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ad una perfezione superiore alla sua natura; e gli altri, sotto il nome di progressisti insegnano che l'umanità nel suo progresso infinito colle sue forze arriverà alla conoscenza di ogni verità ed al conseguimento di ogni perfezione.

Parlandosi in questo Canone di cognizione e perfezione naturale, cognitionem et perfectionem naturalem, può domandarsi che s'intenda precisamente per questa cognizione e perfezione naturale? Al che si risponde che vi sono talune verità che riguardano Dio come creatore, le quali quantunque l'uomo non possa mai arrivare a conoscere esattamente senza un soccorso particolare di Dio, pure, non sono assolutamente superiori ad una intelligenza finita, e che perciò lo spirito umano, qualora lo si supponga perfetto, colto ed istruito il più che sia possibile, potrebbe da se stesso arrivare a conoscere. Il Concilio adunque, come si rileva anche dal paragrafo relativo, in cui si fa l'esposizione della dottrina cattolica, senza entrare in questa questione che è piuttosto metafisica, ha parlato in generale delle verità che assolutamente sorpassano (omnino superent) l'intelligenza umana; ed il senso della prima proposizione di questo Canone è precisamente il seguente: Anatema a colui il quale dice che Dio non può innalzar l'uomo alla conoscenza delle verità che sono assolutamente inaccessibili ad ogni uomo abbandonato alle sole sue facoltà naturali; o che sostiene che mediante l'aiuto di Dio, mediante la grazia, noi non possiamo arrivare ad una perfezione superiore a quella di ogni uomo abbandonato alle sole sue forze naturali.

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Il quarto Canone condanna gli errori contrarii alle verità esposte nel terzo paragrafo; è una ripetizione del Decreto analago del S. Concilio di Trento colla sola aggiunzione delle parole: aut eos (libros S. Script.) divinitus inspirato esse negaverit. La quale ultima proposizione colpisce l'errore non ancora apparso all'epoca del Concilio di Trento, di Lessio e di Duhamel già censurato dalla Università di Lovanio e di Douai, i quali asserivano che uno scritto qualunque che fosse opera dell'umana industria, potrebb' essere trasformato e ricevuto come libro sacro e canonico, come sacra Scrittura, se lo Spirito Santo attestasse che è esente da, ogni errore: tale forse avrebbe potuto essere, come essi dicevano, il secondo libro dei Maccabei. Questo errore si era molto diffuso particolarmente nella Germania.

La questione dibattuta nelle scuole, se l'ispirazione divina si limiti alle sole idee o si estenda anche alle parole della S. Scrittura, non è stata toccata dal Concilio; epperò rimane libera come prima,

CAPITOLO III,

DE FIDE.

In questo terzo Capitolo si espone la dottrina della Chiesa Cattolica circa la virtù dalla fede, mediante la quale crediamo alle verità rivelate da Dio. Dopo di avere dichiarato e stabilito nel Capitolo precedente che Iddio ha fatto al genere umano la rivelazione di alcune verità che sorpassano la sua intelligenza, era necessario

che si passasse a parlare della virtù della fede, con cui dobbiamo credere a questa rivelazione fattaci da Dio; il che si fa in questo Capitolo diviso in sei paragrafi, nei quali si tratta successivamente: 1.o della natura della fede; 2. dei principali motivi di credibilità sui quali si appoggia il fedele; 3.o della grazia e della libertà che concorrono all'atto di fede; 4.o dell' oggetto di questa virtù; 5.o dell' organo per mezzo del quale Dio ci propone le verità da credere, il quale organo è la Chiesa Cattolica; 6.o finalmente della felice sorte di coloro che appartengono a questa Chiesa. A questi sei paragrafi corrispondono sei Canoni, che condannano gli errori contrarii.

