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Conversar cittadino,

E giustizia e pietade altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo

Cosi star suole in piede

Quale star può quel c' ha in error la sede.
Sovente in queste piagge,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa,

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vôto seren brillare il mondo;
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo, ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto: e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Quel che ieri scherni, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami per riporlo
Tra il fumo degl' incensi il di vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell'anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell'anno, al qual difforme
Fia quel, dell'altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d'un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!

Un già de'tuoi, lodato Gino, un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi unane
E menti che fûr mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, Lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, vôlta ai severi
Economici studi e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro e la matura speme.
Memorande sentenze! ond' io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagui.
Or torno addietro ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi
Non contradir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente

Adulando ubbidir; così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond'io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; 'chè a quelli, ognor crescendo,
Provvegono i mercanti e le officine
Già largamente: ma la speme io certo
Dirò, la speme onde visibil pegno
Già concedon gli dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.
Oh! salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s'allegra

La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de' barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta

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Dalle foci del Tago all' Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl' ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì, nè ti spauri
L'innocuo nereggiar de' cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar cittadi e ville,
Vecchiezza, gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

XXXIII.

IL TRAMONTO DELLA LUNA.

Quale in notte solinga,

Sovra campagne inargentate ed acque,
Là've zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l'ombre lontane
Infra l'onde tranquille

E rami e siepi e collinette e ville,
Giunta al confin del cielo,

Dietro Apennino od Alpe o del Tirreno
Nell' infinito seno

Scende la luna, e si scolora il mondo;

Spariscon l'ombre, ed una

Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,

E, cantando con mesta melodia,
L'estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,

Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua e tale

Lascia l'età mortale

La giovinezza. In fuga

Van l'ombre e le sembianze

Dei dilettosi inganni; e vengon meno

Le lontane speranze

Ove s'appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

Resta la vita. In lei porgendo il guardo,

Cerca il confuso viatore invano

Del cammin lungo che avanzar si sente

Meta o ragione; e vede

Ch'a sè l'umana sede,

Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte

Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto

Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S'anco mezza la via

Lor non si desse in pria,

Della terribil morte assai più dura.
D'intelletti immortali

Degno trovato, estremo

Di tutti i mali, ritrovâr gli eterni

La vecchiezza, ove fosse

Incolume il desio, la speme estinta,

Secche le fonti del piacer, le pene

Maggiori sempre e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,

Caduto lo splendor che all'occidente
Inargentava della notte il velo,

Orfane ancor gran tempo

Non resterete, chè dall'altra parte
Tosto vedrete il cielo

Imbiancar novamente,

e sorger l'alba:

Alla qual poscia seguitando il sole

E folgorando intorno

Con sue fiamme possenti,

Di lucidi torrenti

Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella

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