Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L'ozio che ti lasciâr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell' oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all'intento Giugner mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l'alba tranquilla e vede il vespro, Se ozïosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per sè sola
La vita all'uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Chè non a sè, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pur all' aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal di che il mondo nacque D'esser beati sospiraro indarno,
Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opre e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All' umana famiglia; onde agitato E confuso il desio men loco avesse Al travagliarne il cor. Cosi de' bruti La progenie infinita, à cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desio d'esser beati, a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo Nè la lentezza accagionar dell'ore.,
Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar' la vita; improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, Non di greggi dovizia o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Soltrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno I vôti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l'omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto, In sè stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell' una Cui natura apprestò mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale e le piazze romorose e gli orti; Lui giochi e cene e invidiate danze Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi! ma nel petto, Nell' imo petto, grave, salda, immota Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir vôlto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L'età spendendo, e mari e poggi errando, Tutto l'orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all'uom negl' infiniti Campi del tutto la natura aperse Peregrinando aggiunge. Ahi ahi! s'asside Su l'alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, și chiama indarno Felicità; vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di Marte Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi Chi d'altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far sè men tristo, Si che nocendo usar procaccia il tempo; E chi virtude o sapienza ed arti Perseguitando; e chi la propria gente Conculcando e l'estrane, o di remoti Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi e con le frodi La destinata sua vita consuma.
Te più mite desio, cura più dolce Regge nel fior di gioventù, nel bello April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto A chi patria non ha. Te punge e move Studio de' carmi e di ritrar parlando Il bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che, più benigna Di natura e del ciel, fecondamente A noi la vaga fantasia produce,
E il nostro proprio error. Ben mille volte Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro imaginar non perde Per volger d'anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Cosi come solea nell' età. verde,
In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva. A te conceda Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favella che il petto oggi ti scalda Di poesia canuto amante. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento e dileguar dagli occhi Le dilettose imagini che tanto Amai, che sempre infino all'ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi i cor; quando mi fia Ogni beltade, o di natura o d'arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch' io riponga L'ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell'eterne cose; a che prodotta, A che d'affanni e di miserie carca L'umana stirpe; e quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi; Con quali ordini e leggi, a che si volva Questo arcano universo, il qual di lode Colmano i saggi, io d'ammirar son pago. In questo specolar gli ozi traendo Verrò: chè, conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se, del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, chè già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento, Vana diva non pur, ma di fortuna E del fato e d'amor diva più cieca.
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