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Un pietoso soccorso alla mia fede.
E sarà tolto ogni pena che porto,
Avendo buono e desiato effetto

La speranza ch' Amor da te mi chiedi.
Dunque, Madonna, prima ch' io sia morto,
Per Dio soccorri, ch' altro non aspetto

Per ritrovarmi a' tuoi gravosi piedi.

Nel Codice 168 della pubblica Biblioteca di Perugia il professor Giovan Battista Vermiglioli rinvenne col nome di Dante Alighieri questi due Sonetti, e nel 1824 li produsse alla luce, dedicandoli alla contessa Anna di Serego Alighieri, nata da Schio, di Vicenza. Ho detto più volte, che la semplice autorità de' Codici, e particolarmente poi d' uno solo, non può dar quasi nessun peso a stabilire l'originalità e legittimità d'un breve componimento poetico, siccom' è un Sonetto o una Canzone. E per poterlo con una qualche probabilità attribuire a Dante, è d'uopo non solo che senta del fare di lui, ma che racchiuda pure qualche pregio particolare. Ma i due Sonetti presenti, oltre il non avere autorità di Codici (perciocchè nè da me nè dal Witte sonosi mai potuti altrove rinvenire), sono così meschina cosa, ed il secondo è eziandio così contorto ed oscuro, che si debbon dire affatto indegni di Dante. Anche il can. Moreni (Vita Dantis a Jo. Mario Philepho, pag. 107, not. 1) dicendo che il Vermiglioli pubblicò questi due Sonetti, domanda: ma son eglino realmente di Dante? e nel Catalogo della Biblioteca Marucelliana, di fronte all'indicazione della Miscellanea, in cui si contengono, vidi notato che non sono di Dante.

1

« Nel 1824 il prof. Vermiglioli » pubblicò da un Codice della pub»blica Biblioteca di Perugia due

>> Sonetti, dei quali particolarmente >> il secondo è oscuro e poco degno >> di Dante. » (Witte, opusc. citalo.)

SONETTO.

Alessandro lasciò la signoria

Di tutto 'l mondo, Sanson la fortezza,
Ed Assalon lasciò la gran bellezza
A' vermin che la mangian tuttavia;

Aristotil lasciò filosofia,

E Carlo Magno la gran gentilezza,
Ottaviano lasciò la gran ricchezza,
E' re Artù la bella Baronia :
E tutte queste cose aspettan morte:
Però faccia ciascuno suo parecchio
A sostener la sua gravosa sorte.

Non indugi il ben far quand' egli è vecchio,
Faccilo in gioventute quando è forte,

E serva a quel ch'è d'ogni luce specchio.

Io non so come l'abate Luigi Rigoli, trovato nel Codice Riccardiano 931 il presente Sonetto, potesse così tenerlo per opera di Dante, da presentarcelo qual dissotterrato gioiello nel Saggio di rime antiche, Firenze 1825, quando pel poco o niuno suo pregio avrebbe dovuto lasciarlo là dove inosservato giaceva, od almeno dovuto avrebbe conoscere la necessità d'indagini ulteriori e più accurate, le quali, se da lui fatte si fossero, avrebbonlo per primo indotto a sospettare della originalità di tal Sonetto, perciocchè ei poteva rinvenirlo sotto nome d'incerto autore in qualche Codice Laurenziano, siccome nel 32 del Plut. XC; quindi avrebbongli fatto conoscere che esso Sonetto a tutt'altri che a Dante Alighieri apparteneva, perciocchè ei potea vederne dal Crescimbeni, il quale (vol. I, pag. 11) a rozzo poeta l'ascrive, citato il quinto verso; e finalmente avrebbonlo guidato a rimirare coi propri occhi tutto intero il Sonetto non inedito e di Dante, ma già stampato, e col nome di Butto Messo da Fiorenza, cui molto probabilmente appartiene, nella raccolta de' Poeti antichi dell' Allacci, Napoli 1661, pag. 192. Ed in tal guisa adoperando, non si sarebbe il Rigoli unito al numero di quei trascurati editori, che hanno demeritato del grande Alighieri ricuoprendolo ed inquinandolo delle altrui brutture.

CANZONE.

