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No; secondo che 'l mio core avvisa,
Ch'io veggo Lucca mia castel di Pisa 1
E i signor fatti servi dei ragazzi.2

Veggola ontata, nuda, ed abitata
Non più dal suo antico abitatore,
Ma da color che l'hanno si guidata.

E non mi par veder fronda nè fiore
Di far così fra tempo la tornata; 3
Ond' io porto astio grande a chi ci more.

Ritorno in patria.

S'io veggo in Lucca bella 1 mio ritorno,
Che fi' quando la pera fia ben mezza,3
In nullo core uman tant' allegrezza
Giammai non fu, quant' io avrò quel giorno.
Le mura andrò lecçando d' ogn' intorno
E gli uomini, piangendo d' allegrezza:
Odio, rancore, guerra ed ogni empiezza
Porrò giù contro quei che mi cacciorno.

E qui me voglio I vieto castagniccio
'Nanzi che altrove pan di gran' calvello:
'Nanzi che altrove piume, qui 'l graticcio.
Ch'i' ho provato si amaro morsello,
E provo e proverò stando esiticcio,7
Che 1 Bianco e 'l Ghibellin vo' per fratello.

PIERACCIO TEDALDI. Fiorentino, di antica e ricca famiglia di mercanti, nacque probabilmente tra il 1285 e il 1290. Nel 1315 fu fatto prigione nella rotta di Montecatini; nel 1328 lo troviamo castellano di Montopoli. Dalla didascalia dell' ultimo sonetto che riportiamo di lui, si rileva che stesse 25 anni fuori di Firenze, ma non si sa se in esilio o in ufficj. Viveva ancora nel 1340, poichè un suo sonetto si riferisce a fatti di cotest' anno: mori forse verso il 1350.

Ci restano di lui nel codice vatic. quarantatrè sonetti, editi

1 Divenuta di città libera, castello dei pisani.

2 Ragazzi nel linguaggio antico sono gli addetti ai più vili servigj; anche DANTE, Ing., XXIX, 77, contrappone il ragazzo al signore,

3 Non veggo che ci sia principio che venga presto il giorno in che cessi l'esilio. A chi muore in questo mondo.

5 Che accadrà quando la pera sarà più che matura.

6 E mi piacerà più in Lucca il duro pane di farina di castagne (i così detti necci), che altrove il pane di gran gentile, e piuttosto un letto di vimini, che di piume.

7 Avendo provato e tuttavia provando, fuoruscito da Lucca, quant'è amaro, quanto sa di sale il pane dell'esilio, tornato ch'io sia, stimerò fratelli i nemici più odiati.

con appropriata prefazione da S. MORPURGO (Firenze, Libreria Dante, 1885), ove è detto con esatto criterio, appartenere il Tedaldi alla piccola ma simpatica schiera de' primi « poeti volgari famigliari o giocosi o umoristi o borghesi, come si debbano chiamare; e perciò per molti lati simile all'Angiolieri senese e a Folgore da San Gemignano, e antecessore del Pucci, del Sacchetti e degli altri rimatori del trecento e del quattrocento, che in forma schiettamente paesana e con piano andamento ritrassero in versi fatti e pensieri della vita quotidiana e comune.

Povertà e ricchezza.

Il mondo vile è oggi a tal condotto
Che senno non ci vale o gentilezza,
S'e'non v'è misticata la ricchezza,
La qual condisce e 'nsala ogni buon cotto.
E chi ci vive per l'altrui ridotto 2
Non è stimato, e ciascuno lo sprezza,
E a ognuno ne viene una schifezza
Con uno sdegno, e non gli è fatto motto.

3

Però rechisi ognun la mente al petto 3
En tal modo cerchi provvedere,
Ch'egli abbia de' danai: quest' è l'effetto.*

E poi che gli ha, li sappia mantenere,
Sed' e non vuole che poi gli sia detto:
Io non ti posso patir nè vedere.

Povertà.

I piccoli fiorin d'argento e d'oro
Sommariamente m'hanno abbandonato,
E ciaschedun da me s'è allontanato
Più che non è Fucecchio da Pianoro.5

Ond' io pensoso, più spesso addoloro
Che quel che giace in sul letto ammalato,
Però che 'n cassa, in mano, in borsa o allato
Non vuol con meco nessun far dimoro.

