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SONETTO IV.

E' fa' gheppio. Su l'anca or lo stramazza,
L'arrovescia e lo sgozza e l'accoltella:
Ve' ch'ancor trema e palpita e balzella,
Guata che le zampacce in aria sguazza.
Qua, chè già 'l sangue spiccia e sgorga e sprazza,
Qua presto la barletta o la scodella;
Reca qualcosa, o secchia o catinella
O'l bugliuolo o la pentola o la cazza;
Corri pel calderotto o la stagnata,

Dà di piglio a la tegghia o a l'orinale;
Presto, dico: il malan che ti disfaccia!
Di molto sangue avea quest' animale:
Mo'fagli fare un'altra scorpacciata,
E di vento l'impregna e l'abborraccia.
Istrigati e ti sbraccia:
Mano speditamente a lo schidone;
Busagli il ventre e 'nzéppavi'l soffione.

SONETTO V.

Senti ch'e' fischia e cigola e strombazza;
Gli è satollo di vento: or lo martella,
E'l dabbudà su l'epa gli strimpella
E ne rintrona il vicolo e la piazza.
Ve'la pelle, al bussar, mareggia e guazza:
Lo spenzola pel rampo a la girella,
Lo sbuccia tutto quanto e lo dipella;
El dissangua, lo sbatti e lo strapazza.
Sbarralo e tra' budella e tra' corata,

Tra' milza, che per fiel più non ammale,
E l'entragno gli sbratta o gli dispaccia:
D'uno or vo' ch'e' riesca una brigata:
Gli affetta l'anca e'l ventre e lo schienale,
E lo smembra, lo smozzica, lo straccia.
Togliete oh! chi s'affaccia:
Ecco carni strafresche; ecco l'argnone;
Vo'mi diciate poi se saran buone.

TRADUZIONE

DELLA

BATRACOMIOMACHIA

(1826)

CANTO PRIMO.

Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l'eliconie cime

Prego, vergini dee, concilio santo,
Che'l mio stil conduciate e le mie rime;
Di topi e rane i casi acerbi e l'ire,

Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.
La cetra ho in man, le carte in grembo: or date
Voi principio e voi fine a l'opra mia:
Per virtù vostra a la più tarda etate
Suoni, o dive, il mio carme; e quanto fia
Che in questi fogli a voi sacrati io scriva
In chiara fama eternamente viva.

I terrigeni eroi, vati giganti,
Di que' topi imitò la schiatta audace:
Di dolor, di furor caldi, spumanti
Vennero in campo: e, se non è fallace
La memoria e 'l romor ch'oggi ne resta,
La cagion de la collera fu questa.

Un topo, de le membra il più ben fatto, Venne d'un lago in su la sponda un giorno. Campato poco innanzi era d'un gatto Ch'inseguíto l'avea per quel dintorno: Stanco faceasi a ber, quando un ranocchio, Passando da vicin, gli pose l'occhio,

E, fatto innanzi, con parlar cortese,
Che fai, disse, che cerchi, o forestiero!
Di che nome sei tu, di che paese?
Onde vieni? ove vai? Narrami il vero,
Chè se buono e leal fia ch'io ti veggia,
Albergo ti darò nella mia reggia.
lo guida ti sarò; meco verrai
Per quest' umido calle al tetto mio:
Ivi ospitali egregi doni avrai;
Che Gonfiagote il principe son io,
Ho nello stagno autorità sovrana,
E m'obbedisce e venera ogni rana:

Chè de l'acque la dea mi partoriva, Poscia ch'un giorno il mio gran padre Limo Le giacque in braccio a l'Eridano in riva. E tu m'hai del ben nato: a quel ch'io stimo, Qualche rara virtute in te si cela;

Però favella e l'esser tuo mi svela.

E' topo a lui: Quel che saper tu brami Il san gl'iddii, sallo ogni fera, ogni uomo. Ma poi che chiedi pur com'io mi chiami, Dico che Rubabriciole mi nomo:

Il padre mio, signor d'anima bella,
Cor grande e pronto, Rodipan s'appella.
Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato re Mangiaprosciutti.
Con letizia comun de la famiglia
Mi partori dentro una buca; e tutti
I più squisiti cibi e noci e fichi

Fûro il mio pasto a que' bei giorni antichi.
Che d'ospizio consorte io ti diventi,
Esser non può: diversa è la natura.
Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti:
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Frugar per tutto, a tutto porre il muso
E viver d'uman vitto abbiamo in uso.

Rodo il più bianco pan, ch'appena cotto, Dal suo cesto, fumando a sè m'invita; Or la tortella, or la focaccia inghiotto Di granelli di sesamo condita; Or la polenta ingrassami i budelli, Or fette di prosciutto or fegatelli.

Ridotto in burro addento il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Cerco cucine, visito pignatte

E quanto all'uomo apprestasi da cena,
Ed or questo or quel cibo inzuccherato
Cred'io che Giove invidî al mio palato.

Nè pavento di Marte il fiero aspetto;
E se pugnar si dee, non fuggo o tremo.
De l'uom anco talor balzo nel letto,
De l'uom ch'è sì membruto, ed io nol temo:
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir nè se n'avvede.
Due cose io temo: lo sparvier maligno
El gatto, contra noi sempre svegliato.
S'avvien che 'l topo incorra in quell'ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma più che mai del gatto abbiam paura;
Arte non val con lui, non val fessura.
Non mangiam ravanelli o zucche o biete:
Questi cibi non fan pel nostro dente.
A voi, che di null'altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente.
Rise la rana e disse: Hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose,
E ne li stagni loro e fuor de l'onde.
Ciascun di noi su per le rive erbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde;
Però ch'al gener mio dal ciel fu dato
Nôtar ne l'acqua e saltellar nel prato.

Saper vuoi se'l nôtar piaccia o non piaccia?
Montami in su le spalle: abbi giudizio;
Sta' saldo; al collo stringimi le braccia,
Per non cader ne l'acqua a precipizio;
Così verrai per questa ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia.

Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva e seco trasportollo.
Rideva il topo e rise malaccorto
Finchè si vide ancor vicino al porto.
Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio: si pentì, turbossi,
Fortemente stringevasi a la rana;
Sospirava, piangea, svelleva i crini,
Or sè stesso accusando, ora i destini.
Voti a Giove faceva, pregava il cielo
Che soccorso gli desse in quell'estremo.
Tutto bagnato di sudore il pelo,

Stese la coda in acqua e, come un remo,
Dietro la si traea, girando l'occhio
Or a' lidi, or a l'onde, or al ranocchio.

E diceva tra sè: Che reo cammino,
Misero, è questo mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? quel bue divino
A vie minor periglio Europa in Creta
Portò per mezzo il torbido oceáno
Che mi porti costui per un pantano.
E qui dal suo covil, con larghe rote,
Ecco un serpe acquaiolo esce a fior d'onda.
Irrigidisce il sorcio; e Gonfiagote
Là dove la palude è più profonda
Fugge a celarsi e 'l topo sventurato
Abbandona fuggendo a l'empio fato.

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