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di più danari, o di suo aiuto di danari (che spero di no), mi riterrò, e dirò: Al tal tempo me ne diè cotanti; io non ne debbo voler più. - SER LAPO Vostro VIII d'aprile (1396).

Della morte di due figliuoli, Lettera a Francesco Datini. Due vostre con quella di messer Torello, insieme ricevetti ieri. Alle quali, perchè già messer Torello era stato servito e fatto avea l'obrigo, cade poca risposta. Avete fatto bene, e vostro onore. Di Manno non so che mi vi dica più che voi stesso vi veggiate: avendo auto prima el passamento di Niccolò vostro, non so chi vi si consoli meglio, che farà il tempo: cioè, che quanto più di andrete oltre con questi dolori, più vi consolarete voi stesso: e il mondo dà così. Ma non è che chi riguardasse alla mondana vostra perdita di due si fatti parenti e amici, non venisse meno. Son certo ch'arete l'occhio spesso al cielo, ove abbiamo andare, e vivere eternalmente; e di questi cadimenti non curarete, pur che il morto abbia amato Iddio e voluto meglio a lui ch'al mondo e ch'alle sue cose, e ubbiditolo. Queste cose non si veggiono bene se none al capezzale; chè mentre siamo in questa carne, o prigione, siamo dalle false cose gabbati. Io l'ho provato, ora è il terzo dì, c'ho veduti morire due miei figliuoli, il maggiore e 'l mezzano, nelle mie braccia, in poche ore. Dio sa quanta speranza m'era il primo, che già l'avea fatto a me come compagno, e padre meco degli altri; e che salto 2 egli avea già fatto al banco d'Ardingo, ove posto l'avea in grazia di molti che gli aveano l'occhio addosso: e sa Iddio come molti anni non fallò mai, la sera e la domane, sue usate orazioni ginocchioni alla sua camera; che molte e molte volte gli avea compassione pe'caldi e pe' freddi! E sa Iddio, e chi l vide, quello che fece a morte; e che parole d'ammonimenti diede, e come ci mostrò che fu chiamato al giudicio, e come si dispuose a ubbidire chil richiedeva! Or io vi riserbo a bocca, chè non ristarei, se la pietà di Dio vorrà mai ci riveggiamo insieme. E in medesimo tempo era in uno letto malata a morte l'Antonia; e quello mezzano che con lui se n'è ito. Pensate come il mio cuor si fendea, vedendo piagnere i picchini, e la madre non sana nè forte: e udendo le parole che 1 maggior diceva. E a pensar, tre morti! Ma come gli vidi in parte da non campare, pigliai partito e ringraziai Dio, per grazia di Dio; e sono molto consolato che siano si puri partiti: però che, s'io gli amava, non debbo guardare al mio acconcio quanto alle pace loro, in che son certo che e'sono. Francesco, pigliate cuore, e fidatevi in

1 La morte.

3

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2 Quali progressi, avanzamenti.

3 Mi riserbo di parlarvene a voce, chè ora non la finirei più ec. 5 Partiti da questo mondo.

In condizione.

6 Non debbo tanto pensare al mio comodo o utile, quanto ec.

Dio, e non temete, chè se arete in lui speranza, e' v'aitarà. Confortate la donna, e ella voi; e questa ricchezza che passa, abbandonate un poco con l'animo, e appiccatevi a Dio, e appoggiatevi alla sua colonna, e non vi trovarete mai confuso. Parola è del magnifico santo Grigorio: Chi vuole che gli venga fatto ciò che e' vuole fuor da sè, acconci prima bene dentro sè.

La cosa1 non ci resta. Scema ne'minori, e cresce ne'grossi; molti luoghi ci ha sanza podestà. A Prato è morto; 2 e molti qui, che conoscete, sono morti a questi dì. Per Dio, non scrivete a Prato che ora siano gravati vostri debitori; chè mi dispiacque, pochi di fa ch'io lo 'ntesi, per vostro onore. Tempo è da castigare, tempo da perdonare. A monna Margherita mi raccomandate. Raccomandovi la mia famiglia, se io m'avesse a partire di questa vita da beffe: chè bene è vita da beffe, chè poca differenza ci ha dal vivere al morire. Cristo v'aiuti, e intenda al nostro bene. - LAPO vostro. XXXI di luglio (1400).

La peste del 1400, Lettera a Niccolò da Uzzano.-Penso, Niccolò, che letta questa, la manderete al vostro fratello e amico, a cui la soprascrivo come a voi. So ch'è villania; 3 ma perchè siete amici e come fratelli, non curo così; perchè sapete più tosto piuvichiamo carte o altre scritture, che non facciamo lettere. L'ultima ebbi da voi, Niccolò, con quello del buono Antonio di Paolo Mei, ricevetti; e Dio ringraziai e ringrazio che v'aiutò esser a parte, e nell' animo vi mise tanto bene. L'ultima da Francesco ricevetti col servigio fece a messer Torello, e a quello rispuosi: si che poco a lui o a voi resta a dire.

