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SONETTO.

Un di si venne a me Malinconia,
E disse voglio un poco stare teco;
E parve a me che si menasse seco
Dolore ed Ira per sua compagnia.
Ed io le dissi partiti, va via;

Ed ella mi rispose come un greco :
E ragionando a grand' agio meco,
Guardai e vidi Amore, che venia
Vestito di nuovo d' un drappo nero,
E nel suo capo portava un cappello,
E certo lacrimava pur davvero.
Ed io gli dissi: che hai, cattivello?

Ed ei rispose: io ho guai e pensero;

Ché nostra donna muor, dolce fratello.

Forte mi maraviglio, che pel corso di quasi due secoli gli editori delle Rime di Dante siano stati sì corrivi e sì malaccorti da riprodurre sulla fede dell' Allacci (Poeti antichi ec.) questo Sonetto, quando, non che l'altissimo Fiorentino, potrebbe appena reputarsene autore il rozzo Maianese. Poco al caso presente farebbero, ancorchè ve ne fossero, le autorità de' Codici, perciocchè chiunque s'avvenga a leggere quei versi

« Guardai e vidi Amore, che venia
Vestito di nuovo d'un drappo nero,

E nel suo capo portava un cappello,
E certo lacrimava pur davvero, »>

riconoscerà agevolmente che questa sciagurata e pessima poesia non può in niun modo esser uscita da quella penna che scrisse la Divina Commedia.

BALLATA.

Quando il consiglio degli augei si tenne,

Di nicistà convenne,

Che ciascun comparisse a tal novella ;
E la cornacchia maliziosa e fella
Pensó mutar gonnella,

E da molti altri augei accattò penne;
Ed adornossi, e nel consiglio venne :
Ma poco si sostenne,

Perché pareva sopra gli altri bella.
Alcun domandò l'altro: chi è quella?
Sicchè finalment' ella

Fu conosciuta ; or odi che n'avvenne :
Che tutti gli altri augei le fur d'intorno;
Sicché senza soggiorno

La pelar si, ch' ella rimase ignuda;
E l'un dicea or vedi bella druda;
Dicea l'altro: ella muda;

E così la lasciaro in grande scorno.
Similemente addivien tutto giorno
D'uom che si fa adorno

Di fama o di virtù, ch' altrui dischiuda;
Che spesse volte suda

Dell' altrui caldo, talchè poi agghiaccia :
Dunque beato chi per se procaccia.

Il Redi nelle annotazioni al Bacco in Toscana, Firenze 1691, pag. 100, rilevando come i nostri antichi Rimatori davano il nome di Sonetto, cioè piccolo suono, a qualunque breve componimento poetico, riporta varii esempi in appoggio della sua deduzione, e produce la Ballata presente, che fin allora era rimasa inedita, e che egli trasse da un suo testo a penna, ove col nome di Dante leggevasi. Ma come potrà credersi dell' Alighieri questa debole poesia, la quale, sia per la forma, sia per la sostanza, che non è che un'imitazione d'un apologo antico, giunge appena alla mediocrità? Come potrà credersi di quel poeta, che nel trattato del Volgare Eloquio diè i precetti per poetare nobilmente e regolarmente, un leggiero componimento, che va eziandio privo d' artifizio poetico, perciocchè in ogni dodici versi ha per sei volte ripetuta la rima medesima ? Dandoci il Redi siccome di Dante la presente Ballata (o com'ei la chiama Sonetto rinterzato) non si assicurò egli in prima, se cotesto Dante

fosse il sommo Alighieri, o non piuttosto il Dante da Maiano, il Dante da Volterra, il Dante da Verona ec.? E non riconobbe, in casi dubbii, l'insufficienza dell'autorità d'un singolo Codice, e non ricorse quindi ad altri testi a penna per verificare se la sua avventata credenza riscontrasse almeno un qualche grado di probabilità ? Ora, questo che il Redi omise di fare, ci autorizza ad eliminare dal Canzoniere del nostro Poeta, e riporre fra i componimenti d'autore incerto, la Ballata presente, dappoichè nè io l'ho potuta rinvenire ne' Codici fiorentini, nè il Witte altresì la rinvenne in alcuno di quelli ch' ei vide allorchè fu in Italia e ch'ei svolse e consultò con si lodevole diligenza. 1

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I'ho tutte le cose, ch'io non voglio,
E non ho punto di quel che mi piace,
Poich' io non trovo con Bechina pace,
Ond' io ne porto tutto il mio cordoglio,
Che non caprebbe scritto su 'n un foglio,
Che vi foss' entro la Bibbia, capace,
Ch'io ardo come fuoco in fornace,
Membrando quel che da lei aver soglio.
Ché le stelle del cielo non son tante,
(Ancora ch' io torrei esser digiuno)
Quanti baci le diè in un istante
In me la bocca, ed altri non nessuno :
E fu di giugno venti di, all' entrante
Anno mille dugento novant' uño.

