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E quando alcun pietosamente il mira,
Il cuor di pianger tutto si distrugge,
E l'anima sen duol si che ne stride:
E se non fosse ch'egli allor si fugge,
Si alto chiama voi, poich' ei sospira,

Ch' altri direbbe or sappiam chi l'uccide.

Le medesime ragioni accennate qui sopra militano parimente per questo Sonetto, che vide la luce nell' edizione Giuntina, e che nelle stampe ad essa posteriori si vede or col nome di Dante, or con quello di Cino: anzi se nessun Codice a Dante l'ascrive, il Laurenziano 37 del Plut. XC, e i due Trivulziani nominati di sopra, nome di Cino lo portano.

col

SONETTO.

Lo vostro fermo dir, fino ed onrato

Approva ben ciò buon, ch' uom di voi parla,
Ed ancor più, ch'ogni uom fora gravato
Di vostra loda intera nominarla :

Che 'l vostro pregio in tal loco è poggiato,
Che propriamente uom nol poria contarla :
Però qual vera loda al vostro stato
Crede parlando dar, dico, disparla.
Dite che amare, e non esser amato,
Eve lo duol, che più d'amore duole;
E manti dicon, che più v' ha duol maggio.
Onde umil prego non vi sia disgrato,

Vostro saver che chiari ancor, se vuole,

S'è vero, o no; di ciò mi mostra, saggio.

Questo Sonetto fu col nome di Dante Alighieri impresso nell' edizione Giuntina a c. 138; e sebbene quivi si dica scritto in risposta a quello noto di Tommaso Buzzuola Qual che voi siate ec., pure per gli ultimi tre versi è evidente, esser esso un Sonetto di proposta e non già di risposta: per la qual cosa si scorge tosto l'equivoco dell'antico editore. Il Sonetto non è del Dante fiorentino, ma sì del

Dante maianese, col nome del quale si trova stampato nell' edizione del Pasquali ed in quella dello Zatta, non meno che nel vol. II, pag. 493 de'Poeti del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1816. E lo stile pure, e i vocaboli (fra i quali noterò manti, cioè molti, dal provenzale mant, vocabolo giammai usato dall'Alighieri, e frequentemente dal Maianese), ne inducono ad attribuirlo a questo secondo poeta piuttosto che al primo. Infatti il Crescimbeni, Storia della volgar poesia, vol. I, lib. III, dice che solo per isbaglio fu dal Giunti attribuito a Dante Alighieri, mentre appartiene veramente a Dante da Maiano.

SONETTO.

Lo fin piacer di quell' adorno viso
Compose il dardo che gli occhi lanciaro
Dentro dallo mio cor quando giraro
Ver me, che sua beltà guardava fiso.
Allor senti' lo spirito diviso

Da quelle membra, che se ne turbaro;
E quei sospiri, che di fuori andaro,
Dicean piangendo, che 'l core era anciso.
Lasso ! dipoi mi pianse ogni pensiero
Nella mente dogliosa, che mi mostra
Sempre davanti lo suo gran valore,
Ivi un di loro in questo modo al core
Dice pietà non è la virtù nostra

Che tu la truovi; e però mi dispero.

Col nome di Cino vedesi questo Sonetto nelle edizioni del Pilli, di Faustino Tasso e del Ciampi, in due Codici Trivulziani, e nel Laurenziano 37 del Plut. XC. E siccome pei concetti e per lo stile sente affatto della maniera di questo poeta, così non vedo ragione, per che possa attribuirsi all'Alighieri, col nome del quale fu primamente stampato nell' edizione Giuntina a c. 18.

SONETTO.

Madonne mie, vedeste voi l' altr' ieri
Quella gentil figura che m'ancide?
Quella, se solo un pochettin sorride,
Quale il Sol neve, strugge i miei pensieri :
Onde nel cor giungon colpi si fieri,
Che della vita par ch'io mi diffide :
Però, madonne, qualunque la vide,
O per via l'incontrate, o per sentieri,
Restatevi con lei, e per pietate

Umilemente fatenela accorta,

Che la mia vita per lei morte porta.
E s'ella pur per sua mercè conforta
L'anima mia piena di gravitate,

A dire a me : sta san, voi la mandate.

A Dante fu attribuito questo Sonetto dall' edizion Giuntina a c. 20; ma col nome di Cino si vede in tutte e tre le edizioni delle rime di questo poeta; e col nome di Cino si vede pure in due Codici del Marchese Trivulzio; sicchè pare ad esso doversi restituire, tanto più che lo stile sente affatto della maniera di lui, e non di quella di Dante.

