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Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir, di voi per certo
Risovverammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del di fatal tempererà d'affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell'acqué
La speme e il dolor mio. Poscià, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovinezza e il fiore
De' miei poveri di che si per tempo
Cadeva e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,

Lamentai co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni,
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tàce,

Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'an lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro

Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovinezza, ahi! giovinezza è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, Chè qui sola di te la ricordanza Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede Questa terra natal: quella finestra Ond' eri usata favellarmi, ed onde Mesto riluce delle stelle il raggio, È deserta. Ove sei, chè più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno, Quando soleva ogni lontano accento Dal labbro tuo ch'a me giungesse, il volto Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi Fûro, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito E l'abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Ivi danzando, in fronte La gioia ti splendea; splendea negli occhi Quel confidente imaginar, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna L'antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, intra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento

Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi! tu passasti, eterno
Sospiro mio; passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago imaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA ".

Che, fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

Sorgi la sera e vai,

Contemplando i deserti, indi ti posi..
Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore,

Move la greggia oltre pel campo e vede

Greggi, fontane ed erbe,

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,

Per sassi acuti ed alta rena e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu vôlto:
Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

11 prende a consolar dell'esser nalo.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da' parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al Sole,

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,

Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che si pensosa sei, tu forse intendi
Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,

E perir della terra e venir meno
Ad ogni usata amante compagnia.
E tu certo comprendi

Il perchè delle cose e vedi il frutto
Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri
Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand' io ti miro

Star cosi muta in sul deserto piano
Che, in suo giro lontano, al ciel confina,
Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita e quel profondo

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