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la società non cercasse il modo di appagare tutte le illusioni dell'uomo, perchè la felicità di lui in nulla di reale è riposta; vedeva che ogni oggetto verso cui si lanciava ardentemente gli sfuggiva, perchè troppo inferiore alla grandezza del suo desiderio, e lo lasciava nel disinganno. S'accorgeva perfino ne' suoi studi della mutazione in lui avvenuta: ogni cosa che tenesse di affettuoso e di eloquente lo annoiava e gli sapeva di scherzo e di fanciullaggine ridicola: non cercava altro più fuorchè il vero, quello stesso vero che già tanto aveva odiato e detestato.

Nel 1825 lascia di nuovo il paese natale per recarsi a Milano, dove l'invitava l'editore A. F. Stella per attendere ad un'edizione delle opere intere di Cicerone. Si ferma in Bologna, dove gli pare di trovare cortesia, accoglienze, premure, di cui in Roma non aveva veduto alcun saggio. A Milano tutto gli spiace: il fare magnifico e diplomatico che regna in tutte le relazioni sociali, il nessun carattere locale degli uomini, il clima troppo più rigido che alla sua complessione si potesse convenire, il genere stesso dell'occupazione cui lo Stella lo aveva invitato. Eccolo di nuovo a Bologna, dove egli porta con sè una nuova infermità contratta nel viaggio e non potuta vincere, un'infiammazione d'intestini, e dove, non bastandogli la provvisione datagli dallo Stella, impiega alcune ore del giorno a dare lezioni di latino e di greco. Il desiderio di ritemprarsi negli affetti della famiglia e di attendere più comodamente alla Crestomuzia italiana da lui promessa allo Stella, coll'aiuto della copiosa bibliotoca paterna, lo condusse ancora a Recanati

in sul finire del 1826: ma travagliato continuamente dai suoi malori fisici, sente fra pochi mesi rinascere nell'animo la noia di quel soggiorno e di quella città, e sperando di trovare la salute e la pace in un clima migliore, passa di nuovo a Bologna e due mesi dopo a Firenze, dove i suoi occhi vanno sempre peggiorando e non gli lasciano metter piede fuori della soglia della sua camera. Il clima di Pisa, cui egli cercò nell'inverno, gli permette di passeggiare ogni giorno, di ristorare alquanto le forze; ritorna colla calda stagione in Firenze, dove sente l'impossibilità di applicare a cosa alcuna la sua mente e, accondiscendendo alle reiterate istanze del padre, ritorna nelle sue braccia. Il freddo clima di Recanati accresce la debolezza delle sue forze mentali ed aggiunge alle antiche infermità una grave debolezza dei nervi: ond' egli corre un'altra volta a Firenze, dove rimane dal maggio 1830 fino all'ottobre del 1831, in cui parte per recarsi a Roma, ove passare l'inverno; ma appena giunto, la sua dimora gli pare un esiglio e torna a desiderare Firenze, alla quale rivola il marzo dell'anno seguente, e di là nell'ottobre del 1833 parte per recarsi a Napoli, a ciò consigliato dai medici, che reputavano quel clima poter giovare alla salute di lui più che mai rovinata. Ma ivi egli non fa che provare nuovi dolori, ai quali non trova altro conforto che le cure affettuose dell'amico suo Antonio Ranieri; il suo corpo si va lentamente dissolvendo, finchè la morte lo toglie ai lunghi dolori della vita nell' aprile del 1837.

