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XII.

ALLA PRIMAVERA

O DELLE FAVOLE ANTICHE

Perchè i celesti danni

Ristori il sole, e perchè l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme

Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede

La bella età cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse

Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di Febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,

Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara

Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi, tu, vivi, o santa

Natura? vivi, il dissueto orecchio

Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi

Scossero e l'ardue selve (oggi romito Nido de' venti): e il pastorel ch'all' ombre Meridiane incerte ed al fiorito

Margo adducea de' fiumi

Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani

Udi lungo le ripe, e tremar l'onda
Vide, e stupi che non palese al guardo
La faretrata diva

Scendea nei caldi flutti e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia

Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,

Vissero i boschi un di. Conscie le molli
Aure, le nubi e da titania lampa

Fur dell'umana gente allor che ignuda
Te per le piaggie e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte

Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò. Che se, gl' impuri
Cittadini consorzi le fatali

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Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remote accolse,

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Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso

Dafne e la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole
Quel che sommerse in Eridano il sole.
Nè dell'umano affanno,

Rigide balze, i luttuosi accenti

Voi negletti ferir mentre le vostre

Paurose latebre Eco solinga,

Non vano error de' venti,

Ma di ninfa abitò misero spirto
Cui grave amor, cui duro fato escluse
Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,
Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
Nostre querele al curvo

Etra insegnava. E te d'umani eventi
Disse la fama esperto,

Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell'alto

Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro

Il gener tuo; quelle tue varie note
Dolor non forma, e te di colpa ignudo
Men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote

Son le stanze d' Olimpo, e cieco il tuono,
Per l'atre nubi e le montagne errando,
Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo e di sua prole ignaro
Le meste anime educa,

Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,

Vaga natura e la favilla antica

Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri affanni

Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno.

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E voi de' figli dolorosi il canto,
Voi dell'umana prole incliti padri,
Lodando ridirà;'molto all'eterno
Degli astri agitator più cari e molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell'eterno lume assai più dolci
Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error, che l'uman seme alla tiranna
Possa de' morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe de'figli, e irrequieto ingegno,
E demenza maggior l'offeso Olimpo
N'armaro incontra e la negletta mano
Dell' altrice natura; onde la viva
Fiamma n'increbbe, e detestato il parto
Fu dal grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.

Tu primo il giorno e le purpuree faci
Delle rotanti sfere e la novella
Prole de'campi, o duce antico e padre
Dell' umana famiglia, e tu l'errante

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Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l'alpina onda fería
D'inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose ignota
Pace regnava, e gl'inarati colli
Solo e muto accendea l'aprico raggio
Di Febo e l'aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale,
D'amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida e l'ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profónde selve ira de' venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza 7; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne' consorti ricetti: onde negata
L'improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò; ne'corpi inerti
Domo il vigor natio, languide ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.

E tu dall'etra infesto e dal mugghiante Su i nubiferi gioghi equoreo flutto. Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima Dall'aer cieco e da'natanti poggi

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