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CAPO I.

DANTE CO' FUORUSCITI E PRESSO UGUCCIONE DELLA FAGGIOLA. SCARPETTA DEGLI ORDELAFFI. GLI SCALIGERI.

(10 MARZO 1302-1303)

53 Con l'animo che vince ogni battaglia.

INF. XXIV.

L'Italia è ab antico la terra degli esilii. Così grandi e così frequenti non trovansi in nessun' altra storia, se non forse in quella della Grecia antica; sia che venga tale somiglianza di lor sorti dalla somiglianza di lor libertà e lor parti, ovvero dalla simil bellezza, che fa quelle due patrie tanto più care a chi vi nacque, tanto più gelosamente tenute da chi le possiede, tanto più amaramente desiderate da chi le perde, ondechè il perderle fu sempre dato e sofferto poco meno che come pena mortale. Ma la Grecia prontamente serva ebbe pochi secoli di questo, come d'ogni altro politico sperimento. L'Italia più lungamente libera o lottante, n' ha ventiquattro oramai, dai quali si potrebbe trarre una storia compiuta di ogni sorta d'esilii, una serie intiera d'esempi ed ammaestramenti a sopportarli. Abbiamo antichissimamente i Tarquinii cacciati per libidinosa tirannia e sforzantisi di rientrare collo straniero; poi Coriolano virtuosamente uscito, ed egli pure empiamente tornante, ma rattenuto da privata

pietà; poi il sublime esilio, il sublime ritorno di Camillo, capo di fuorusciti contro lo straniero, salvator della patria, creatore della grandezza di lei in Italia, e detto così dai Romani secondo fondatore di Roma. Abbiamo quindi fino al fine della repubblica quasi tanti esilii quanti uomini grandi, invidiati gli uni dalla plebe, gli altri da' patrizi, e fra gli ultimi Cicerone; e finalmente agli inizi dell'imperio gli esilii per brighe ed invidie di palazzo, d'un Ovidio, un Tiberio, un Germanico. Cessata ogni libertà, ogni lotta, cessan gli esilii; parendo a quei tiranni la morte, se non più crudele, almen più pronto ed irrevocabile supplizio. Durante la barbarie, non essendo preferibile niuna terra, non si potrebbe dir esilio il vagar di tutti qua e là. Ma risorgendo la civiltà e la patria fra le parti in Italia, risorse insieme quella loro conseguerza naturale degli esilii; con tanta furia, che potrebbero questi cercarsi in ogni città quasi primo segno di lor libertà, che quanto fu ognuna più potente ed illustre tanto più grandi uomini fornì alla storia degli esilii, e che a tale storia a tal politica trovasi ridotta quasi tutta la storia la politica italiana per quattro secoii e più, sforzandosi ogni prepotente di esiliare i più deboli, e gli esiliati poi di ripatriare per farsi essi esiliatori. Quindi tra tanto moto, tante passioni, e diciam pure tanta perversità, meritano compatimento gli errori frequenti di parecchi esiliati; ma meritano tanta più lode le rare e difficili virtù dell'esilio, la fedeltà alla patria, la costanza, la moderazione, i perdoni. Nè mancano di questi alcuni solenni esempi; essendo immancabile quella legge della divina Provvidenza, che le età afflitte da' grandi vizi sieno pur consolate dalle grandi virtù. Abbiamo di quei tempi un Alessandro III ramingo dentro e fuori d'Italia, per essersi messo a capo della nazional resistenza contro le riusurpazioni di Federigo I;un Giovanni da Procida reçante oltre ogni monte ed ogni mare a tutte le corti d'Eu

ropa la fedeltà a' suoi principi, i disegni preoccupati poi dalla sollevazione popolare; un Farinata degli Uberti felice imitator di Camillo nel difender l'esistenza della propria città; e più vicino a noi, un Cosimo de' Medici quasi più magnifico nell' esilio, che non il figliuolo nel principato. I quali tutti e parecchi altri esilii sarebbero degni soggetti di storie generali o speciali.

Fra tanti grandi esiliati Dante fu forse superiore a tutti per l'animo inconcusso, per l'attività non che diminuita. ma più che mai esaltata, per l'ingegno trovante nuove vie, per l'interno vigore con che vinse l'esterna fortuna, e s'alzò a tale altezza a che non sarebbe probabilmente giunto senza la sventura. Ma io mi affretto a dirlo. Parvemi Dante in patria, lodevole, irreprensibile cittadino, e così il dissi. Grande ma non irreprensibile esule ora mi pare, e così dirollo. Non furono è vero i peccati di lui volgari e vili, non l'esagerazione in parte vincitrice e persecutrice, non il mutar dalla vinta alla vincitrice, o l'avvilirsi dinanzi a questa di niuna maniera; ma, error contrario e più pericoloso per le forti nature, l'esagerarsi nella resistenza a' vincitori, nella fratellanza ai vinti ; ondechè egli già Guelfo moderatissimo, Bianco moderato in patria, cacciato che fu per sospetto di Ghibellinismo, si fece per superbia ed ira Ghibellino. Il gran peccato di Dante fu l'ira; l'ira, che pur represse come vedremo nelle azioni, ma ch'egli sfogò in parole non che perdonategli, ma ammirate anche troppo dai posteri. « Nei nostri » giorni tengono alcuni, che i giudizi di Dante abbiansi » a considerare come la giustizia stessa di Dio, e che il >> poeta gli avesse pronunziati scevro affatto da ogni pas>>sione. Con questo prendono ad esaltare l'Alighieri; lo» de superstiziosa e piena di pericolo, dalla quale non >> havvi che un solo passo all'irriverenza (a) ». Se Dante

