Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia, Ond'ella fosse svelta, in cotal guisa

Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

MELISSO.

E ben hai che temer, chè agevol cosa
Fôra cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA.

Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle ?

MELISSO.

Egli ci ha tante stelle
Che picciol danno è cader l'una o l'altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.

XXXVIII:

Io qui, vagando al limitare intorno,
Invan la pioggia invoco e la tempesta,
Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggia nella foresta,
E muggia tra le nubi il tuono errante,
Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
Parte la donna mia: pietà! se trova
Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova
Di sommergermi, o nembi, insino a tanto
Che il sole ad altre terre il di rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia
Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

XXXIX.

Spento il diurno raggio in occidente,
E queto il fumo delle ville, e queta
De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, vólta all'amorosa meta,
Si ritrovò nel mezzo ad una landa
Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.
Spandeva il suo chiaror per ogni banda
La sorella del sole e fea d'argento
Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda..
I ramuscelli ivan cantando al vento,
E in un con l'usignuol che sempre piagne
Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.
Limpido il mar da lungi, e le campagne
E le foreste e tutte ad una ad una
Le cime si scoprian delle montagne.

In questa ombra giacea la valle bruna, E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento, che gli odori spande,
Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:
Piacer prendea di quella vista, e il bene
Che il cor le prometteva era più grande.
Come fuggiste, o belle ore serene!
Dilettevol guaggiù null'altro dura
Nè si ferma giammai, se non la spene.
Ecco turbar la notte, e farsi oscura
La sembianza del ciel, ch'era si bella,
E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti e crescea tanto
Che più non si scopria luna nè stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto E salir su per l'aria a poco a pocoE far sovra il suo capo a quella ammanto. Veniva il poco lume ognor più fioco; E intanto al bosco si destava il vento, Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento, Tal che a forza era desto e svolazzava Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava
Vêr la marina sì che l'un suo lembo
Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.
Già tutto a cieca oscuritade in grembo,
S'incominciava udir fremer la pioggia,
E il suon cresceva all'appressar del nembo.
Dentro le nubi in paurosa foggia
Guizzavan lampi e facean batter gli occhi,
E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.
Discior sentia la misera i ginocchi;
E già muggiva il tuon simile al metro
Di torrente che d'alto in giù trabocchi.
Talvolta ella ristava e l'äer tetro
Guardava sbigottita, e poi correa,

Si che i panni e le chiome ivano addietro.
E il duro vento col petto rompea,
Che gocce fredde giù per l'aria nera
In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,
Rugghiando orribilmente e senza posa;
E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogni intorno era terribil cosa
Il volar polve e frondi e rami e sassi,
E il suon che imaginar l'alma non osa.
Ella, dal lampo affaticati e lassi

Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,
Gia pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno Ardendo si ch'alfin dallo spavento Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento Si spense il lampo, e tornò buio l'etra, Ed acchetossi il tuono, e stette il vento. Taceva il tutto; ed ella era di pietra.

XL.

DAL GRECO DI SIMONIDE.

Ogni mondano evento

È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento

Ogni cosa dispone.

Ma di lunga stagione

Nostro cieco pensier s'affanna e cura,

Benchè l'umana etate,

Come destina il ciel nostra ventura,

Di giorno in giorno dura.

La bella speme tutti ci nutrica

Di sembianze beate,

Onde ciascuno indarno s'affatica:

Altri l'aurora amica,

Altri l'etade aspetta;

E nullo in terra vive

Cui nell'anno avvenir facili e pii

Con Pluto gli altri iddii

La mente non prometta.

Ecco pria che la speme in porto arrive,

Qual da vecchiezza è giunto

E qual da morbi al bruno Lete addutto;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri, consunto
Da negre cure, o tristo nodo al collo
Circondando, sotterra si rifugge.
Così di mille mali

I miseri mortali

Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma, per sentenza mia,

Uom saggio e sciolto dal comune errore
Patir non sosterría,

Nè porrebbe al dolore

Ed al mal proprio suo cotanto amore.

XLI.

DELLO STESSO.

Umana cosa picciol tempo dura,
E certissimo detto

Disse il veglio di Chio,
Conforme ebber natura
Le foglie e l'uman seme.
Ma questa voce in petto
Raccolgon pochi. All'inquieta speme,

Figlia di giovin core,

Tutti prestiam ricetto.
Mentre è vermiglio il fiore

Di nostra etade acerba

L'alma vota e superba

« ÖncekiDevam »