Poscia ch'i' ho perduta ogni speranza
Di ritornare a voi, Madonna mia,

Cosa non è né fia

Per conforto giammai del mio dolore.
Non spero più veder vostra sembianza,
Poiché fortuna m' ha chiusa la via
Per la qual convenia

Ch'io ritornassi al vostro alto valore.
Ond'è rimaso si dolente il core,

Ch'io mi consumo in sospiri ed in pianto,

E duolmi perchè tanto

Duro, che morte vita non m' ha spenta.
Deh che farò, che pur mi cresce amore,
E mancami speranza d'ogni canto?
Non veggio in qual ammanto

Mi chiuda, ch'ogni cosa mi tormenta,
Se non che chiamo morte che m'uccida,
Ed ogni spirto ad alta voce il grida.
Quella speranza che mi fe'lontano

Dal vostro bel piacer ch' ognor più piace,
Mi s'è fatta fallace

Per crudel morte d'ogni ben nemica ;
Ch'Amor, che tutto ha dato in vostra mano,
M' avea promesso consolarmi in pace :
Per consiglio verace

Fermo la mente misera e mendica

A farmi usar dilettosa fatica.

Per acquistare onor mi fe' partire
Da voi, pien di desire,

Per ritornar con pregio e in più grandezza.
Seguii 'l Signor, che, s' egli è uom che dica
Che fosse mai nel mondo il miglior Sire,

Lui stesso par mentire,

Ché non fu mai cosi savia prodezza,

Largo, prudente, temperato e forte,

Giusto vie più che mai venisse a morte.

Questo Signor, creato di giustizia,
Eletto di virtù tra ogni gente,

Usò più altamente

Valor d'animo più ch'altro mai fosse.
Nol vinse mai superbia nė avarizia ;
Anzi l'avversità 'l facea possente,
Ché magnanimamente

Ei contrastette a chiunque il percosse.
Dunque ragione e buon voler mi mosse
A seguitar Signor cotanto caro;

E se color fallaro

Che fecer contro lui a lor potere,
Io non dovea seguir lor false posse :
Vennimi a lui, fuggendo 'l suo contraro.
E perché 'l dolce amaro

Morte abbia fatto, non è da pentere :
Che 'l ben si dee pur far perch' egli è bene,

Ne può fallir chi fa ciò che conviene.

È gente che si tiene a onore e pregio

Il ben che lor avvegna da natura ;
Onde con poca cura

Mi par che questi menin la lor vita:
Ché non adorna petto l'altrui fregio,

Ma quant' uomo ha d'onore in sua fattura,
Usando dirittura :

Questo si è suo, e l'opera é gradita.
Dunque qual gloria a nullo è stabilita
Per morte di Signor cotanto accetto?
Nol vede alto intelletto,

Nė sana mente, nè chi 'l ver ragiona.
O alma santa, in alto ciel salita,
Pianger dovriati inimico e suggetto,
Se questo mondo retto

Fosse da gente virtuosa e buona ;

Pianger la colpa sua chi t' ha fallito,

Pianger la vita ogni uom che t'ha seguito.

Piango la vita mia, però che morto

Se', mio Signor, cui più che me amava,
E per cui i' sperava

Di ritornar ov' io saria contento.
Ed or senza speranza di conforto,
Più ch' altra cosa la vita mi grava.
O crudel morte e prava,

Come m' hai tolto 'I dolce intendimento

Di riveder lo più bel piacimento,
Che mai formasse natural potenza
In donna di valenza,

La cui bellezza è piena di virtute !
Questo m'hai tolto; ond' io tal pena sento,
Che non fu mai si grave condoglienza ;
Che 'n mia lontana assenza

Giammai vivendo non spero salute;

Ch'ei pure è morto, ed io non son tornato,
Ond' io languendo vivo disperato.

Canzon, tu ten' andrai dritto in Toscana

A quel piacer, che mai non fu 'l più fino;
E fornito il cammino,

Pietosa conta il mio tormento fiero.
Ma prima che tu passi Lunigiana
Ritroverai il marchese Franceschino,

E con dolce latino

Gli di', che ancora in lui alquanto spero;
E, come lontananza mi confonde,

Pregal ch' io sappia ciò che ti risponde.

Nel numero 69 del giornale fiorentino L'Antologia, settembre 1826, il professore Carlo Witte pubblicò corredata d'illustrazioni la Canzone presente, la quale egli avea tratta dal Codice CXCI della Marciana di Venezia. Nel pubblicarla, ei non la diede già come inedita, perciocchè sapevala impressa nella veneta edizione del 1518, nell'aggiunta di Rime posta dal Corbinelli appresso la Bella Mano del Conti, e nel Giornale Arcadico, vol. XXXVII, Roma 1822, quivi stampata per cura del cavaliere Tambroni; ma la diede siccome migliorata d'assai nella lezione, e siccome appartenente a Dante Alighieri.

Vuolsi dal Witte, che il Poeta esule dalla patria pianga in que

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