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Ora Dante, essendo stato esiliato nel 1302, non poteva dire d'aver lasciato la patria per seguire Arrigo, il quale non fu eletto imperatore che nel 1308, nè si portò in Italia, che sull' incominciare del 1311. Inoltre, siccome questo poeta, attenendoci all' autorità de' suoi biografi, vuolsi che, seguìta la morte d' Arrigo, s'aggirasse per varii luoghi del Casentino, di Romagna e d'altre toscane provincie, avrebb'egli potuto lagnarsi di trovarsi dalla sua patria lontanissimo, quasi fosse fuori del suolo italiano, mentre era invece, per così dire, in sulle porte di Firenze?

« Che'n mia lontana assenza

Giammai, vivendo, non spero salute: >>

Per qualunque lato si confrontino queste ed altre espressioni della Canzone colle circostanze della vita di Dante, non potremo trovar via veruna di conciliarle insieme.

V. Dopochè il professore Witte ebbe prodotto col nome di Dante la Canzone presente, sursero alcuni a contrastarne l' autenticità, e fra questi Emanuelle Repetti e il marchese Gian Giacomo Trivulzio. Chè se il primo fu d' opinione, che la Canzone d' altri non fosse che di Sennuccio Benucci 2 (e Sennuccio infatti seguì in Provenza Stefano Colonna di cui era segretario), e se il secondo s'ingegno di provare ch'esser dovesse di Cino, ambedue per altro si accordarono pienamente a negarla a Dante Alighieri, tanto più che allo stile ed al fare di lui non punto conformasi. Ma il Witte non s'acquetò alle costoro ragioni, e disse reputare l' opinion sua tanto men confutata in quantochè avea discoperto che pure un Codice Trivulziano a Dante l' attribuiva. Ora però che noi siamo andati parte a parte rilevando l'improbabilità e l'insussistenza della sua congettura, speriamo che un uomo dotto siccome egli è, amantissimo delle cose degli Italiani, benemerito delle lettere nostre e di Dante Alighieri, non vorrà più ostinarsi ad attribuire a questo sommo poeta una Canzone, in cui non scorgesi nè l'energia nè la concisione dell'autore del sacro poema, nè il nobile stile de' suoi lirici carmi, nè quella elevatezza e quella gravità, che sono proprie del Cantore di Beatrice, e che con più o meno di lucentezza traspaiono sempre in qualunque di lui poetico componimento.

'Nell' opuscolo del quale ho fatto parola più volte, e del quale riporterò un brano alquanto più sotto.

Vedi L'Antologia di Firenze, numero LXXIV, febbraio 1827.

In un opuscolo di poche pagine stampato a Milano nel 1827, il marchese Trivulzio prende a provare che la Canzone Poscia ch'io ho perduta ec, è di Cino da Pistoia. Essen

dosi dal Witte opinato che le circostanze della vita di Sennuccio non troppo bene si adattassero alla Canzone in discorso, il Trivulzio, non potendo assentire all' opinione del dotto prussiano, il quale volea farne autore l' Alighieri, credè trovare una maggiore analogia colle circostanze della vita di Cino. « Le ragioni (egli dice) che ci spingono » ad assegnarla al poeta pistoiese, > sono due: la prima, che lo stile » ne sembra tenere più della gen>> tilezza di costui, che della gravità » del suo amico Dante; l'altra, la quale naturalmente si lega colla prima, che se le circostanze toc»cate nella Canzone non conven>>gono pienamente a Sennuccio, » convengono però benissimo a Cino, a quel modo istesso che po»trebbero convenire all' Alighieri, » siccome sarà chiarissimo a chiun≫ que abbia cognizione della vita » e delle opinioni di questi due poeti. Perciocchè Cino, come Dan>>te, era esule dalla patria per le » fazioni de' Bianchi e de' Neri, ed ≫ era com'esso di parte Bianca,

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cioè, Ghibellino, e gran fautore » dell'autorità dell'impero, il che dimostrano le sue scritture legali; com'esso avea relazione co Mar> chesi Malaspina, essendo anzi sta»to innamorato d' una donna di quella casa; com' esso finalmente » avea riposta la speranza del ri» tornare alla patria nell' impera»tore Arrigo VII, di cui pianse amaramente la morte anche con altri componimenti che leggonsi fra le » sue poesie. Ma di più, Cino aveva lasciata nella sua città natia un'a» mica cui si struggea di rivedere "(cosa che non sappiamo di Dante), ed a cui volavano frequente» mente i suoi pensieri: chè non fu sola Selvaggia, per la quale » abbia sospirato il volubile Sini>> buldi. Quell' amica sarà dunque » la Madonna della Canzone, cui ci > sarà sempre duro l'intendere per