Di tutti questi stadi della vita del Leopardi si

vedono palesi le tracce nelle sue opere, ma specialmente nelle morali e nelle liriche, le quali più ritengono del soggettivo e maggiormente ci svelano l'animo dello scrittore. Diremo soltanto delle seconde, poichè di esse specialmente si compone questo libro, e perchè l'espressione poetica colla sua terribile potenza dà forma più scolpita e più viva ai sentimenti interiori; alle più antiche delle quali noi risalendo, troveremo il poeta in quella sua prima età di entusiasmo e di vita, quando in lui fervevano potentissime le passioni del sapere, della gloria e dell' amore, e le illusioni danzavano leggiadre innanzi alla sua fantasia. Allora egli cantò le sventure della sua patria e le speranze del risorgimento di lei, e, a destare gli Italiani dal vergognoso letargo ed accenderli nel desiderio di fatti gloriosi e al sacrificio della propria vita pel bene della patria, si fece a ripetere l'inno che Simonide intuonava in onore dei forti caduti con Leonida alle Termopili, inno perduto da secoli, ma che parve dettato al Leopardi dalla stessa magnanima ombra del greco poeta. La novella che i Fiorentini, per riparare all'antica vergogna, volevano innalzare in Santa Croce un degno monumento al padre dell'italiana poesia accese di nobile entusiasmo l'animo suo: ond' egli esortò gli Italiani ad onorare la memoria di quei sommi che di tanta gloria circondavano la patria loro, a cercare nel passato gli esempi di futura virtù e grandezza; pianse la sventura degli Italiani, che avevano versato il loro sangue non pel suolo natale nè per causa italiana, e lasciati i loro cadaveri nelle gelate e deserte pianure della Russia, senza poter offerire alla pa

tria quella vita che da essa avevano ricevuto. In quel medesimo periodo della sua esistenza egli aveva già ordita la tela di alcuni inni cristiani, dalla quale orditura si vede quanto fosse il suo animo negli anni giovanili temperato a pietà e a quell'affetto che poscia, non potendo vincere la lotta colla ragione di lui, si mutò in una fonte perenne di dolori e di amarezze.

E in quell'anno in cui cominciò questa lotta, e la sua mente, per l'infermità degli occhi, più non trovando argomento di studio fuori di sè, cominciò a studiare sè medesima, e all' entusiasmo e alla speranza successero il dolore e il sentimento della nullità delle cose, egli cantava l'infinito e sentiva che il pensiero si annegava nell'immensità di quello, e di questo suo naufragare provava una terribile dolcezza, piangeva il giorno festivo che, desiderato con tanto amore, rapidissimo fugge è cede il suo posto ai giorni volgari e agli umani travagli, e guardando la luna, numerava i giorni trascorsi nel suo dolore, vedeva nei suoi sogni la donna da lui amata e spenta per sempre, e a lei narrava le sventure della sua giovinezza, il desiderio della morte e la stanchezza che il lungo dubitare aveva generato nell' anima sua, e rammentava nella solitudine della vita le gioie passate, il suo odio per l'umana razza, la brama di vivere colla sola compagnia della natura e sedere nei campi, contento che ancor gli avanzasse e cuore e lena per sospirare.

Le infermità che lo travagliarono così acerbamente in tutto il rimanente corso della sua vita, se, com'egli medesimo affermava, non avevano avuto alcuna parte nel condurlo a quella filosofia

e

senza speranza che egli credeva unico frutto della sua intelligenza, concorsero nondimeno a dare a tale sua filosofia una tinta più tetra, a sempre più confermarlo in quella e a condurlo alle estreme conseguenze. Allora egli non vide che un giuoco nelle opere dei mortali, non minore vanità nella menzogna che in quello che chiamasi vero, e nelle illusioni riposto lo stimolo all'operare ed alla virtù: questa virtù maledisse con Bruto minore, e nell'ultimo canto di Saffo disvelò i dolori d'un'anima che sente la potenza del bello, che vede le belle sembianze regnare sul mondo, e sè scorge avvolta in manto deforme, entro il quale la virtù e l'ingegno non possono risplendere della loro luce, desiderò la morte per sottrarsi all' ira del fato e seppellirsi nel nulla; e tutti questi dolori della sua vita raccolse, come nell'ultimo grido dell'anima sua, nella Ginestra, dove tu vedi l'amara ironia deridere i vanti dell'uomo e i sognati progressi e la nullità di quello in faccia della natura, il disprezzo immenso del poeta per esso e pei suoi sogni di felicità, e la persuasione che la vera nobiltà dell'uomo consista nel sollevare arditamente lo sguardo contro il fato comune, nel confessare francamente la miseria e la viltà dell'essere suo, e nel volere che la comunanza dei patimenti sia la cagione dell'amore tra gli uomini e del vicendevole aiutarsi fra loro. La contemplazione dell'immensità della natura accresce nel poeta la pietà, e forse più ancora lo scherno per la picciolezza dell'uomo; la vista del Vesuvio gli rammenta come questa natura in un istante abbia distrutte le opere di molti secoli e tante speranze di eternità e di gloria; e il pensiero che

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