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e fiorì come capo dei Guelfi o di quanti volevano libertà e indipendenza dall'impero; imitando Bologna, abolì la schiavitù dei servi nell'anno 1287: vinse gli Aretini nella battaglia di Campaldino (11 giugno 1289); abbattè i Pisani; fu temuta e pregiata non solo in Toscana, ma in tutta Italia. Nondimeno nel 1293 si trovò necessario di aggiungere alla Signoria un Gonfaloniere di giustizia a difesa dei popolani: poi, persistendo i nobili a voler soperchiare, e trovando facilmente chi li favorisse, uno dei signori, per nome Giano della Bella, propose e vinse alcune leggi dette Ordinamenti di giustizia per reprimere i grandi, e li escluse da ogni pubblico ufficio. I quali, non osando combatterlo direttamente, lo calunniarono di aspirare a farsi tiranno; sicchè abbandonato da una parte del popolo, per non diventar cagione di guerra intestina, lasciò la patria (5 marzo 1294) e mori nell' esilio. Non cessarono per questo le discordie civili: tuttavia le ricchezze, acquistate nei commerci e nelle industrie, e le armi mantennero fiorente e temuta la repubblica fino all' anno 1300. Allora vennero da Pistoia i capi di due fazioni dette dei Bianchi e dei Neri, e divisero i Fiorentini (già divisi dalle dissensioni fra le due potenti famiglie Cerchi e Dona) sotto quei due nomi, benchè tutti fossero Guelfi. Coloro che aderironsi ai Neri furono a Roma e accusarono i Bianchi dicendo che si facevano Ghibellini.

Sedeva allora pontefice Bonifazio VIII (Benedetto Caetani di Anagni) creato nel 1294 dopo il gran rifiuto di Celestino V; il quale Bonifazio (così Dino Compagni) fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo e abbassava chi non gli consentia. Benchè non avesse vero e proprio poter temporale, e nella stessa città di Roma fosse combattuto costantemente dalla famiglia Colonna, fece sentire i perniciosi effetti del suo ingegno e della sua indole ambiziosa e superba, non pure in Roma ed in Italia, ma in gran parte d'Europa. Ricusò lungamente di approvare l'elezione d'Alberto d' Absburgo a re dei Romani; fu avverso a Filippo IV il Bello re di Francia; mosse guerra agli Aragonesi di Sicilia per restituire quell'isola a Carlo II d'Angiò, dal quale principalmente riconosceva il pontificato; scomunicò principi e popoli; e volgeva nell'animo di sterminare d'Italia tutta la fazione de' Ghibellini, per recare la Santa Sede a quella grandezza a cui Gregorio VII e Innocenzo III avevan tentato già di sollevarla. Per compiere codesti disegni aveva chiamato appunto in Italia Carlo di Valois, fratello di Filippo IV il Bello re di Francia, quando la nuova ‣ discordia poc' anzi accennata, indusse i Fiorentini a rivolgersi a lui: ed egli mandò a Firenze (1301) quello straniero, in voce come paciere e coll'incarico di ridurre le fazioni a concordia, ma nel vero poi per opprimere i Bianchi, che furono crudelmente perseguitati e cacciati in bando (1302), fra i quali Dante e ser Petracco padre del Petrarca. Del resto la venuta del Valois non sorti quell'effetto che Bonifazio se n'era promesso: perciocchè sebbene i

Ghibellini di Toscana fossero molto abbassati, non per questo i Guelfi rimasero senza contrasti e senza sospetti: oltracciò non fu possibile ritogliere la Sicilia agli Aragonesi, nè la potenza del papa si allargò.

Sono questi i principali avvenimenti del secolo XIII; secolo di fazioni e di guerre, pieno di grandi calamità, ma ben anche di grandi fatti e di sentimento nazionale.