» una città, la città di Firenze, come » suppone il signor Witte. Rimar>> rebbe la difficoltà della tornata, »> ove dice alla Canzone d'andar >> dritto in Toscana, ma di trovare » il marchese Franceschino (Mala>> spina) prima di passar Lunigiana; >> per il che dovrebbe supporsi che, >> al tempo della morte d' Arrigo, >> Cino si trovasse in paese setten>> trionale per rispetto alla Tosca»na. Ma quella incertezza sul luogo >> ove Dante soggiornasse precisa» mente in questa stagione, colla o quale il sig. Witte risolve quanto » a se la questione, combatte pure >> in nostro favore per riguardo a Cino, il quale verso il tempo della >> morte d' Arrigo viaggiò in Fran» cia, e peregrinò in varie parti » d'Italia, senza che da' suoi bio>>grafi venga assegnata l'epoca » precisa della sua dimora ne' di>> versi paesi. >>

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In tal guisa accennato, che il soggetto e le circostanze della Canzone convengono al pistoiese poeta più che a qualunque altro, il Trivulzio va riportando tutto il componimento, ponendovi sotto a maniera di note alcuni passi delle Rime di Cino, i quali per analogia d'allusioni, di pensieri e d'espressioni rendono vie più probabile l'opinion sua, che questa Canzone, cioè, appartenga al pistoiese poeta. La quale opinione potrebbe acquistare un grado maggiore di verosimiglianza ove si rifletta che la Canzone accenna, come già dicemmo, un esilio più volontario che coatto, e tale appunto sappiamo essere stato quello di Cino, perciocchè questi si allontanò dalla patria per non incontrare le persecuzioni della Parte Nera, quando la Bianca, cui egli seguiva, rimase la più debole, e quindi la soccombente. Se non che, per varie ragioni, ch'io non credo dover esporre, perchè siffatto argomento non m'appartiene, io ritengo che la Canzone non sia neppure di Ci

no, ma appartenga al poeta, cui fu dal Corbinelli attribuita, vale a dire a Sennuccio Del Bene.

Ecco come il Witte in quell' articolo, da me citato più volte, prese a rispondere alle obiezioni che furono fatte contro la sua-congettura: « Nell' Antologia, settembre 1826, >> io cercai di rendere al suo vero » autore la Canzone Poscia ch' i' ho » perduta ec., che il Corbinelli sul» l'autorità di più MSS., disse es» sere di Sennuccio Del Bene, ma >> che l'edizione del 1518 e il Co» dice Marciano 191 portano come >> opera di Dante. Le mie osserva>>zioni sopra questo soggetto hanno >> trovata molta opposizione; e men» tre G. P. nell' Antologia, novem>> bre 1826, ed E. Repetti, ivi (feb>>braio 1827), si dichiarano per Sen»> nuccio, un piccolo opuscolo stam>> pato a Milano nel 1827 porta, che >> Cino ne sia il vero autore. Ma >> reputo l'opinion mia tanto meno >> confutata, quanto ancora è dalla >> mia parte l'autorità d'un piccolo >> Codice in 12° di poesie antiche » nella Trivulziana, e l'opinione >>> degli editori della collezione di Zane, Venezia 1731. Che la con>>cordanza poi del Codice Marciano » e della edizione del 1518 non ri»sulti, come vuole il Repetti, dal>> l'esser questa copiata da quello, >> lo dimostrano le differenze della » lezione e del contesto. Io mostrai >> che le particolarità menzionate >> nella Canzone non possono con»cordare con quello che sappiamo >> della vita di Sennuccio, mentre

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>> ramente della morte d'Enrico VII >> e del desiderio di Dante di poter >> ritornare in patria; com' io pre>> tesi, è dimostrato da un' intito>> lazione prodotta dallo stesso Re» petti, e che trovasi in altro MS. >> La laude, che, secondo la mia di>> chiarazione, si dà a Firenze nella Canzone, non è una ragione per »> negarla a Dante, come vuole il Repetti; perchè, benchè Dante sia >> molto duro nelle sue espressioni >> contro la patria nel poema e in » altri scritti, parla di essa per al>> tro con dolcezza dopo la morte d'Enrico, come lo dimostrò bene >> il Foscolo. Non voglio negare che >> la dizione non sia così vigorosa, » ed in particolare così concisa, >> come lo è ordinariamente quella » di Dante; e che la personifica»zione d'una città, secondo la qua

