Era maggio, che amor çon vita infonde, E il cuculo cantar s'udia lontano, Misterioso augel che per profonde Selve sospira in suon presso che umano, E qual notturno spirto erra e confonde Il pastor che inseguirlo anela invano, Nè dura il cantar suo, che in primavera Nasce e il trova l'ardor venuto a sera. Come ad Ulisse ed al crudel Tidide, Quando ai novi troiani alloggiamenti Ivan per l'ombre della notte infide, Rischi cercando e insoliti accidenti, Parve l'augel che si dimena e stride, Segno, gracchiando, di felice eventi Arrecar da Minerva, al cui soccorso L'uno e l'altro, invocando, era ricorso; Non altrimenti, il topo, il qual solea Voci e segni osservar con molta cura, Non so già da qual nume o da qual dea Topo o topessa o di simil natura, Sperò certo, e mestier gliene facea Per sollevare il cor della paura
Che il cuculo, che i topi han per divino, Nunzio venisse di non reo destino.
Ma già dietro boschetti e collicelli Antica e stanca in ciel salía la luna E su gli erbosi dorsi e i ramoscelli, Spargea luce manchevole e digiuna, Nè manifeste l'ombre a questi e quelli Dava nè ben distinte ad una ad una; Le stelle nondimen tutte copria E disiata al peregrin venia.
Pur, come ai topi il lume è poco accetto, Di lei non molto rallegrossi il conte, Il qual, trottando a piè, siccome ho detto, Ripetea per la valle e per lo monte
L'orme che dianzi, di fuggir costretto, Impresse, avea con zampe assai più pronte; E molti il luogo or danni, ora spaventi Di quella fuga gli rendea presenti.
Ma pietà sopra tutto è disconforto Moveagli, a ciascun passo, in sul cammino, O poco indi lontan, vedere o morto O moribondo qualche topolino,
Alcun da piaghe ed alcun altro scorto Dalla stanchezza al suo mortal destino, A cui con lo splendor languido e scemo Parea la luna far l'onore estremo.
Cosi, muto, volgendo entro la testa Profondi filosofici pensieri
E chiamando e sperando alla funesta Discordia delle stirpi e degl'imperi Medicina efficace, intera e presta Dai giornalisti d'ambo gli emisferi, Tanto andò che la notte, a poco a poco Cedendo, al tempo mattutin diè loco. Tutti desti cantando eran i galli Per le campagne e gli augelletti ancora Ricominciando insiem gli usati balli Su per li prati al mormorar dell'ora, E porporina i sempiterni calli Apparecchiava al di la fresca aurora. Nè potea molto star che all'orizzonte Levasse il re degli anni alta la fronte; Quando da un poggio il topo, rimirando Non molto avanti in giù nella pianura, Vide quel che, sebbene iva cercando, Voluto avria che fosse ancor futura La vista sua, ch'or tutto l'altro in bando Parve porre dal cor che la paura
Non sol per sè, ma parte e maggiormente Perchè pria del creduto era presente.
Vide il campo de' granchi, il qual, fugate Ch'ebbe de' topi le vincenti schiere, Ver Topaia,. là dove indirizzate S'eran le fuggitive al suo parere, Deliberossi, andando a gran giornate, Dietro quelle condurre armi e bandiere; E seguitando lor, men d'una notte Distava ond'esse il corso avea condotte. Tremava il conte, e già voltato il dosso Aveano i servi alla terribil vista; E muro non avria, non vallo o fosso Tenuto quella gente ignava e trista: Ma il conte, sempre all'onor proprio mosso, Come fortezza per pudor s'acquista, Fatto core egli pria, sopra si spinse Gridando ai servi ed a tornar gli strinse; E visto verdeggiar poco lontano Un uliveto, entrâr subito in quello, E del verde perpetuo con la mano O con la bocca côlto un ramicello, E sceso ciaschedun con esso al piano, Sentendo un gelo andar per ogni vello E digrignando per paura i denti, Vennero agl'inimici alloggiamenti.
Non se n'erano appena i granchi accorti Quando lor furo addosso, e con gli ulivi Stessi, senza guardar dritti nè torti, Voleano ad ogni patto ingoiar vivi, O gli avrian per lo men subito morti, Se in difesa de' miseri e cattivi
Non giungeva il parlar che con eterna Possanza il mondo a suo piacer governa. Perchè, quantunque barbaro e selvaggio De' granchi il favellar, non fu celato Al conte, ch'okre al far più d'un viaggio, Sendo per diplomatico educato,
Com'or si dice, aveva ogni linguaggio Per istudio e per pratica imparato E i dialetti ancor di tutti quanti, Tal ch'era nelle lingue un Mezzofanti. Dunque con parolette e con ragioni A molcer cominciò que' ferrei petti, Che da compagni mai nè da padroni Appresi non avean si dolci detti Nè sapean ch'altra gente i propi suoni Parlar potesse de' lor patri tetti, E si pensaro andar sotto l'arnese Di topo un granchiolin del lör paese. Per questo e per veder che radicati Leccafondi sul naso avea gli occhiali, Arme che in guerra mai non furo usati Nè gli uomini portar nè gli animali, Propria insegna ed onor di letterati Essendo da principio, onde ai mortali Più d'iride o d'olivo o d'altro segno Di pace e sicurtà son certo pegno, Dal sangue per allor di quegli estrani Di doversi astener determinaro; E legati così come di cani
O di qualche animal feroce Non fecer mai pastori o cerretani,
A sghembo, all'uso lor, gli strascinaro Al general di quei marmorei lanzi, Gente nemica al camminare innanzi. Brancaforte quel granchio era nomato, Scortese a un tempo e di servile aspetto: Dal qual veduto il conte e dimandato Chi fosse, onde venuto, a qual effetto, Rispose che venuto era legato
Del proprio campo; e ben legato e stretto Era più che mestier non gli facea.
Ma scherzi non sostien l'alta epopea.
E seguitò che s'altri il disciogliesse, Mostrerebbe il mandato e le patenti. Per questo il general non gli concesse Ch'a strigarlo imprendessero i sergenti, E perchè legger mai non gli successe, Eran gli scritti a lui non pertinenti, Ma chiese da chi date ed in qual nome Assunte avesse l'oratorie some.
E quel dicendo che de' topi il regno, Per esser nella guerra il re defunto E non restar di lor successor degno, Deliberato avria sopra tal punto Popolarmente, e che di fede il segno Rubatocchi al mandato aveva aggiunto, Il qual per duce, e lui per messaggero Scelto avea a suffragi il campo intero; Gelò sotto la crosta a tal favella, Popol, suffragi, elezione udendo, Il casto lanzo, al par di verginella A cui con labbro abbominoso orrendo Le orecchie tenerissime flagella,
Fango intorno e corrotte aure spargendo, Oste impudico o carrozzier. Si tinge Ella ed imbianca e in sè tutta si stringe.
E disse àl conte: Per guardar ch'io faccia, Legittimo potere qui non trovo.
Da molti eletto, acciò che il resto io taccia, Ricever per legato io non approvo. Poscia com'un che dal veder discaccia Scandalo o mostro obbrobrioso e novo, Tôr si fe quindi i topi ed in catene Chiuder sotterra e custodir ben bene. Fatto questo, mandò significando Al proprio re per la più corta via L'impensata occorrenza e supplicando Che comandasse quel che gli aggradía.
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