Con proprio nome il ver, non altro in somma E non pur ne' civili ordini e modi, Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume Dell' età ch' or si volge! E che sicuro Filosofar, che sapïenza, o Gino, In più sublimi ancora e più riposti Subbietti insegna ai secoli futuri Il mio secolo e tuo! Con che costanza Quel che ieri scherni, prosteso adora Oggi, e domani abbatterà, per girne Raccozzando i rottami, e per riporlo Tra il fumo degl' incensi il di vegnente! Quanto estimar si dee, che fede inspira Del secol che si volge, anzi dell'anno, Il concorde sentir! con quanta cura Convienci a quel dell' anno, al qual difforme Fia quel dell' altro appresso, il sentir nostro Comparando, fuggir che mai d' un punto Non sien diversi! E di che tratto innanzi, Se al moderno si opponga il tempo antico, Filosofando il saper nostro è scorso! Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco Di poetar maestro, anzi di tutte Scienze ed arti e facoltadi umane, E menti che fur mai, sono e saranno, Dottore, emendator, lascia, mi disse, I propri affetti tuoi. Di lor non cura Questa virile età, vôlta ai severi Economici studi, e intenta il ciglio Nelle pubbliche cose. Il proprio petto Esplorar che ti val? Materia al canto Non cercar dentro te. Canta i bisogni Del secol nostro, e la matura speme. Memorande sentenze! ond' io solenni Le risa alzai quando sonava il nome Della speranza al mio profano orecchio Quasi comica voce, o come un suono Di lingua che dal latte si scompagni. Or torno addietro, ed al passato un corso Contrario imprendo, per non dubbi esempi Chiaro oggimai ch' al secol proprio vuolsi · Non contraddir, non repugnar, se lode Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente Adulando ubbidir: così per breve Ed agiato cammin vassi alle stelle. Ond' io, degli astri desioso, al canto Del secolo i bisogni omai non penso Materia far; chè a quelli, ognor crescendo, Provveggono i mercanti e le officine Già largamente; ma la speme io certo Dirò, la speme, onde visibil pegno Già concedon gli Dei; già, della nova Felicità principio, ostenta il labbro De' giovani, e la guancia, enorme il pelo. La terra e il ciel, come sfavilla il guardo Cresci, cresci alla patria, o maschia certo Dalle foci del Tago all' Eilesponto XXXIII. IL TRAMONTO DELLA LUNA. Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti Fingon l'ombre lontane Infra l'onde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell' infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l'ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con mesta melodia, Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l' età mortale La giovinezza. In fuga Van l'ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, Ove s' appoggia la mortal natura. Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Del cammin lungo che avanzar si sente Ch'a se l'umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta Nostra misera sorte Parve lassù, se il giovanile stato, Quel che sentenzia ogni animale a morte, Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura. Degno trovato, estremo Di tutti i mali, ritrovâr gli eterni Incolume il desio, la speme estinta, Secche le fonti del piacer, le pene Maggiori sempre, e non più dato il bene. Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all' occidente Orfane ancor gran tempo Non resterete, chè dall' altra parte Imbiancar novamente, e sorger l'alba: |