SONETTO.

Bernardo, io veggio ch' una donna viene
Al grand' assedio della vita mia,

Irata si, ch'ancide e manda via

Tutto ciò ch'è 'n la vita, e la sostiene :
Onde riman lo cor, ch'è pien di pene,
Senza soccorso e senza compagnia,

E

per forza convien che morto sia, Per un gentil desio, ch' Amor vi tiene. Quest' assedio si grande ha posto morte,

Per conquider la vita, intorno al core,
Che cangiò stato quando 'l prese Amore,
Per quella donna, che si mira forte,

Come colei che sel pone in disnore,

Onde assalir lo vien si ch'ei ne muore.

Questo Sonetto vedesi dato a Dante in alcuna delle edizioni posteriori alla Giuntina, mentre in questa a c. 56 retro era stato pubblicato col nome di Cino. Quantunque nel Codice Bossi ed in quello che fu del Cardinal Bembo (Codici citati dal Ciampi) si veda attribuito a Dante Alighieri, e porti l'indirizzo a Bernardo da Bologna, pure appartiene a Cino da Pistoia, non solo perchè a Cino fu attribuito dall'edizione Giuntina, e da tutte e tre le edizioni delle rime di lui, ma perchè col nome di Cino trovasi in parecchi Codici.

SONETTO.

Messer Brunetto, questa pulzelletta

Con esso voi si vien la pasqua a fare;
Non intendete pasqua da mangiare,
Ch'ella non mangia, anzi vuol esser letta.

La sua sentenza non richiede fretta,
Né luogo di romor, nè da giullare,
Anzi si vuol più volte lusingare

Prima che in intelletto altrui si metta.
Se voi non la intendete in questa guisa,
In vostra gente ha molti frati Alberti,
Da intender ciò ch'è porto loro in mano.
Con lor vi restringete senza risa,

E se gli altri de' dubbi non son certi,

Ricorrete alla fine a Messer Giano.

Quantunque questo Sonetto fosse col nome di Dante Alighieri pubblicato dall'Allacci (Poeti antichi ec. Napoli 1661), pure, per essere attribuito ad esso, manca affatto di dati positivi od almeno probabili, sì perchè è un componimento assai leggiero e non degno di Dante, sì perchè non ha autorità di Codici. Sembra poi indiritto a

messer Brunetto Latini, cui il poeta accompagnava alcuna sua operetta o composizioncella, qui figurata nel vocabolo pulzelletta. Ma Brunetto fu il precettore di Dante, e`morì quando il discepolo era tuttavia nella sua giovinezza: or dunque è improbabile, che il giovinetto Dante potesse aver tanto ardimento da dire al vecchio maestro, che qualora non riescisse ad intendere la sentenza della composizioncella inviatagli, se la facesse dichiarare da altri.

SONETTO.

Se 'l viso mio alla terra si china,
E di vedervi non si rassicura,
Io vi dico, Madonna, che paura
Lo face, che di me si fa regina :
Perché la beltà vostra pellegrina
Qua giù fra noi soverchia mia natura,
Tanto che quando io per avventura
Vi miro, tutta mia virtù ruina.
Si che la morte, che porto vestita,

Combatte dentro a quel poco valore,
Che mi rimane con pioggia e con tuoni.
Allor comincia a pianger dentro al core
Lo spirito vezzoso della vita,

E dice: Amore, e perchè m'abbandoni?

Questo Sonetto sta nella raccolta dell' Allacci col nome di Dante Alighieri. Ma che ad esso non appartenga, è dimostrato non solo dallo stile e dall' andamento, che non sente punto del fare di Dante, ma pur anco dal vederlo escluso da tutte le edizioni si antiche che moderne del Canzoniere di lui, e dal vederlo già impresso fra le poesie di Cino, cui, e non a Dante, i Codici l'attribuiscono. '

La lezione data dall' Allacci è

la seguente:

S' el viso mio a la terra se china,
E di vedervi non se rasegura,
Eo ve dico, Madonna, che paura
Lo faze, che de mi se fa regina.
Perchè la beltà vostra pelegrina

1

Qua zu fra noi sover' la mia natura ec.; onde, o il Sonetto non è di Cino, perchè questo poeta scrisse in lingua toscana e non già in un dialetto, o la lezione datane dall' Allacci non è la vera.

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