Nel primo paragrafo il Concilio, prima di definire la virtù della fede, ne assegna la ragione di essere, e ne stabilisce la legittimità. Ed incomincia così:" A Dio suo Creatore e Padrone va l'uomo debitore di tutto l'esser suo: Quum homo a Deo tanquam Creatore et Domino suo totus dependeat; è dunque giusto che egli sottometta a Dio tutte le sue facoltà, e quindi anche la sua intelligenza che è tra le prime. Dippiù la ragione creata dipendendo interamente dalla ragione increata che è Dio stesso, et ratio creata increatae Veritati penitus subjecta sit; è dovere dell' uomo di prestare a Dio l'ossequio del suo intelletto e della sua volontà. Per escludere adunque la pretesa indipendenza della ragione, il Concilio ricorda la verità della Creazione, in virtù della quale la ragione è non solo moralmente, ma fisicamente soggetta a Dio suo Creatore; ed è per questo che il Concilio non ha usato la frase subiecta

esse debeat, ma assolutamente ha detto subiecta sit. Di che segue che quando a Dio piace di rivelargli una verità, è suo dovere di abbracciarla, affin di conoscere per fede ciò che Dio conosce con la vista immediata nell'oggetto che ci rivela. Siamo tenuti insomma, allorchè Dio fa una rivelazione, di offrirgli, mediante la fede, una completa ubbidienza d'intelligenza e di volontà, plenum revelanti Deo intellectus et voluntatis obseqium fide praestare tenemur.

Or in che consiste questa fede? Essa è una virtù soprannaturale, per la quale noi crediamo, coll' ispirazione e col soccorso della grazia, che le cose rivelateci da Dio sono vere: Fides est virtus supernaturalis, qua, Dei aspirante et adjuvante gratia, ab eo revelata vera esse credimus. Si dice primieramente una virtù, cioè una buona inclinazione, una disposizione dell' anima al bene, che i teologi chiamano un abito; si dice virtù soprannaturale, perchè essa non è nè un benefizio della natura, nè un effetto dei nostri sforzi, nè la conseguenza di atti ripetuti, ma un dono gratuito di Dio che opera in noi questa modificazione dell' anima nostra in vista del fine soprannaturale a cui ci ha chiamati. Mediante questa virtù, noi col soccorso e coll' ispirazione della grazia, crediamo che quello che Iddio ci ha rivelato, è vero ", cioè prestiamo alle verità rivelate il nostro assenso come a verità di cui siamo certi, senza la menoma ombra di dubbio. Il motivo poi di questo nostro assenso, di questa nostra adesione, non è nè l' evidenza, nè la certezza intrinseca che può somministrare la nostra ragione naturale, ma l'autorità di Dio, che non

può nè ingannarsi nè ingannarci; ossia è l'autorità infallibile di Dio: Vera esse credimus non propter intrinsecam rerum veritatem naturali rationis lumine perspectam, sed propter auctoritatem ipsius Dei revelantis, qui nec falli nec fallere potest.

Bisogna ben notare quest'ultima parte della definizione, perchè contiene principalmente il motivo che ne specifica l'atto, e ci dà la norma per formarci il giusto concetto della virtù della fede. Un confronto lo farà meglio comprendere. Il deista, per esempio, crede alla vita futura, ma per qual motivo? Perchè ammessa l'esistenza di Dio e dell' anima umana distinta dal corpo, ripugna alla ragione il pensare che nell' uomo tutto finisca colla morte; la credenza del deista a questa verità è ferma, è legittima, è buona; ma non è un atto di fede, perchè non è un atto di ubbidienza alla parola di Dio. Il cattolico può, se lo vuole, acquistare altresì questa stessa certezza naturale; ma egli oltre l'assenso che presta alla vita futura per effetto della dimostrazione che egli ha fatta a se stesso colla sua propria ragione, ci crede ancora perchè Iddio, mediante la Scrittura e la Tradizione, gl'insegna che dopo la morte ai giusti è riserbata una ricompensa, ed ai malvagi una punizione. Il cattolico adunque, se agisce sotto l'impulso della grazia, fa un atto di fede meritorio; il deista fa solo un atto di ragione naturale.

Nel secondo paragrafo si espongono i principali motivi di credibilità su cui si appoggia il credente, ossia si assegnano gl' indizii i più indubitabili, dai quali possiamo con certezza persuaderci che Iddio ha rivelato all'uomo alcune verità, che egli deve credere,

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