(a) Veltro Alleg. pag. 188.

si fosse lasciato dormire in pace, in quella misteriosa oscurità in che s'avvolse, o in quella nebbia tra cui il ritrassero gli antichi, io non mi sarei forse inoltrato tanto in questa fatica. Ma gli errori dei grandi sono quelli appunto che si vogliono segnalare, quando la turba dei piccoli prende a lodarneli per imitarveli. Non temiamo quindi di esercitar sopra lui, severo giudice di tanti, quel severo ufficio della storia, che non incombe a nessuno, ma assunto porta obbligo di piena verità. Chè ad ogni modo, tolta questa utilità dell'esercitare il giudicio sulle azioni compiute a pro delle attuali o future,io non so veramente a che si scriverebbero o leggerebbero storie. Nelle quali tutte, è questa parte penosa de'biasimi; ed è gran ventura quando non supera la piacevole delle lodi delle vite poi inparticolare, per iscriverne senza biasimi, ei si vorrebbe poter iscrivere quelle degli angeli; o almeno di alcuna di quelle creature che vissero quaggiù come angeli, pure, simili, in sè raccolte e per lo più ignote, e brevemente. Tal forse fu la vita di Beatrice; non fu nè poteva essere quella di Dante, e tanto meno dopo lei perduta.

Del resto, un'altra difficoltà incontreranno i leggitori in questa seconda parte, la incertezza de' viaggi di Dante. Le antiche età non erano vaghe di particolari biografici, come è la nostra. Il Villani e il Boccaccio soli contemporanei dissero poche parole di que' viaggi; un secolo dopo Leonardo Aretino, e per quanto io sappia il Filelfo non v' aggiunsero guari; e non fu sé non alla nostra età che il Pelli ne raccolse le memorie e che l'autor del Veltro le ordinò ed estese. Seguendo i quali o scostandocene secondo i nuovi studi fattine, molto pure rimarrà non dichiarato. Ma anche questo delle dubbiezze, è un inconveniente di tutte le storie scritte con sincerità; e si confortino poi i leggitori al pensiero, che nella vita come nel poema di Dante, le cose più belle sono sempre le meno oscure.

Se Dante partisse di Roma dopo avuta la prima condanna di multa e sbandita del 27 gennaio, o solamente dopo la conferma con aggiunta di morte e fuoco del 10 marzo 1302, non è chiaro (a). Ad ogni modo ei venne a Siena e poco dopo ad Arezzo (b); chè a Siena ed Arezzo venivano raccogliendosi gli usciti di Firenze (c). Ma Siena era Guelfa; i Bianchi, che prima della cacciata chiamavan sè stessi Guelfi, ma fin d'allora erano sospetti di Ghibellinismo, ora poi cacciati di Firenze, erano ivi più che mai detti Ghibellini e trattati per tali; ed essi stessi colle loro relazioni con gli antichi fuorusciti Ghibellini, davano corpo a quell' accusa. Così sempre succede, così vedesi nelle storie, così nella pratica. Bello è lo sdegno del buon Dino Compagni. Guelfo rimasto in città, contra quest'accusa di Ghibellinismo estesa ad ogni cacciato: « E parlo bene un savio uomo Guelfissimo, vedendo fare » Ghibellini per forza, il quale fu il Corazza Ubaldini da » Signa, che disse: E' sono tanti gli uomini che sono Ghi» bellini, e che vogliono essere, che il farne più per forza » non è bene (d) ». Ma continuarono a farsi per forza; è in breve Ghibellini e Bianchi furono tutt'uno nelle persecuzioni altrui, e pur troppo sovente nelle proprie azioni. Dante come gli altri, cacciato oramai dalla sua, dall'altre città Guelfe, ammesso nelle Ghibelline, consigliante, guerreggiante co' fuorusciti Bianchi e Ghibellini frammisti, Dante tenuto così d'ogni maniera per Ghibellino s'accostò certo fin d'allora a' Ghibellini, diventò poi a poco a poco più e più Ghibellino, e mutò parte. Vedremo più giù fino a che segno, con quali intenzioni, con quali scuse; ma in somma, pur troppo, mutò parte; e

(a) L'autor del Veltro dice dopo la prima p. 32, ma non ne trovo documento.

(b) Leon. Aret. p. 37. Pelli p. 110, Veltro p. 52.

(c) Dino Comp. p. 303.

(d) Dino p. 503.

Vita di Dante.

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