Chiamata fosti e lamentata e pianta! Come al nome d'Elvira, in cor gelando, Impallidir: come tremar son uso All' amaro calcar della tua soglia, A quella voce angelica, all'aspetto Di quella fronte, io ch'al morir non tremo! Ma la lena e la vita or vengon meno Agli accenti d'amor. Passato è il tempo, Nè questo di rimemorar m'è dato. Elvira, addio. Con la vital favilla La tua diletta imagine si parte
Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave Non ti fu quest' affetto, al mio ferétro Domani all'annottar manda un sospiro. Tacque: nè molto andò che a lui col suono Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo Suo di felice gli fuggía dal guardo.
Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara,
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età prepose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t'amasse in terra, a lui pur fôra Queste viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora Seguir lode e virtù qual ne' prim' anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saría
Simile a quella che nel cielo indía. Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona; E per li poggi ov'io rimembro e piagno I perduti desiri e la perduta
Speme de' giorni miei, di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess' io, Nel secol tetro e in questo äer nefando, L'alta specie serbar; chè dell'imago, Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra ne' superni giri Fra mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti brevi Questo d'ignoto amante inno ricevi.
Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L'ozio che ti lasciâr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni unano stato, ozio la vita,
Se quell' oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all'intento Giugner mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l'alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per sè sola
La vita all' uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Chè non a sè, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pur all' aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque D'esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opre e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All'umana famiglia; onde agitato E confuso il desío, men loco avesse Al travagliarne il cor. Così de' bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desio d'esser beati a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo Nè la lentezza accagionar dell' ore.
Ma nci, che il viver nostro all'altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita; improba, invitta Necessità, cui. non tesoro accolto, Non di greggi dovizia o pingui campi, Non aula puote, e non purpureo manto Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno I vôti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l'omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In sè stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell' una, Cui natura apprestò, mal si compensa. Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale e le piazze romorose, e gli orti; Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi! ma nel petto, Nell' imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir vôlto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L'età spendendo, e mari e poggi errando, Tutto l'orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all' uom negl' infiniti Campi del tutto la natura aperse Peregrinando aggiunge. Ahi ahi! s'asside Su l'alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno Felicità; vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di Marte
Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
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