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CAPO IX.

LA REPUBBLICA, LE AMBASCERIE.

(ANNI 1293-1300)

73 La gente nova e i subiti guadagni
Orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza in te, sicchè tu già ten piagni.
INF. XVI.

67 Sempre la confusion delle persone
Principio fu del mal della cittade,
Come del corpo, il cibo che s'oppone.
PARAD. XVI.

Già vedemmo che i tempi di Dante furono quelli del trionfo di parte guelfa in Italia; quelli in che tal parte nazionale e popolana, aiutata prima dalle dispute d' imperio che seguiron la morte dell' ultimo Svevo, poi dall'abbandono d'Italia del primo Austriaco, avrebbe forse potuto farsi universale nella penisola, e confederarla o liberarla. Ma i Guelfi non se ne giovarono, se non per esagerare i propri principii popolani, opprimere gli avversari, divider se stessi, ed errare d'ogni maniera; e così venuta la solita stanchezza, non fecero altro che ammontare, frammischiare le rovine proprie sulle rovine altrui, lasciando non più che confuse e mal sode macerie agli edifizi delle future generazioni. Firenze fu il comune, la città, che stata più prudente, più moderata fin allora, diventò allora più esageratamente guelfa e popolana. E Dante, figlio d'esuli Guelfi, nato appunto l'anno primo del trionfo guelfo, fu partecipe si del governo guelfo durante il maggior fiore di esso, ma non fu partecipe poi, e fu anzi vittima delle esagerazioni; ondechè questa parte della vita di lui

è

non solo irreprensibile, ma ammirabile per la maggiore delle virtù politiche, la moderazione.

Nell'anno 1290, che seguì quello delle vittorie di Campaldino e di Caprona, i Fiorentini fecero una nuova scorreria contro Arezzo, fecervi correre il pallio sotto le mura il dì di s. Giovanni, e tornarono a casa saccheggiando le terre Aretine e quelle dei Conti Guidi ghibellini. Poi nel resto di quell'anno e nel seguente aiutarono Lucca e Genova contro Pisa, più che mai ghibellina dopo la tragedia d'Ugolino. Ma queste scorrerie degli anni 1290 e 1291 non produssero nulla, e Toscana rimase divisa; Firenze e Siena di parte guelfa, Pisa e Arezzo di parte ghibellina, ma la prima in baldanza delle vittorie, le altre in vergogna delle sconfitte.

E allora i Fiorentini rivolsero in se stessi la eretta attività. Allora finalmente fu incominciata anche in Firenze quella trista divisione in parti de' nobili e de' popolani, che già da più tempo iva guastando parecchie altre città d'Italia. I nobili, cacciati del governo dai priori dell'arti, se ne vendicavano con private prepotenze sul popolo minuto. Così succede sempre, in guise varie secondo la varietà de' tempi, ogni volta che si vuol negare la potenza legale a coloro che l' han di fatto. Le cose non possono mai rimanere a lungo in ciò, che chi può non sia stimato potere; ed, o si ritorna a restituir ai grandi lor parte di potenza legale, o si progredisce à tor loro quella di fatto; e le prime sono le rivoluzioni popolane che danno indietro, le seconde quelle che giungono a lor ultimo termine. In Firenze si venne a questo. Sollevossi di nuovo il popolo contro ai nobili, oppressi in pubblico ed oppressori in privato. «Condotto principalmente da Giano >> della Bella grande e potente cittadino, savio, valente e » buono uomo, e di buona stirpe (a), ordinò un nuovo » governo; od anzi serbando quello de' priori dell'arti (a) Dino Comp. R. It IX, p. 474.

» v' aggiunse a far eseguire i lor comandi un gonfalo» nier di giustizia; a cui fu dato un gonfalone dell' arme » del popolo colla croce rossa in campo bianco, e mille >> fanti tutti armati che avessero a esser presti a ogni ri>> chiesta del detto gonfaloniere in piazza o dove biso>> gnasse; e fecesi leggi, che si chiamarono Ordini della » giustizia contro ai potenti che facessero oltraggi ai po» polani; e che l'uno consorto fosse tenuto per l'altro (a); » e che i maleficii si potessero provare per due testimɔ>> ni di pubblica voce e fama. E deliberarono che qualun» que famiglia avesse avuto cavaliero tra loro, tutti s'in» tendessero esser grandi » (Dante, il cui antenato Cacciaguida era stato cavaliero cencinquant'anni prima, fu dunque de' grandi ) « e che non polessero essere de' si» gnori, nè gonfalonieri di giustizia nè de' loro collegi » (cioè collegi elettorali). « E ordinarono che i signori » vecchi, con certi a voti, avessero a eleggere i nuovi ». Questo dell'anno 1293 (b) fu l'ordinamento definitivo della repubblica guelfa e popolana di Firenze; quello in che perseverò o a che tornò quasi sempre, e che antiquato poi potè considerarsi come la costituzione legale o legittima di lei. E questo fu l' ultimo passo della oppressione de' grandi, alla quale Macchiavello attribuisce l'essersi Firenze resa incapace di armi e così di conquiste e ingrandimenti. A tali ordini repressivi obbedivano poi per forza, ma rilottando i grandi « fortemente dolendosi del» le leggi, ed agli esecutori di esse dicendo: Uno caval » corre e dà della coda nel viso a un popolano, o in una

(a) Questa tirannia de' popolani contro i grandi non fu di Firenze sola. Se ne vuoi un esempio in una delle più microscopiche repubblichette, vedi Cibrario St. di Chieri.

