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Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse

Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro

Di sconsolato grido

L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa

Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l'aratro ·
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien vôlti e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta della patrie cose
Oblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre, oggi s'onora.
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che. ne' perigli avvolta,
Sè stessa oblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che, il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.

IV.

BRUTO MINORE.

Poi che divelta nella tracia polve
Giacque ruina immensa

L'italica virtude, onde alle valli
D'Esperia verde e al tiberino lido
Il calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme

A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi,

Sudato e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,,

E di feroci note

Invan la sonnolenta aura percote,

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Dell' inquiete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi marmorei numi
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi), a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,

Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi

Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, de'necessari danni

Si consola i plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?

Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,

Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato.

L'amaro ferro intride

E maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fôra

Tanto valor ne'molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti

Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,

Ma libera ne' boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,

Reina un tempo e diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,

E il viver macro ad altre leggi addisse; Quando gl'infausti giorni

Virile alma ricusa,

Riede natura e il non suo dardo accusa?
Di colpa ignare e de' lor propri danni
Le fortunate belve

Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Ne'rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra
Lor suadesse affanno,

Al misero desio nulla contesa
Legge arcaná farebbe

O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometéo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,

Se il fato ignavo pende,

Soli, o miserf, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi,

E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;

Tu si placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole e gli anni

Lieti vedesti e i memorandi allori;

E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome

Sotto barbaro piede

Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l'augello,

Del consueto oblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,

Al mattutino canto

Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe

Agiterà delle minori belve.

Oh casi! oh gener vano! abbietta parte Siam delle cose; e non le tinte glebe Non gli ululati spechi

Turbò nostra sciagura,`

Nè colorò le stelle umana cura.
Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi o la terra indegna,

E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placar singulti, ornâr parole e doni
Di vil caterva? In peggio

Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti

L'onor d'egregie menti e la suprema
De' miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo

Tratti l'ignota spoglia;

E l'aura il nome e la memoria accoglia.

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