dal nome dell'autore fu detta Summa Bartolina, ma dal luogo ov'era nata Pisanella, e in italiano più comunemente: Il Maestruzzo. Credesi che il volgarizzamento italiano di quest' opera sia di Giovanni delle Celle. Come vasto repertorio di dottrina non solo sacra e canonica, ma anche di diritto ecclesiastico e civile, e per ricchezza di appropriati vocaboli, sembra che Daniele Manin, il quale possedeva copia di un autorevole codice antico, avesse in animo di pubblicare il Maestruzzo: ma il disegno non ebbe effetto, e abbiamo soltanto a stampa il Principio del Maestruzzo tratto da un ms. che fu di D. Manin, con frammenti del lib. V, a cura di P.FERRATO, Venezia, Clementi, 1868.

[V. su di lui V. FINESCHI, nelle Mem. stor. illustri pisani, Pisa, Prosperi, 1792, III, 109; i sunti biografici premessi dal CIONI e dal NANNUCCI alle respettive cit. ediz., e la Cronica di S. Caterina con note di F. BONAINI, nell'Archivio stor. ital., vol. VI, p. II, pag. 521, Firenze, Vieusseux, 1840.]

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