Da poi sono stato occupato in tre de'miei maggiori, malati a morte a un tratto, due hanno preso ottimo luogo, per lo santo chiamo Iddio fe' di loro, de'quali certo tenete sono più contento che se altro ne fosse avvenuto; uscito or che son fuori del pelago e dolori di quelle infermità, e sono alla riva della verita, lodato Dio. É a voi e me conceda si fare questo trapassamento, che a qualche tempo siamo salvi, o di colpo o di rimbalzo, come fia di suo piacere. Qua è scemata pur la moria: e d'avventura dentro alla terra tornata a metade; ma lasciando i poveri e i miseri, tocca più ne' grossi: e di questa metade, la metà è Oltrarno: la gente v'è grande, e par vi cominciasse più tardi; almeno là da Samfriano, dove la città è bene popolata. De' nomi de' morti e cavalieri e scudieri e de' due savi de' Biliotti e di molti altri, siate contenti io non ve ne dica; chè d'altrui l'arete. E io non vi so entrare entro, chè

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1 La peste, non nominata espressamente, come si fa delle orribili cose.
2 Il podestà.
3 Atto di troppa confidenza.
Rendiamo pubbliche, facciamo leggere altrui.
3 Innoltrarmi troppo in questo discorso.

troppo arei a dire. Qui non s'apre a pena a pena bottega: i rettori non stanno a banco: il palagio maggiore sanza puntelli; nullo si vede in sala; morti non ci si piangono, contenti quasi solo alla croce. E catuno si dispone di sè, meglio non arei mai creduto. A Dio v'accomando. MAZZEI Vostro servidore. vI d'agosto (1400). GUASTI, Lettere, n. 412, 194, 195.)

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LAPO - (Dall' ediz.

GIOVANNI FIORENTINO. Molti dubbj rimangono ancora sulla persona e sull'opera dell'autore del Pecorone. Poco si può credere a quel sonetto burlesco che si suole stampare innanzi al proemio del Cinquantanovelle, il qual sonetto dev'essere d'un copista o di un lettore del libro, cui era rimasto oscuro il titolo bizzarro di Pecorone. Fiorentino certamente dicono l'autore la lingua, e anche certi particolari delle novelle. Forse fu un Ser Giovanni del Pecorone (F. NOVATI, Ser Giov. del Pecorone, nel Giorn. stor. d. lett. ital., vol. XIX, p. 348 e segg.) che pare studiasse a Bologna, fosse di parte guelfa e perciò esiliato a Dovadola, ivi, come egli dice, sfolgorato e cacciato dalla fortuna. » Non potendosi dunque dar fede alle stramberie del citato sonetto, si può spiegare il titolo di Pecorone dato al libro, dal nome dell'autore che forse non gli aveva dato nessun titolo speciale. Dal proemio si sa che l'autore cominciò a scrivere le Novelle nel 1378 a Dovadola, e si hanno indizj che vivesse ancora nel 1406; ma non è certo che tutte le novelle (da'varj manoscritti se ne hauno 53) fossero scritte dal medesimo autore nè nell' ordine in cui oggi si trovano; ma lo stesso autore fece certo il proemio, le prime novelle e disegnò lo schema del libro che poi fu forse accresciuto con narrazioni o d'altri o inedite del primo scrittore. Sono cinquanta novelle che si raccontano in parlatorio un cappellano Aurecto (Auctore?) e una monaca Saturnina, innamorati, in venticinque giornate, due al giorno: alla fine della giornata uno di loro dice una ballata (DELLA GIOVANNA, Sulle ballate del Pecorone in Bibl. delle Scuole ital, vol. III, 1891, p. 225-29). In questo disegno del libro v'è forse qualche travestimento di casi reali accaduti all'autore. Le fonti sono diverse: la Cronica del Villani fornisce materia alla maggior parte delle novelle; due derivano da Apuleio, due dal Decameron, altre da fonti svariate (vedi E. GORRA, Il Pecorone, nel vol. Studj di critica letteraria, Bologna, Zanichelli, 1892, p. 161 e segg.). La prima ediz. è di Milano, Antoni, 1558.

La forma di queste novelle è piana, ma senza brio: l'autore vi si dimostra, ciò che è notevole in que' tempi, nemico de' pre

1 A render ragione.

All' accompagnamento funebre, senza corteggio.
Ognun pensa ai fatti suoi.

giudizj del volgo e non troppo curioso del soprannaturale: nuoce anche a lui il confronto inevitabile col Decameron, cui non valse a raggiungere mai nessun imitatore).

[Le notizie biografiche vedile esposte e discusse nello studio citato del GORRA.]