Le fazioni si esercitavano quasi sempre sotto i nomi di Ghibellini e di Guelfi, i quali in origine furono nomi di due potenti famiglie della Germania (quella di Franconia e quella di Sassonia), nemiche tra loro. Quando la famiglia dei Ghibellini salì al trono imperiale (nel 1152) col celebre Federigo I Barbarossa di Hohenstaufen o di Svevia, cominciaronsi a confondere i nemici dei Ghibellini coi nemici dell'imperio; e il nome della famiglia avversaria alla Ghibellingia divenne generale a tutti coloro ch'erano avversi all'imperio; questa distinzione passò più specialmente in Italia, e parve una tremenda vendetta lasciata da Federigo tra i popoli che lo avevano vinto a Legnano nel 1176. Sebbene poi in Italia, dopo Gregorio VII, i pontefici fossero quasi sempre capi o fautori della fazione contraria all'imperio, non è da credere per altro che i Guelfi italiani fossero sempre partigiani della Chiesa. Le città lombarde, a cagione di esempio, erano guelfe in quanto che ricusavano di sottomettersi alla potenza imperiale: si univan coi papi a combattere contro gl'imperatori, perchè l'alleanza dei papi dava loro un gran vantaggio nell' opinione dei popoli; nè perciò combattevan pei papi, ma si per la propria libertà e indipendenza. Nè i papi unendosi colle città libere intendevano di combattere in favore della libertà, ma bensì per quella dominazione alla quale più o meno apertamente aspiravano tutti. Col volgere poi del tempo, cessati in gran parte i contrasti fra il sacerdozio e l'imperio, i nomi di Guelfi e di Ghibellini significarono in generale due contrarie fazioni; e ridestaronsi ogni volta che, in una città od in un comune, due potenti famiglie, per qual si fosse cagione, venissero a discordia fra loro. Di queste particolari fazioni sul finire del secolo decimoterzo, ma più assai nel seguente, fu piena tutta Italia.

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ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA.1

Che grado di antichità abbia la lingua italiana, donde sia uscita e come, sono domande vecchie di secoli, e a cui furono date risposte molto svariate. Svariate, perchè suggerite da una notizia dei fatti troppo manchevole, e però tale che la ragione, anche quando non fosse portata a volo dalla fantasia, era tratta a scambiare un barlume di vero, o al più uno degli aspetti suoi, per la verità tutta intera. La rassegna e l'esame di queste molteplici opinioni parevano fino a poco tempo fa il primo cómpito cui dovesse sodisfare chiunque prendesse a trattare il problema. Ora invece, accresciute e assodate le conoscenze, grazie soprattutto allo studio rigoroso delle vicende degli elementi di cui le parole sono costituite, e venuto a risultarne un accordo sostanziale tra tutti coloro che camminano per la via maestra e non s'ostinano a fuorviarsi per le boscaglie che la fiancheggiano, questa parte dai dominj della scienza è andata di per sè ad emigrare in quelli della sua storia.3

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La lingua italiana è ramo poderoso di un gran tronco, dal quale si spiccano al medesimo modo altre favelle: la francese,

Una trattazione dell'argomento assai più particolareggiata di questa si potrà trovare nella dissertazione di LUIGI MORANDI che porta il medesimo titolo (Città di Castello, Lapi, 5a ediz., 1891); ben degna di essere raccomandata anche da chi, come a me avviene, non consente in tutto coll'autore. Con intendimenti diversi dagli attuali parlai già ancor io del soggetto in una conferenza che fu pubblicata nel volume intitolato Gli albori della vita italiana, Milano, Treves, 1891 (pag. 341-384). Si estende per più vasti confini, come dice il titolo stesso, un lavoro di FORTUNATO DEMATTIO, Origine, formazione ed elementi della lingua italiana (2a ediz., Innsbruck, 1878).

