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Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove

Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Ch' alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento

Anni varcâr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal che, nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall' inesausto grembo

Sull'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina;
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo
Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo

Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sopra quei si spiega.
Torna al celeste raggio,

Dopo l'antica oblivïon, l'estinta
Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto fôro

Diritto infra le file

De' mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,

Ch'alla sparsa ruina ancor minaccia,
E nell'orror della secreta notte,

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi, e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face

Che per vôti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia, lochi intorno intorno tinge.

Così, dell'uomo ignara, e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede
Per si lungo cammino

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede;
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che, ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente,

Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio invêr le stelle,
Nè sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler, ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quando le frali
Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.

XXXV.

Imitazione,

Lungi dal proprio ramo, Povera foglia frale,

Dove vai tu? Dal faggio

Là dov'io nacqui mi divise il vento. Esso, tornando a volo

Dal bosco alla campagna,

Dalla valle mi porta alla montagna, Seco perpetuamente

Vo pellegrina e tutto l'altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa,

Dove naturalmente

Va la foglia di rosa

E la foglia d'alloro.

XXXVI.

Scherzo.

Quando fanciullo io venni A pormi con le Muse in disciplina, L'una di quelle mi pigliò per mano E poi tutto quel giorno

La mi condusse intorno

A veder l'officina.

Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell'arte

E i servigi diversi

A che ciascun di loro
S'adopra nel lavoro
Delle prose e de' versi.

Io mirava e chiedea:

Musa, la lima ov'è? Disse la dea:

La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io: Ma di rifarla

Non vi cal, soggiungea, quand' ella è stanca?
Rispose: Hassi a rifar, ma il tempo manca.

XXXVII.

Frammenti.

ALCETA.

:

Odi, Melisso io vo' contarti un sogno
Di questa notte che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all'improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea

Che quanto nel cader s'approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia che stridea

Si forte come quando un carbon vivo
Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegnea annerando a poco a poco,
E ne fumavan l'erbe intorno intorno.

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