(b) Dino Compagni ivi, e G. Vill. p. 343. Amendue recano tal rivoluzione al febbraio 1292; ma terminando l' anno fiorentino ai 15 marzo dee dirsi a modo nostro 1293. Avvertenza da aversi anche in altre date seguenti.

» calca uno darà di petto senza malizia a uno altro, o » più fanciulli di piccola età verranno a quistione. Gli » uomini gli accerteranno. Debbono però costoro, per così » piecole cose, esser disfatti?» (cioè abbattute le loro case secondo la penalità di quelle leggi ) (a). E nota che chi così vivamente porta le giuste querele de' grandi è Dino Compagni, popolano, amico di Giano della Bella, e che stato sovente de' priori, disfaceva le case de' grandi in coscienza, cosicchè non si potessero rifare, e lagnavasi di chi non facea come egli. Sarebbe a vedere tutta la vivissima descrizione da lui fatta di tal oppressione popolana, e del dibattersi in essa dei grandi (b). Ma la lasciamo per brevità; e noteremo solamente che sono reminiscenze di questi sdegni de' grandi, e così di Dante, contro il popolo, e i versi da noi messi in fronte del presente capitolo ed anzi tutto il canto XVI del Paradiso. Imperciocchè anche lasciata come vedremo la parte de'grandi, non mai potè Dante dismetterne la superbia.

Principale poi nel dibattersi de'grandi contro il popolo dovette esser messer Corso, che non vedesi nomato da principio, ma che con una delle sue solite soverchierie fu poi causa od occasione di una nuova rivoluzione, la cacciata del capopopolo Giano della Bella. Nel gennajo 1295 (c) « avvenne che messer Corso Donati potente ca» valiere mandò alcuni fanti per fedire messer Simone >> Galafrone suo consorto; e nella zuffa uno vi fu morto, e » alcuni fediti. L'accusa si fe' da amendue le parti e però >> si convenia procedere secondo gli ordini della giustizia >> in ricevere le pruove e in punire. Il processo venne in» nanzi al Podestà chiamato messer Gian di Lucino Lom>> bardo, nobile cavaliere, e di gran senno e bontà. E ri» cevendo il processo un suo giudice, e udendo i testi

(a) Dino Comp. R. It. XX, p. 375.

(b) Dino, pp. 475-477.

(c) Vedi per la data G. Vill. lib. VIII, c. 8, p. 349.

moni prodotti da amendue le parti, intese erano contro >> a messer Corso, fece scrivere al notaio per lo contra» rio; per modo che messer Corso dovea essere assoluto >> messer Simone condannato. Onde il Podestà essendo >> ingannato sciolse messer Corso, e condannò messer Si» mone. I cittadini che intesono il fatto, stimarono l'a» vesse fatto per pecunia, e che fosse nimico del popolo; » spezialmente gli avversari di messer Corso gridarono a » una voce: Muoia il podestà; al fuoco, al fuoco. I primi >> cominciatori del furore furono Taldo della Bella, e Bal>> do dal Borgo,più per malivolenzia che aveano a messer » Corso, che per pietà dell' offesa giustizia. E tanto creb> be il furore che il popolo trasse al palagio del podestà » con la stipa per ardergli la porta.

» Giano, che era co' priori udendo il grido della gente, » disse: Io voglio andare a campare il podestà delle mani » del popolo; e montò a cavallo credendo che il popolo lo » seguisse, e si ritraesse per le sue parole. Ma fu il con» trario, chè li volsono le lance per abbatterlo del caval»lo; il perchè si tornò a dietro. I priori per piacere al » popolo scesono col gonfaloniere in piazza, credendo at>> tutare il furore; e crebbe sì, che eglino arsono la porta >> del palagio, e rubarono i cavalli e arnesi del podestà. >>> Fuggissi il podestà in una casa vicina; la famiglia sua » fu presa; gli atti furono stracciati; e chi fu malizioso >> che avesse suo processo in Corte, andò a stracciarlo; e » a ciò procuro bene uno giudice, che avea nome messer » Baldo dell' Ammirato, il quale avea molti adversari, e >> stava in Corte con accuse, e con piati; e avendo proces» si contro, e temendo esser punito, fu tanto scaltrito con >> suoi seguaci, che egli spezzò gli armari, e stracciò gli >> atti, per modo che mai non si trovarono. Molti feciono » di strane cose in quel furore. Il podestà, e la sua fami>> glia fu in gran fortuna; il quale avea menato seco la >> donna, la quale era in Lombardia assai pregiata, e di

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