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Giovinezza sparì, non si colora

D'altra luce giammai nè d'altra aurora.
Vedova è insino al fine, ed alla notte
Che l'altre etadi oscura

Segno poser gli dêi la sepoltura.

XXXIV.

LA GINESTRA.

O IL FIORE DEL DESERTO.

Καὶ ηγάπησαν οἱ άνθρωποι μᾶλλον τὸ σκέτος ἢ τὸ φῶς.

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

GIOVANNI, III, 19.

Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor nè fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti. Anco ti vidi

De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

Che cingon la cittade,

La qual fu donna de' mortali un tempo
E del perduto impero

Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi

Di ceneri infeconde e ricoperti
Dell'impietrata lava

Che sotto i passi al peregrin risona,
Dove s'annida e si cortorce al sole
La serpe, e dove al noto

Cavernoso covil torna il coniglio,
Fûr liete ville e colti,

E biondeggiår di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;

Fûr giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti

Gradito ospizio; e fûr città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve;

Dove tu siedi, o fior gentile, e, quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'innalzar con lede

Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

LEOPARDI, Poesie.

9

Son dell' umana gente

Le magnifiche sorti e progressive 12.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e, vôlti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,

E procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti
Di cui la sorte rea padre ti fece
Vanno adulando, ancora

Ch'a ludibrio talora

T'abbian fra sè. Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra:
E ben facil mi fôra

Imitar gli altri e, vaneggiando in prova,
Farmi agli orecchi tuoi cantando accetto:
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio

Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Bench'io sappia che oblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo un tempo Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Dalla barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.

Cosi ti spiacque il vero

Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume

Che il fe' palese; e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che, sè schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme,
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sè nè stima
Ricco d'ôr nè gagliardo,

E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sè di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto

Quel che, nato a perir, nutrito in pene,

Dice, A goder son fatto,

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge si ch'avanza

A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella

Ch'a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte

E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sè nel soffrir, nè gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Nel suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
È madre in parto ed in voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,

Siccom'è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,

Tutti fra sè confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

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