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Sede Romana, come fu dichiarato dal Relatore della Deputazione de Fide in una delle Congregazioni generali; e perciò in questo Capitolo non si legge nulla, che faccia intenderci con termini diretti, se fu per propria deliberazione, o per volontà di Gesù Cristo che s. Pietro andò in Roma, e vi fissò la sua Sede, acciochè appunto i Vescovi di Roma fossero i suoi successori nel Primato Apostolico sulla Chiesa universale. Del resto, la regola costante tenuta dalla Chiesa di rispettare colla più scrupolosa osservanza gli statuti degli Apostoli, specialmente di S. Pietro, come che fossero di Gesù Cristo medesimo, nella fondazione ed ordinamento di essa Chiesa, ci inclina a farci ritenere col peso più che di una semplice probabilità, di una certezza teologica, se non dommatica, la sentenza di quei Teologi i quali ripetono da divina istituzione (ex divina ordinatione) l'essere stato annesso alla Sede di Roma il Primato su tutta la Chiesa. Siamo d'altronde in ciò confermati dal modo, onde trovasi risoluta la seconda questione, se, cioè la Chiesa possa staccare il Primato dal Vescovato di Roma. Ognun vede l'intimo nesso che lega le due questioni. Imperocchè, se non fosse stato legato per diritto divino il Primato al Vescovato di Roma, potrebbe sempre staccarsi con quel medesimo diritto umano ecclesiastico, col quale sarebbe stato legato da principio; conciosiachè mutabili siano sempre gli statuti del diritto umano, e tutte le cose si possano sempre sciogliere con quella medesima forza con cui furono in prima legate. Ma il Sommo Pontefice ebbe già condannata la opinione affermativa su questo punto

nella seguente proposizione XXXV del Sillabo: « Niente impedisce che per decreto di un Concilio generale, o pel fatto di tutti i popoli il Sommo Pontificato sia trasferito dal Vescovo Romano e dalla Città di Roma ad un altro Vescovo e ad un' altra Città " (1). Quindi senza più occuparci di tal questione, dobbiamo piuttosto confessare che è sempre ben fatto quello che s. Pietro, o per espresso ordine di Gesù Cristo, o per fatto suo proprio come Vicario di Gesù Cristo, ha fatto; e che perciò non si può disfare.

CAPITOLO III.

DE VI ET RATIONE PRIMATUS ROMANI PONTIFICIS.

Stabilita ne' due precedenti Capitoli la divina istituzione del Primato nella persona di s. Pietro, e la perpetua successione di un tale Primato nella persona dei Romani Pontefici, si passa in questo ad esporre la dottrina cattolica intorno alla natura ed efficacia di un tale Primato, ed a combattere i varii errori di coloro che in varie epoche sino ai giorni nostri hanno cercato o di falsarne la natura, o di menomarne l'efficacia. E s'incomincia dallo stabilire che la dottrina la quale in questo Capitolo si dichiara, non è se non la ripetizione. e l'esposizione di quanto trovasi stabilito

1. Nihil vetat, alicujus Concilii generalis sententia, aut universorum populorum facto, summum Pontificatum ab romano Episcopo atque. Urbe ad alium Episcopum, aliamque civitatem transferri. Syllab. prop.

nelle S. Scritture e nei Decreti dei precedenti Concilii Generali e dei Romani Pontefici. «Per la qual cosa, così parla il s. Padre col Concilio, poggiati alle manifeste testimonianze delle S. Scritture (addotte già nei precedenti Capi), e su i decreti evidenti e chiarissimi tanto dei Romani Pontefici nostri Predecessori, quanto dei Concilii Generali, rinnoviamo la definizione dell' Ecumenico Concilio Fiorentino: Quapropter, apertis innixi sacrarum litterarum testimoniis, et inhaerentes tum Praedecessorum Nostrorum Romanorum Pontificum, tum Conciliorum generalium disertis, perspicuisque decretis, innovamus Oecumenici Concilii Florentini definitionem., Convien notare le frasi inhaerentes etc. ed innovamus etc., le quali sono le frasi ordinarie, e le formole consuete che si adoprano nei decreti dei Concilii per indicare che coi medesimi Decreti, che vi si fanno, non si viene a proporre alla credenza dei fedeli un domma foggiato di nuovo, ma ciò che già, almeno in quanto alla sostanza, risulta dalla S. Scrittura e dalla Tradizione, e che già formava nella Chiesa oggetto di fede. La definizione del Concilio Fiorentino, che qui si riporta testualmente, e che riassume quanto era stato precedentemente definito negli altri Concilii ecumenici anteriori, è la più importante per la sua gravità, e fu accettata anche dai Vescovi di Oriente, dopo conchiusa la loro unione nello stesso Concilio colla Chiesa Romana. Essa è la seguente: «Definiamo che la S. Sede Apo" stolica, ed il Pontefice Romano tengono il primato " sopra tutta la terra, che esso Romano Pontefice è il successore di s. Pietro principe degli Apostoli,

