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a c. 122 retro con quello d'Incerto. Su quale autorità la potremmo dunque tener di Dante, quando nissun Codice a Dante l'attribuisce, quando lo stile esclude la possibilità che a Dante appartenga, quando l'edizione principale a Dante la nega? Vero è che col nome del nostro Poeta vedesi stampata nella veneta edizione del 1518, sulla cui sola autorità la riprodussero nel secolo scorso il Pasquali, lo Zatta ed altri, ma quell' edizione per le tante sue inesattezze non merita alcuna o ben piccola fede. Quindi si ritenga che la Canzone è spuria. 1

La Canzone, da cui l' Abate Melchior Missirini trae il principale argomento per delineare il ritratto di Beatrice, e dedurne quindi l'identità con quello ch' ei possiede in una dipinta Tavola antica, è appunto questa che noi abbiamo provato essere apocrifa. Quindi (senza peral

tro escludere la possibilità che quella pittura rappresenti Beatrice) ognun vede che il fondamento, dal Missirini tratto da questa Canzone, posa in sul falso. (Vedi il Commentario sull' amore di Dante, e sul ritratto di Beatrice, Firenze 1832.)

CANZONE.

Perchè nel tempo rio

Dimoro tuttavia aspettando peggio,
Non so com' io mi deggio

Mai consolar, se non m'aiuta Iddio,
Per la morte, ch' io cheggio

A lui, che vegna nel soccorso mio:

Ché miseri, com' io,

Sempre disdegna, come or provo e veggio.

Non mi vo' lamentar di chi ciò face,

Perch'io aspetto pace

Da lei sul punto dello mio finire;

Ch' io le credo servire

Lasso cosi morendo,

Poi le disservo e dispiaccio vivendo.

Deh che m'avesse Amore,

Prima che 'l vidi, immantenente morto;

Ché per biasmo del torto

Avrebbe a lei ed a me fatto onore :

Tanta vergogna porto

Della mia vita, che testè non more,
Che peggio è del dolore,

Nel qual d'amar la gente disconforto;
Chè una cosa è l'Amore e la Ventura,
Che soverchian natura,

L'un per usanza, e l'altra per sua forza :
E me ciascuno sforza,

Sicch' io vo', per men male,

Morir contro la voglia naturale.
Questa mia voglia fera

È tanto forte, che spesse fïate
Per l'altrui podestate

Daria al mio cor la morte più leggera :
Ma, lasso! per pietate

Dell'anima mia trista, che non pera,

E torni a Dio qual' era,

Ella non muor, ma viene in gravitate :
Ancorch' io non mi creda già potere
Finalmente tenere,

Ch' a ciò per soverchianza non mi mova
Misericordia nova :

Ma avrà forse mercede

Allor di me il Signor che questo vede.
Canzon mia, tu starai dunque qui meco,

Acciocchè io pianga teco:

Ch'io non so dove tu ti possa andare
Ché, appo lo mio penare,

Ciaschedun altro ha gioia:

Non vo' che vada altrui facendo noia.

Questa Canzone fu malamente attribuita a Dante Alighieri dalla veneta edizione del 1518. I Giunti peraltro non fecero ad essa luogo nella loro raccolta del 1527, se non che stampandola in fine del volume a c. 127 sotto il nome d'incerto autore. Di oltre venti Codici da me esaminati, nissuno porta questa Canzone col nome di Dante, mentre in alcuni, siccome nel Laurenziano 37, Plut. XC, sta col nome

di Cino. Fra le poesie infatti di questo giureconsulto poeta la stamparono il Pilli ed il Ciampi sull'autorità di più Codici. Il Cod. Bossi, il Cod. Bembo, il Cod. Medici, ora nella Trivulziana (dei quali dà ragguaglio il Ciampi nella sua edizione del 1813) l' attribuiscono anch'essi al poeta medesimo. Il Corbinelli nella Bella Mano, il Trissino nella Poetica, il Quadrio nella Storia della volgar Poesia, la citano pur essi non come di Dante, ma come di Cino. Finalmente lo stile meno conciso e meno energico di quello delle Canzoni Dantesche, ne fa piena prova, che non a Dante, ma veramente al suo amico Cino da Pistoia appartenga.

CANZONE.