E io n'ho spesso vie maggior bisogno
Più che non ha il tignoso di cappello,
E giorno e notte gli disio e sogno:

E nessun vuole stare al mio ostello,
E poco vienmi a dir se io gli agogno,
Chè ciaschedun da me si fa rubello.

1 Mescolata.

2 A casa d'altri, a spese d'altri.

3 Ognuno consideri bene, rifletta.

Questo è ciò che importa.

5 L'uno nel pian di Pisa, l'altro sulla montagna bolognese. 6 Poco mi giova ec.

Sul medesimo argomento.

O me! che io mi sento si smarrito
Quand' io non ho denar nella scarsella!
Dove sia gente a dir qualche novella
I'non son quasi di parlare ardito.

E se io parlo, i'son mostrato a dito
E sento dirmi: Ve`, quanto e' favella!
I perdo il cuor com' una femminella,
Si ch'io divengo tutto sbigottito.

E quando i' ho danari in abbondanza
In borsa, in iscarsella o paltoniera1
I' sono ardito, ed ho di dir baldanza ;

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Dinanzi ho'l cerchio, e di dietro ho la schiera

Di gente assai, chè ciascuno ha speranza
Ch'io lo sovvenga per qualche maniera.

Desiderio di ritorno in patria.

S'io veggio il dì, che io disio e spero,
Di ritornare a star dentro a Firenze
E che i facci là mia risidenza,
Avrò salute al mio voler sincero.

E se di ciò adempio il mio pensiero
Per la virtù di Dio che n'ha potenza
(E ciò confermo e dico dadovero),
Non credo far di là mai dipartenza.

Questo egli è, ch'i' sono oggimai sazio ch

Del tanto dimorare qui in Romagna,

Che a considerarlo è uno strazio!

Vorrei partir ormai d'esta campagna,

E ritornar nel dilettoso spazio

Della nobil città giojosa e magna.

ISTORIE PISTOLESI. È ignoto chi sia l'autore di questa antica cronaca, che narra i fatti avvenuti in Toscana, e più particolarmente in Pistoia, dal 1300 al 1318. Esse furono la prima volta pubblicate da V. BORGHINI, presso i Giunti, Firenze, 1578. Malamente si volle dubitare della loro autenticità, come di quella della Cronaca di Dino (vedi SCHEFFER-BOICHORST, Florentin. Studien, Leipzig, 1874), chè il manoscritto di cui il Borghini si servi è genuino e datato del 1396. Il professor L. ZDEKAUER ha recentemente dimostrato come l'edizione giuntina non sia in tutto conforme al codice (Palat. 683) onde fu tratta, e come vi è un altro manoscritto, di lettera più recente, ma che risale a un archetipo migliore del borghiniano (vedi Arch. st. ital., serie V, X, 332).

1 Borsa da paltoniere o mendicante.

Moti dei pistojesi contro i loro dominatori. Nel 1309, li fiorentini e li lucchesi signoreggiavano Pistoia, e lo podestà e li capitani, che veniano a Pistoia, intendeano più a rubare e a guadagnare, ch' al bene comune della città; e li pistolesi erano si mal contenti, che non era nessuno, che non si fosse gittato volentieri in disperazione, per essere uscito dalla loro signoria; e così signoreggiarono più anni. E per la signoria che faceano così rigida, li pistolesi sdegnarono molto forte contro a lucchesi, perchè erano trattati peggio da loro, che da' fiorentini. E tanto crebbe lo sdegno, che avendo mandato li lucchesi a Pistoia ser Tomuccio Sandoni per lo capitano, li pistolesi non lo vollono ricevere, perocchè egli era di vile condizione e disagiato, che avrebbe più guadagnato e inteso a guadagnare, che al bene comune della città e de' cittadini di Pistoia. E come a Dio piacque, si levò uno grande romore nella città, che parve una voce divina, che venisse dal cielo, che ogni persona gridava: afforzisi la città. E senza prendere alcuna diliberazione, uomini e femmine, piccoli e grandi cominciarono a prendere tavole, legname e ferramento, e portaronle intorno alla città e cominciarono a fare spicciati sopra le mura abbattute. E questo si cominciò quasi sull'ora di terza, e sull'ora della compieta fu la città tutta steccata, e poscia cominciarono a cavare li fossi dal lato di Lucca. Ser Tomuccio, ch' era venuto capitano di Pistoia, vedendo afforzare la città, si parti di Pistoia e andonne a Lucca. Quando li lucchesi intesono quello che li pistolesi faceano, cavalcarono subito, il popolo e li cavalieri, in Valdinievole. Sentendo li pistolesi, che li lucchesi cavalcavano, mandarono in contado per tutt' i loro amici, e mandarono fuori della città tutti li fanciulli e le fanciulle piccole e tutti i loro arnesi, e sgomberarono tutta la città, se non fue le masserizie grosse e la biada e'l vino, e diliberarono, che se li lucchesi venissono alla città, di mettersi a disperazione, e di volere morire tutti con loro in caritade; 3 perocchè diceano: Meglio è a morire una volta, che mille. Li lucchesi, popolo e cavalieri, vennono tutti in fine all' Ombrone a Pontelungo, presso a Pistoia a mezzo miglio: li pistolesi sentendoli quivi, trassero tutti con le loro armi a porta Lucchese, baciando l'uno in bocca l'altro, come quelli ch' andavano per morte dare e morte ricevere; ma come piacque a Dio, perchè non volle che fosse tanto male, li lucchesi non cavalcarono più innanzi che Pontelungo; chè se fossono più appressati alla città, il male sarebbe stato molto grande, perocchè li pistolesi erano in tutto disposti a combattere con loro, e li lucchesi erano tanti, che pochi sarebbono rimasi de' pistolesi, che non fossono stati morti.

