Questo giorno ch' omai cede alla sera, Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, Che rimbomba lontan di villa in villa. La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; Rimota parte alla campagna uscendo, Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell' aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Cadendo si dilegua, e par che dica Tu, solingo augellin, venuto a scra Non ti dorrai; chè di natura è frutto A me, se di vecchiezza Quando muti questi occhi all' altrui core, Che di quest'anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro. XII. L'INFINITO. Sempre caro mi fu quest' ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell' ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quïete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento* Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l' eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s' annega il pensier mio; E il naufragar m' è dolce in questo mare. XIII. LA SERA DEL DÌ DI FESTA. Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, chè t'accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai nè pensi Quanta piaga m' apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si benigno Appare in vista, a salutar m' affaccio, E l'antica natura onnipossente, Che mi fece all' affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da' trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch'io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi In così verde etade! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell' artigian, che riede a tarda notte, Al pensar come tutto al mondo passa, LEOPARDI Opere. — 1. XIV. ALLA LUNA. O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venía pien d'angoscia a rimirarti : E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparía, chè travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l'affanno duri! |