Giovene donna dentro al cor mi siede,
E mostra in sé beltà tanto perfetta,
Che, s'io non ho aita,

l' non saprò dischiarar ciò che vede
Gli spirti innamorati, cui diletta
Questa lor nova vita :

Perchè ogni lor virtù ver lei è ita ;
Di che mi trovo già di lena asciso
Per l'accidente piano e in parte fero.
Dunque soccorso chero

Da quel Signor ch'apparve nel chiar viso,
Quando mi prese per mirar si fiso.
Dimorasi nel centro la gentile,

Leggiadra, adorna, e quasi vergognosa ;
E però via più splende

Appresso de' suoi piedi l'alma umile;
Sol la contempla si forte amorosa,
Ched a null' altro attende;

E posciache nel gran piacer s'accende,

Gli begli occhi si levano soave
Per confortare la sua cara ancilla ;
Onde qui ne scintilla

L'aspra saetta che percosso m' have, Tosto che sopra me strinse la chiave. Allora cresce 'l sfrenato desiro,

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E tuttor sempre, nè si chiama stanco
Fin ch'a porto m' ha scorto,

Che 'l si converta in amaro sospiro;

E pria che spiri, io rimango bianco

A simile d' uom morto;

E s'egli avvien ch' io colga alcun conforto,
Immaginando l' angelica vista,

Ancor di certo ciò non m' assicura ;

Anzi sto in paura,

Perchè di rado nel vincer s' acquista,
Quando che della preda si contrista.
Luce ella nobil nell' ornato seggio,
E signoreggia con un atto degno,
Qual ad essa convene :

Poi sulla mente dritto li per meggio
Amor si gloria nel beato regno,
Ched ella onora e tene;

Sicchè li pensier c'hanno vaga spene,
Considerando si alta conserba,

Fra lor medesmi si coviglia e strigne :
E d'indi si dipigne

La fantasia, la qual mi spolpa e snerba,
Fingendo cosa onesta esser acerba.
Cosi m'incontra insieme bene e male;
Ché la ragion, che 'l netto vero vuole ;
Di tal fine è contenta :

Ed è conversa in senso naturale,
Perché ciascun affan, chi 'l prova, duole;
E sempre non allenta :

E di qualunque prima mi rammenta,
Mi frange lo giudizio mio molto;
Nè diverrà, mi credo, mai costante.
Ma pur, siccome amante,

Appellomi soggetto al dolce volto,
Nė mai lieto sarò, s'ei mi fia tolto.
Vattene, mia Canzon, ch' io te ne prego,
Fra le person che volentier t' intenda,
E si t'arresta di ragionar sego:
E di' lor, ch' io non vego,

Nė temo, che lo palegiar m'offenda :
lo porto nera vesta e sottil benda.

Vedemmo già bastantemente come Dante s' adoperasse a dar lustro all' italica lingua, atteggiandola ad ogni maniera di componimenti, forbendola ed arricchendola, e quanto studio ponesse intorno le sue Canzoni. Infatti le licenze di lingua da lui adoperate (se pur debbonsi chiamare licenze) non sono nè tante nè tali, quante alcuni critici, non sapendo considerar lo scrittore nel suo secolo, vorrebbon far credere, e quante se ne riscontrano e più frequenti e più sconcie in tutti i suoi contemporanei. Ora ponendo a ciò mente, sarà agevole il riconoscere che la Canzone presente non può esser opera di Dante Alighieri; imperocchè essa è sì languida e meschina, scritta in un modo sì contorto, piena di tante licenze e sconcezze di lingua, di grammatica e di sintassi, che, non che dell' altissimo Poeta, ma neppur d'un mediocre rimatore può reputarsi.

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« Una sola parola, dice il Quadrio, non istimo qui di tacere in» torno alla Canzone Giovene donna ec. da me citata nell' occasione de' due vocaboli chiar e affan; e questa è, che oltre alle addotte due storpiature, altre e tante io ne trovo in questo peraltro non lungo componimento, al maggior Dante attribuito, ch' io non so persuadermi, che quel grand' uomo, il quale ne' suoi Sonetti e nelle sue Canzoni è stato oltre misura più che nella Commedia amante della purità e della pulitezza, siasi poi all'improvviso lasciato in questa » occorrenza trascinare a tante sconcezze, come sono vede per vedono, vego per veggo, asciso per reciso figurat., privo, sego per seco, conserba per conserva, palegiar per palesar, si coviglia e stringe per si congiungono e stringono, le person per le persone, t' intenda per t' intendan ec. Per le quali cose e per altre molte, onde odora di Dante da Maiano, io di questo porto opinione che » sia; piuttostochè di quel maraviglioso Poeta, a cui potè facilmente » essere ascritta per la somiglianza del nome. »

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E di costui debb' essere appunto la Canzone presente, perchè se

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