Il presente Sonetto è quello, del quale, benchè allor fosse inedito, disse il Muratori (Perf. poesia, vol. I, pag. 11) che dimostrava

in qual tempo Dante lo avesse scritto, terminando con questi versi:

« E fu di giugno venti di, all'entrante

Anno mille dugento novant'uno. »

Ma che il Muratori (riferisco le stesse parole del Witte, da cui il Sonetto fu recentemente pubblicato) si fidasse a torto al Codice Ambrosiano, altre volte citato, il quale attribuisce un tal componimento al nostro Poeta, si deduce dalla semplice riflessione, che Dante avrebbe dovuto essere il più scellerato ipocrita della terra, se avesse potuto scrivere questo Sonetto lascivo in quel tempo in cui riempiva la Vita Nuova de' lamenti i più commoventi sulla morte di Beatrice, e precisamente non più di undici giorni dopo il bel Sonetto Venite a intender li sospiri miei di quel libro. Troppo ciecamente s'affidò dunque il Muratori alla semplice autorità d'un Codice.

In questo laido e sciagurato Sonetto, che il lettore riconoscerà a prima vista indegno di Dante, perchè dettato in uno stile contorto e snervato, il poeta si manifesta adoratore d'una femmina chiamata Bechina. Or dunque sappiamo dal Crescimbeni, che l'amante di Bechina non fu Dante, ma sivvero Cecco Angiolieri sanese, a cui per conseguenza appartener deve il Sonetto, siccome appartengono gli altri nei quali è nominata una tal donna, ed i quali si vedono stampati nella raccolta dell' Allacci sotto il nome dell' Angiolieri medesimo.

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Se 'l Dio d'Amor venisse tra la gente,
Ch'io mi potessi richiamar di vui,
A' piè mi gettere'gli immantinente,
Offeso me, non oso dir da cui:

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Ovver venisse altro Sire valente,
Ch' avesse la possanza, di noi dui
Giustizia fesse, come conoscente

Di quelli che lo cor furan d'altrui :
Furato m'ha lo core con lo sguardo
Quella che mostra' innanzi con parvenza,
E vuol ch'io faccia da lei partimento:
Non se n'adasti, ch' io d' un' altra imbardo,
E in pregio non ne sale sua valenza
S'io per suo fallo faccio fallimento.

Di questo Sonetto, che col nome del nostro Poeta trovasi nel Codice Ambrosiano sopra citato, fu, mentre giaceva tuttora inedito, dato notizia al pubblico dal Muratori, allor che egli nella Perfetta poesia, vol. I, pag. 217, così s'espresse : « In un altro Sonetto, » pure di Dante, non ancora stampato, e compreso nel mentovato » MS. Ambrosiano, si legge un' altra non men vaga immagine. Se Amore, egli dice, si lasciasse veder tra le genti, onde si potesse >> far querela davanti di lui, immantinente io me gli getterei a' piedi, chiamandomi offeso, ma poi non oserei dire da chi. Non po>> trei però far di meno di chiedergli ragione contro una donna che » mi ha furato il core. » Questo Sonetto unitamente ad altri, vide la luce per cura del Witte, dopo che da lui fu nell' Ambrosiana rinvenuto il Codice dal Muratori citato. Ma tale componimento che della sua originalità non ha che la semplice autorità del Codice Ambrosiano (dico questa sola, perchè nè dal Witte, nè da me stesso è stato altrove veduto) sarà egli poi di Dante Alighieri? « Probabilmente il >> lettore (dice pure lo stesso Witte) non troverà molto della vaghezza » che loda il Muratori, e forse non vorrà riconoscerlo come opera di Dante per cagione della sua rozzezza. » Quindi è che se fra i componimenti del nostro Poeta non possono nè debbono aver luogo quelli che non giungono alla mediocrità, e che rispetto alla loro originalità non hanno dati e argomenti, io stimo che pur questo Sonetto debba venir rifiutato.

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SONETTO.

O Madre di virtute, luce eterna,

Che partoriste quel frutto benegno,

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