2 Cotale studio, per ciò che concerne la nostra lingua e le sue affini, ha avuto per fondatore FEDERICO DIEZ (1794-1876), autore della classica Grammatik der romanischen Sprachen (1a ediz., 1836-1843, 3a ediz., 1870-72), resa accessibile a chi ignori il tedesco dalla traduzione francese di A. Brachet, A. Morel-Fatio, G. Paris (Parigi, 1873-76). Una parte dei tesori di dottrina contenuti in quest'opera si studiò lodevolmente di divulgare fra noi RAFFAELLO FORNACIARI colla Grammatica storica della lingua italiana (parte 1a, non seguita da una 2a, Torino, 1872); e riposa sullo stesso fondamento anche l'opera d' ugual titolo pubblicata dal DEMATTIO (Innsbruck, 1875 e segg.). Come sempre accade, il rigore del Diez per quanto mirabile, fatta ragione dei tempi si manifestò insufficiente col progredir degli studj. Al progresso ha contribuito quanto mai l'Archivio glottologico italiano (Torino, 1873 e segg.), diretto da quel sommo tra i linguisti che è GRAZIADIO ASCOLI. Lo stato attuale delle conoscenze rispetto all'italiano è rappresentato dalla parte che s'intitola Die italienische Sprache, di FRANCESCO D'OVIDIO e GUGLIELMO MEYER-LÜBKE, nel Grundriss der romanischen Philologie di G. Gröber (I, 489-560), e dalla Italienische Grammatik del MEYERLÜBKE medesimo (Lipsia, 1890). E il MEYER-LÜBKE s'è anche sobbarcato all' immane impresa di una nuova Grammatik der romanischen Sprachen. N'è uscito il primo volume (Lipsia, 1890, e contemporaneamente, in francese, Parigi); ed esso è tale, che, se dà appiglio a molte censure, ha indubbiamente valore assai grande.

3 Chi desidera notizie, non ha che ad aprire parecchie storie letterarie. E così potrà ricorrere all' Origine ec. del DEMATTIO, e, meglio, all'introduzione che sta in fronte al Saggio sulla storia della lingua e dei divletti d'Italia di NAPOLEONE CAIX (Parma, 1872).

la spagnuola, la portoghese, la rumena, la romancia; e ancora s'aggiungano la provenzale, venuta durante il medio evo in grande rigoglio e che da alcuni decenni rimette nuove foglie, e la catalana, strettamente legata con essa. Ma chi dica italiano, francese, spagnuolo e così via, mantenendo alle parole il loro valore consueto, è infinitamente lontano dall'aver designato con ciò le forme che il parlare assume in tutta l'Italia, tutta la Francia, tutta la Spagna. Questi che si sono enumerati sono linguaggi letterarj, accanto ai quali vive una moltitudine sterminata di dialetti.1 Rispetto ad essi le lingue si possono rassomigliare a individui saliti in onore e in autorità in mezzo alla folla dei concittadini, che loro si subordinano e da essi consentono a farsi rappresentare in tutte le funzioni più elevate della vita e segnatamente nei rapporti coi forestieri.

La stretta consanguineità per cui tutta questa moltitudine di lingue e parlate costituisce un' unica famiglia, trova la sua espressione nella comunanza del nome. Tutte si chiamano romanze o neolatine. E i due vocaboli così il primo, di uso popolare e antichissimo, come il secondo, introdotto invece solo di fresco e da uomini di scienza — racchiudono, quello involontariamente, questo di proposito, una professione di fede riguardo all' origine di cotali favelle. « Parlare romanzo » (è da frasi cosiffatte che l'uso prende le mosse) equivale a « loqui romanice 2 » ; parlare alla maniera dei Romani. Quanto a neolatino, ognuno vede come dica « latino nuovo», cioè latino in nuove sembianze; e certo la parola viene a scolpire con molta evidenza un concetto pienamente conforme alla verità.3

Chi diceva di parlare, o che altri parlasse « romanice », non intendeva a rigore con ciò « alla maniera dei Romani di Roma ›, bensi dei « Romani » intesi nell'ampio significato di vecchi abitatori dell'impero in contrapposto coi barbari. E propriamente fu a Romani provinciali che s'intendeva di riferirsi; dacchè l'uso invalse soprattutto nelle provincie, e specialmente nelle Gallie. Ma ciò non fa differenza. Il linguaggio di cui quei provinciali si servivano non era altra cosa che il linguaggio stesso di Roma, importato anche presso di loro dalla conquista.

Sicuro. La somiglianza di favella per cui Italia, Francia, Spagna, Rumenia, una porzione della Svizzera e la maggior parte del Belgio, e insieme, per via delle colonie, altri territorj vastissimi

1 Dei dialetti nostri ci ha dato una mirabile rassegna l'AscOLI colla sua Italia dialettale (Arch, glottolog. it., VIII, 98-128).