Messer Alano e messer Gio. Piero. - Già non è molto tempo che furono in Parigi due grandissimi e valent' uomini, e nell'una e l'altra ragione dottori, l'uno de' quali aveva nome messere Alano, e l'altro messer Gio. Piero; e in verità la cristianità non aveva allora i più valent' uomini di costoro. Questi due sempre s'astiavano insieme; ma pure messere Alano vinceva, perch'era il maggior rettorico del mondo, e aveva più sentimento che messer Gio. Piero, il quale quasi era eretico, e più volte avrebbe messo confusione nella fede nostra, se non fosse stato messere Alano, il quale la sosteneva, e riparava a tutte le sue quistioni. Avvenne che questo messere Alano volle venire a Roma per visitare quelle sante reliquie, e per vedere il Papa e la sua corte. Però mossesi da casa con molti famigli e bene in arnesi; e andonne a Roma e visitò il Papa e vide la corte sua e come ella si reggeva: e forte si maravigliò, considerando che la corte di Roma dee essere fondamento della fede e mantenimento della cristianità, e egli la trovò tanto vituperosa e tanto piena di simonia. Per la qual cosa e' si partì di Roma, e deliberò d'abbandonare questo mondo, e di darsi al servizio di Dio. Essendo dunque partito di Roma e venendosene co' famigli suoi, quando fu presso a San Chirico di Rosena, disse loro: Avviatevi innanzi e pigliate l'albergo, e me lasciate a mio agio. I famigli s'avviarono innanzi, e andaronsene a San Chirico; e come messere Alano li vide partire, 'usci fuor di strada, e tenne verso la montagna, e tanto cavalcò che s' abbattè la sera a un pecoraio. Messere Alano smontò, e stette quella sera con lui, e poi la mattina gli disse: Io ti vo' lasciare questi miei panni e questo cavallo, e tu mi da'i tuoi. Il pecoraio credette ch'egli facesse beffe di lui, e disse: Messere, io v'ho fatto onore di quel ch'io ho potuto: piacciavi di non vi far beffe di me. Messere Alano si spoglio i panni di dosso, e poi fece spogliare questo pecoraio, e lasciògli il cavallo e ogni sua roba, e tolse i panni e le scarpette el bottaccio' del pecoraio e misesi in camino alla ventura. I famigli suoi veggendo che non tornava, cercarono per lui, e non lo trovando, s'imaginarono poi, perchè il camino non era sicuro, che e' fosse stato rubato e morto; e cosi stettero alcun dì, e poi si partirone, e tornaronsi a Parigi.

Ora messere Alano, essendosi partito dal pecoraio, giunse

1 La fiasca che portasi a tracolla.

la sera a una badía ch'era in Maremma; e chiedendo del pane per amore di Dio, l'abate lo domandò se e' voleva stare con altrui. Rispose messere Alano, che si. Disse l'abate: Che sai tu fare? Rispose messere Alano: Signor mio, io saprò fare ciò che voi m'insegnerete. All' abate parve che costui fosse una buona persona, e tolselo e cominciollo a mandare per le legne. Costui cominciò a far sì bene, che quanti ne stavan nel monistero gli volevano bene, perch'e' faceva volentieri ciò che gli era comandato, e non si vergognava, e non s'infigneva di durare fatica, e di por mano a ciò che v'era a fare. L'abate veggendo l'umiltà sua, lo fece coviere' del munistero, non sapendo chi e' si fosse, e posegli nome don Benedetto. E la vita sua era questa, di digiunare continuamente quattro di della settimana, e mai non si spogliava, e sempre stava gran parte della notte in orazione, nè mai di cosa che gli fosse detta o fatta si crucciava, ma lodava ognor Cristo. E a questo modo aveva deliberato di servire a Dio; tal che l'abate gli voleva tutto 'l suo bene, e tenevalo molto caro.

Ora avvenne ch'essendo i suci famigli tornati a Parigi, dicendo che messere Alano era morto, fessene in Parigi grandissimo lamento per tutti i valent'uomini, considerato che avevano perduto il più valente dottore che avesse il mondo. Ove questo messer Gio. Piero sentendo che messer Alano era morto, funne molto allegro e disse: Oggimai potrò io fare quel ch'io ho più volte disiato. E si mise in ordine e andonne a Roma, e quivi propose in concistoro una questione ch'era molto contra la fede nostra, e voleva e cercava di mettere eresia nella Chiesa di Dio con le sue sottigliezze. Di che il Papa ebbe il collegio de'Cardinali, ove deliberarono di mandare per tutti i valent' uomini d'Italia, i quali venissero a un concistoro, che il Papa voleva fare per rispondere alla questione che messer Gio. Piero aveva proposto contra la fede; dove tutti i vescovi e gli abati, e gli altri gran prelati che fossero decretalisti, furono citati che venissero in corte. Ove fra gli altri fu citato questo abate, con cui stava messer Alano. E mettendosi in punto per andare a Roma, e messer Alano udendo dire per che egli andava, chiese di grazia all' abate d'andare con lui. L'abate gli disse: Che vuoi tu venire a fare, che non sai pur leggere? e là saranno i più valent' uomini del mondo, e non vi si favellerà se non per lettera, si che tu non intenderesti cosa che vi si dicesse. Rispose messere Alano: Messere, io vedrò almeno il Papa, ch'io non lo vidi mai, e non so come si sia fatto. Ove veggendo l'abate la volontà sua, disse: Io son contento che tu venga; ma saprai tu governare il cavallo? Rispose messer Alano: Messer sì. E quando fu tempo, l'abate si mosse e menò seco messer Alano: e

1 Soprintendente ai predj rustici.

2

2 In latino.

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