Segno arrecò d'instaurata spene La candida colomba; e dell'antiche Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo, L'atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl'inaccessi Regni del mar vendicatore illude Profana destra, e la sciagura e il pianto A novi liti e nove stelle insegna. Or te, padre de' pii, te giusto e forte, E di tuo seme i generosi alunni Medita il petto mio. Dirò siccome Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre Del riposato albergo, appo le molli Rive del gregge tuo nutrici e sedi, Te de' celesti peregrini occulte Beâr l'eteree menti, e quale, o figlio Della saggia Rebecca, in su la sera, Presso al rústico pozzo e nella dolce Di pastori e di lieti ozi frequente Aranitica valle, amor ti punse Della vezzosa Labanide: invitto Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni E di servaggio all'odïata soma Volonteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (nè d'error vano e d'ombra L'aonio canto e della fama il grido Pasce l'avida plebe) amica un tempo Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili
Ne guidasse per gioco i lupi al, fonte Il pastorel; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse l'umana stirpe; alle segrete Leggi del cielo e di natura indutto Valse l'ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e, di sperar contenta, Nostra placida nave in porto ascese. Tal fra le vaste californie selve Nasce beata prole a cui non sugge Pallida cura il petto, a cui le membra Fera tabe non doma; e vitto il bosco, Nidi l'ultima rupe, onde ministra L'irrigua valle, inopinato il giorno Dell'atra morte incombe, Oh contra il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri E le quiete selve apre l'invitto Nostro furor; le violate genti Al peregrino affanno, agl'ignorati Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l'imo sole incalza 8.
Placida notte, e verecondo, raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care, Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato.
Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l'insueto allor gaudio ravviva Quando per l'etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de' noti, e quando il carro, Grave carro di Giove, a noi sul capo Tonando il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra' nembi, e noi la vasta Fuga de' greggi sbigottiti o d'alto Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi! di cotesta Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia Sorte non fenno. A'tuoi superbi regni Vile, o Natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L'aprico margo e dall'eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De' colorati augelli, e non de' faggi Il murmure saluta: e dove all'ombra Degl' inclinati salici dispiega Candido riyo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose ninfe Disdegnando sottragge
E preme in fuga l'adorate spiagge.
Qual fallo mai, qual si nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde si torvo Il ciel mi mosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi, scemo Di giovinezza e disfiorato, al fuso Della indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De' celesti si posa. Oh core, oh speme De' più verd' anni! Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto Morremo; il velo indegno a terra sparto, Rifuggirà l'ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de' casi. E tu cui lungo Amore indarno e lunga fede e vano D'implacato desio furor mi strinse, Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl' inganni e il sogno Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo e la vecchiezza e l'ombra
Della gelida morte. Ecco, di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno Han la tenaria diva
E l'atra notte e la silente riva.
Tornami a mente il di che la battaglia D'amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia! Che gli occhi al suo tutt'ora intenti e fissi, Io mirava colei ch'a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! Perchè seco dovea si dolce affetto Recar tanto desio, tanto dolore? E non sereno e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t'era noia ogni contento? Quel pensier che nel di che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell'emisfero : Tu inquieto, e felice e miserando, M'affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato è stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e delirio il sonno venia manco." Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplayan sotto alle palpebre!
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