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le, come spiegai, Firenze si no>> mini Madonna (benchè non senza esempio), sia dura e fuor di co»stume. L'autore, da me molto venerato, dell'opuscolo milanese, adduce queste ragioni, ed aggiunge tanti luoghi paralleli delle poe>> sie di Cino, che ascriverei anch'io >> la Canzone a questo, se fossi a » ciò autorizzato dai Codici. Tanto » quanto questi non si troveranno, >> continuerò a credere, che anche >> Dante scrivesse talvolta inegual» mente. >>>

5 Questo dotto Alemanno, che dei suoi lavori Danteschi mi è stato sempre cortese, e la cui amicizia mi tengo ad onore, ha co' suoi scritti, e colle sue accurate traduzioni e illustrazioni di varie fra le opere di Dante, reso caro e pregiato ai letterati tedeschi il nome di questo grande Italiano.

SONETTO.

Tornato è 'l Sol, che la mia mente alberga, E lo specchio degli occhi ond' era ascoso,

Tornato è 'l sacro tempio e 'l prezïoso
Sepolcro, che 'l mio core e l' alma terga.
Ormai dal petto ogni vil nube sperga

Il ciel, che m'ha ridotto il dolce sposo :
Sorgete, Muse, sorga il glorïoso

Fonte, per cui tant' opra s' orna e verga.
Ecco le stelle lagrimose e stanche,
Venuto a ritornare il caro segno,

Or fatte illustri; ecco la bella luce.
O clemenza di Dio, potria morte anche
Scurare il Sol? No, signor mio benegno,
Questo è quello che impera, egli è mio duce.

SONETTO.

Prezïosa virtù, cui forte vibra

Caso fortuna, e non già per tua colpa;

Ma poco val, che dentro a cotal polpa

Non ha poter, quanto ha le piante libra.

Forse, che prova avversità tua fibra

Quant' ella ha possa e più, quanto più colpa.
Miseria prova i forti, e poi gli scolpa,
Come fa foco l'oro, e poi 'l delibra.

Marce sempre virtù senza avversaro;

Che allora appar quanto virisca e lustra,
E quanta pazienza il petto made.
Rassumi, signor mio benigno e caro,

Scettro con pazïenza, ed altro frustra;

Ché animosa virtù sempre alto cade.

Quando nell'Antologia, num. LXIX, settembre 1826, il professore Carlo Witte stampò col nome di Dante la Canzone qui sopra riportata Poscia ch' i'ho perduta, produsse in luce, pur col nome di esso, questi due Sonetti, fin allora inediti, dei quali non accennò peraltro la provenienza. Ma troppo grande distanza è da questi laidi e sciagurati Sonetti alla poesia del divino Poeta, sì che il lettore non s' av

veggia tosto della loro illegittimità, e non dia al Witte l'addebito d'essere stato troppo corrivo; e tanto più maggiormente, quanto che nè egli indicò i Codici nell'autorità de' quali fidava, nè discorse le ragioni per le quali opinava che i due Sonetti potessero appartenere all' Alighieri. Forse il Witte, che nel 1826 era assai giovane, s'avvide poi del suo sbaglio, derivato da immaturo giudizio, e però nell' opuscolo in cui prese a indicare le Rime che sotto nome di Dante erano state dal Muratori in poi prodotte alla luce, non fece punto parola de' due sovraindicati Sonetti; la qual cosa non avrebb'egli omesso di fare, quando non si fosse a quel tempo ricreduto della sua primiera opinione.

SONETTO.

Volgete gli occhi a veder chi mi tira,
Perch'io non posso più viver con vui,
Ed onoratel, chè questi è colui,
Che per le gentil donne altrui martira.
La sua virtute, ch' ancide senz' ira,
Pregatel che mi lasci venir pui :
Ed io vi dico che li modi sui
Cotanto intende quanto l' uom sospira.
Ch'ella m'è giunta fera nella mente,
E pingemi una donna si gentile
Che tutto mio valore a' piè le corre;
E fammi udire una voce sottile,

Che dice: dunque vuo' tu per niente

Agli occhi miei si bella donna torre ?

Questo Sonetto, che non trovasi nell' edizione Giuntina, nè in quella del Pasquali o dello Zatta, o in alcun' altra delle primarie, vedesi fra le Rime di Dante Alighieri nel piccol volumetto contenente alcuni de' principali nostri lirici antichi, faciente parte della Biblioteca universale di scelta letteratura, stampata dal Bettoni, Milano 1828. Non sappiamo nè donde sia stato tratto, nè su qual fondamento fosse mai all' Alighieri attribuito. È un Sonetto così scipito, così contorto, e così privo di sintassi e di senso, che, ammesso anche

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