2 Romanice non si trova negli scrittori latini; ma l'aggettivo di cui esse non è, si può dire, che un caso, s' ha già nel De re rustica di Catone il Vecchio, 3 Sotto il rispetto della forma, neolatino può destare una certa avversione, dacchè il λativos greco non basta a salvarlo dalla taccia di ibridismo. Chi mai in ambiente latino » saprebbe concepire questa voce come qualcosa di straniero? Ma una volta che il neo- s'ha in molte parole divenute d'uso comune, sarebbe irragionevole contestargli il diritto di stringer connubj anche fuori della sua nazionalità, a quel modo che suffissi di derivazione germanica, ardo per esempio, si sono abbarbicati anche a temi schiettamente romani.

fuori d'Europa, si trovano ravvicinati in modo, che l'intendersi scambievolmente non costa troppa fatica, è una manifestazione, e ben si può dire una perpetuazione, e in parte un'amplificazione non piccola, dell'unità romana. Sottomettendo al suo dominio una! sterminata estensione di paese, Roma non faceva meno opera di unificazione linguistica che di unificazione politica. All'unità politica teneva dietro l'altra come spontanea conseguenza.1 Le due non ebbero tuttavia estensione uguale, in quanto, se al linguaggio dei conquistatori erano impotenti a resistere le parlate delle popolazioni incolte o poco colte, ciò non seguiva nient' affatto del greco. Poi, perchè la sostituzione avesse luogo e acquistasse stabilità, occorreva in ogni caso del tempo. Nessun dubbio pertanto che se l'edificio politico fosse rimasto in piedi più a lungo, si parlerebbe romanzo sopra una più vasta estensione di terre che ora non avvenga.

Ho cominciato dal guardare all'intero dominio e non alla sola regione italiana, perchè nella sostanza il fenomeno è il medesimo dovunque. Tutte le favelle neolatine non sono che la continuazione, lentamente e variamente modificata, del linguaggio che da Roma venne ad irradiarsi per via della conquista.

Cosa sia questo linguaggio, ci s'immagina per lo più di sapere meglio che in realtà non sappiamo. Dicendo « latino » abbiam dinanzi alla mente un concetto assai preciso e determinato; ma la determinatezza svanisce per poco che ci si faccia a riflettere. Noi intendiamo intanto riferirci al solo latino delle scritture; ed ecco che anche nel suo ambito subito dobbiamo riconoscere differenze non lievi. Lasciando stare le età più antiche, le quali ci toccano poco, il latino di Catone il Vecchio e di Ennio non è propriamente tutt'uno con quello di Cicerone e di Livio. Ma poi, accanto alla lingua scritta c'è la lingua parlata, nella quale sono da supporre sfumature analoghe a quelle che ci accade di avvertire dattorno a noi in ogni città. Se dal linguaggio scritto non si discosta molto il parlare delle classi elevate, dacchè ciascuno dei due si studia di camminare di conserva coll'altro, le divergenze s'accrescono mano mano che si scende al popolo e all'infimo volgo, là dove, essendo assai minori i ritegni, le mutazioni a cui nessuna favella può mai sottrarsi del tutto, avvengono più rapidamente. Abbiamo sotto questo rispetto qualcosa di analogo ad un fiume, le cui acque scorrono lente in prossimità delle sponde, gradatamente più veloci fino a che s'arriva al filone.3

La storia della propagazione del latino si può vedere esposta assai lueidamente nel bel libro di A. BUDINSZKY, Die Ausbreitung der lateinischen Sprachen über Italien und die Provinzen, Berlino, 1881.

Riguardo alla pronunzia del latino è importante assai, almeno per il materiale che vi è raccolto e ordinato, il libro di EMILIO SEELMANN, Die Aussprache des Latein nach physiologisch-historischen Grundsätzen, Heilbronn, 1885. 3 La questione, come si parlasse dal popolo di Roma, dette luogo nel secolo XV a vivacissime dispute, che ebbero nascimento nella dotta anticamera

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