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"^e il vero Vicario di G. Cristo, ed il Capo di tutta " la Chiesa, e il Padre e Maestro di tutti i Cristiani; " e che a lui in s. Pietro fu data dal N. Signor Gesù » Cristo la piena potestà di pascere, reggere e gover"nare tutta la Chiesa; siccome si contiene anche negli " atti dei Concilii ecumenici e nei sacri Canoni ". Definimus, Sanctam Apostolicam Sedem, et Romanum Pontificem in universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum, et verum Christi Vicarium, totiusque Ecclesiae Caput, et omnium Christianorum patrem ac doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis oecumenicorum Conciliorum et in sacris canonibus continetur. Questa definizione, come apparisce dalla prima lettura, contiene in germe ed in sostanza quanto si verrà in seguito spiegando circa la natura, l'essenza e le prerogative del Primato del Romano Pontefice; tutte le quali cose sono partitamente esposte nei paragrafi seguenti. Prima di passare a tale esposizione facciamo qui notare che le ultime parole quemadmodum etiam etc. non si congiungono colle precedenti come parte o come oggetto della definizione, ma come motivo, o come conferma della stessa definizione. Imperciocchè convien sapere che i teologi gallicani, seguiti dai giansenisti e dai regalisti, stiracchiando queste parole, intendevano con esse posto un limite alla piena potestà del Primato; la quale, dicevano essi, si veniva a sta

bilire con le citate parole che non si dovesse esercitare, se non secondo le prescrizioni dei sacri Canoni e dei Decreti dei Concilii ecumenici. A tale scopo i gallicani escludevano dal testo la particella etiam, sostituendovi l'et, e l'interpretavano così: In quel modo, ovvero in quella misura che trovasi stabilita e nei Sacri canoni, e nei Decreti dei Concilii ecumenici. Ma siffatta interpretazione gallicana ripugna così all'esigenza della Logica, che a quella della Critica. Ripugna all'esigenza della logica, perocchè prendendosi la surriferita prcposizione in senso restrittivo, il Concilio Fiorentino si sarebbe contraddetto, affermando prima che il R. Pontefice ha la piena potestà, e poi apponendovi che questa potestà dovea esercitarsi in determinata misura; il che sarebbe affatto contrario alla dignità del Concilio. Ripugna di più all'esigenza della critica, perocchè la frase quemadmodum etiam leggesi appunto ne' due testi originali latini, di cui uno si conserva nell' Archivio del Capitolo Vaticano, e l'altro nella Biblioteca Laurenziana di Firenze; nei quali si legge non già ad eum modum quem, come vorrebbero i gallicani che si voltassero le corrispondenti parole greche, ma quemadmodum etiam. (1)

1. È a notarsi, che il testo di questo Decreto fu steso prima in latino, come sempre faceasi nel Concilio di Firenze, e poi fu voltato in greco per uso della Chiesa di Oriente. Il testo originale adunque è sempre il latino, ed il greco ne è la versione. Nella pergamena esistente nell' Archivio del Capitolo Vaticano, che abbiamo veduta, il detto Deereto autentico ed originale, che porta la firma autografa di Eugenio IV e dell'Imperatore Greco Michele Paleologo e di altri Padri, al testo latino sta messa la versione greca a fianco. Nel testo latino sta quemadmodum etiam etc., e nel testo greco καθ ̓ ὃν τρόπον καὶ ἐν τοῖς πρακτικούς των οικουμενικῶν συνόδων καὶ τοῖς ἱεροῖς κανόσι διαλαμβάνεται. Le quali pri

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