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Essendo li lucchesi a Pontelungo, certi fiorentini, ch'erano a Pistoia, cavalcarono a Pontelungo, e parlarono molto con li lucchesi, e tanto fecero, che si partirono da Pontelungo, e andaronne a Seravalle e in Valdinievole, e quindi non si partivano. E li pistolesi afforzavano la città, e mandarono à Siena loro ambasciadori, pregandoli che mandassono loro ambasciadori a Lucca, e che li dovessono acconciare con loro. Lo Comune di Siena incontenente elesse M. Benuccio Salimbeni, e diedergli grande e nobile compagnia di cittadini di Siena, e mandaronli a Lucca; e là spuosono la loro ambasciata, sopra la quale li lucchesi ebbono loro consiglio, e diliberarono per amor del Comune di Siena, di parte di compiacere alli ambasciadori, e rimisono in loro lo concio 2 fare tra loro e li pistolesi. Come li ambasciadori ebbono la commessione dal Comune di Lucca, subito cavalcarono a Pistoia, e dissono, come lo Comune di Lucca avea rimesso in loro liberamente di fare intorno al concio quello ch'a loro piacea. A Pistoia avea certi grandi uomini, che non voleano che ciò fosse. Certi altri grandi voleano lo concio, e la maggior parte della comune gente di Pistoia; perocchè conosceano veramente, che se lo Comune di Lucca volesse essere recato al forte, ch'erano di tanto podere che li pistolesi rimarrebbono distrutti e disfatti; e di questo si fecero più consigli, ne' quali per quelli a cui non piacea si dicea non volere. Al fine si diliberò al tutto, che lo concio fosse, e che e' si rimettesse negli ambasciadori, e nel consiglio fue grande romore; e se non fossono stati li ambasciadori, vi sarebbe stato grande male tra quelli che non voleano e quelli che voleano, e per la detta cagione si divisono insieme li pistolesi, Guelfi e Neri. - (Dalle Istorie Pistolesi, secondo l'edizione procuratane da V. BORGHINI, Firenze, Giunti, 1578.)

MATTEO FRESCOBALDI. Di illustre famiglia fiorentina, figlio di quel Dino, che fu amico di Dante, e del quale abbiam riportato qualche componimento. Il VELLUTI nella sua Cronica domestica cosi ne parla: « Fu di comunale statura, grande giocatore, spesse volte vestito con bellissime vesti (e tal otta tagliate e non cucite si vendevano o impegnavano); aleuna volta vilmente vestito. Mort nella mortalità del 1348 d'età di quaranta anni e più; non ebbe mai moglie (Firenze, Manni, 1731, p. 39). » Poeta leggiadro, continuò, ripulendola e perfezionandola, la maniera de' rimatori fiorentini che l'avevano preceduto. Le sue Rime novamente raccolte e riscontrate sui codici pubblicò G. CARDUCCI in Pistoia, Società tipogr., 1866.

1 Di compiacere in parte.

2 Di fare l'accordo, o come ora direbbesi l'accomodamento.

3 Fosse spinto ad usar tutta la sua forza.

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