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Tutti piuttosto discendiamo insieme.
Ma basteranno, io penso, i dardi tuoi;
I dardi tuoi, che tutto il mondo teme,
Ch' Encelado atterraro e i mostri suoi,
Scaglia de' topi ne l'ardita schiera;
E a gambe la darà l'armata, intera.

Disse. E Giove acconsente e un dardo afferra:
Avventa prima il tuon, ch'assordi e scota
E trabalzi da' cardini la terra;

Indi lo strale orribilmente rota,

Lo scaglia; e fu quel campo in un momento Pien di confusion e di spavento.

Ma il topo, che non ha legge nè freno, Poco da poi torna da capo, e tosto Vanno in rolta i nemici e vengon meno. Ma Giove, che salvarli ad ogni costo Deliberato avea, gente alleata

A ristorar mandò la vinta armata.

Venner certi animali orrendi e strani,

Di razza sopra ogni altra ossosa e dura:

Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
Il tergo risplendente per natura,

Curve branche, otto piè, doppia la testa,
Obliquo il camminar, d'osso la vesta.

Granchi son detti: e quivi a la battaglia
Le scontrafatto stuol nou prima è giunto
Che si mette fra' sorci, abbranca, taglia,
Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto
Sconfitto il vincitor; la rana il caccia,
E quelli onde fuggia fuga e minaccia.

A' granchi ogni arme si fiaccava in dorso;
Fero un guasto, un macello innanzi sera,
Mozzando or coda, or zampa ad ogni morso.
E già cadeva il Sol quando la schiera
De' topi si ritrasse affitta e muta:
E fu la guerra in un sol di compiuta.

LA TORTA

POEMETTO D'AUTore incerto

tradotto dal latino.

(1817)

Avea notte invernal corso dieci ore, E l'augel da la vegghia il di predetto, Quando Simulo, il rustico cultore Di breve campicel, dal rozzo letto, Temendo digiunar nel dì futuro, Scosso adagio il sopor, s'alza a lo scuro. Esplorando le tenebre a tastone Va passo passo, e giunto al focolare, S'acceso anco vi sia qualche carbone Cerca così che sentesi scottare: Pronto la man ritragge e vede allora Il foco lucicar non morto ancora.

Un tizzon che la sera ivi riposto
Simulo aveva con provvido consiglio
Giacea sotto la cenere nascosto.

Volgesi il buon villano e dà di piglio
A la lucerna e 'n giù la piega e chino
Con l'ago slunga l'arido stoppino.

Desta col soffio il moribondo foco Ch'al fin chiarisce e la lucerna accende; Poi sorge e s'incammina a poco a poco E' lume infermo con la man difende; Men timido e più franco indi s'avanza, E guarda e schiavą l'uscio della stanza.

Con misura, che tanto è sol capace,
Sedici toglie poi libbre di grano
Da scarso monticel che 'n terra giace,
E presso ad una macina da mano,
Sopra piccola mensa ad un cantone
Del muro appesa, il lume suo depone.
Striga le braccia e di vellosa pelle
Di capra cinto, il mulinello appresta.
Parton l'opra tra lor le due sorelle:
Insiem colei volge la ruota, e questa
Versa il frumento, ch' al girar del sasso
Scorrendo va, fatto farina, al basso.

La destra man talor, talor la manca
Compie a la volta sua l'istesso uffizio;
L'una a l'altra succede quando è stanca,
Si ch'alternando van lor esercizio;
E con suo rozzo canto rusticano.
Alleggia sua fatica il buon villano.
Cibale chiama al fin. Sol questa avea
In casa il contadin fante africana,
E fede di suo genere facea

Tutto del corpo la sembianza strana:
Eran sue chiome tortuose, ed era
Sua faccia di color pressochè nera.
Tumido labbro, petto spazioso,

Ventre e mamme giacentisi e compresse,
Larga pianta, esil gamba, aspro e scabroso
Calcagno avea per lunghe rughe e spesse.
A questa impon che legna al focolare
Arrechi ed arda, e ponga acqua a scaldare.
Ma de la ruota già finita è l'opra:
Simulo con la mano il gran raccoglie
Entro uno staccio e l'abburatta, e sopra
Restan le grosse cereali spoglie,
Mentre purgato in sottil pioggia il grano
Cade pe' fori in sul supposto piano.

A la farina poi, che ragunata
Ha sopra liscia tavola, dispensa
Trepid' onda il villano, e l'aggrumata
Pasta scorrendo con la man l'addensa,
Liquido sal vi sparge, e 'l tutto insieme
Mesce e volge sossopra e mena e preme.
Poi ch'assodata fu la facil massa,
Ei con le palme a dilatarla imprende,
Appianala, rotondala, l'abbassa,

La segna in quadri uguali e la distende
E la compone in aggiustato loco
Che Cibale mondò vicino al foco.

Di piatti la ricopre, indi con arte
La veste di carbon. Mentre Vulcano
E' piatti al foco fan la loro parte,
Quel non si sta con le sue mani in mano,
Ma cerca d'altro cibo, onde men grato
Non sia pane senz'altro al suo palato.
Sopra 'l fumo non pende al suo camino
Secco tronco di porco o duro tergo,
Ma sol di crespo aneto ha il poverino
Pendente un vecchio fascio entro l'albergo
E una forma di cacio. Il villan saggio
Ad altra cosa volge il suo coraggio.

Giacea presso la casa un piccol orto, E di canne e di vimini contesta Fratta' munia. Quest' era il suo conforto Ne' tempestosi dì, ne' di di festa, Quand' arar non potendo, era costretto Di starsi neghittoso entro 'l suo tetto. Opra sol di sue cure, ei quindi avea Quanto abbisogna a poverello; e spesso Cose assai di quell'orto richiedea Al povero cultore il ricco istesso,

Ch' ei di semi il forniva e al buon terreno Qualche vicino rio menava in seno.

La zucca ivi giacea sul ventre tondo
E malve e bieta e 'l porro che nomato
È da la testa, e 'l romice fecondo
E' cavolo e 'l papavero gelato
E lattuga v'avea che grata viene
Fra lauti messi in cittadine cene.

Ma questi cibi il povero padrone
Raro a la bocca d'appressare ardia.
Fasci d'erbe recando ei ne le none
Da la campagna a la città venia,
E quindi a casa ritornar contento
Scarco il capo solea, grave d'argento.
Pressochè mai da cittadin macello
Cibo recava a poco prezzo tolto:
Di nasturcio nutriasi il poverello,
Che raggrinzar fa, cui lo morde, il volto,
Di cipolla o vil porro o di rucchetta,
Ch'a l'amorose brame i pigri alletta.

Vien dunque a l'orto e levemente scava
Con le dita il terren; quattr'agli in prima
Con spesse fibre trae che 'l suol celava,
Di poi ruta e coriandoli e la cima
Coglie de l'appio, e torna e al foco siede,
La fante appella, ed il mortaio chiede.

Indi a que' cibi il primo velo agreste
E la vil buccia destramente toglie
E ad uno ad un li monda e li disveste,
Spargendo il suol de le neglette spoglie;
Bagna poscia ne l'acqua e si riserba
E nel mortaio getta il bulbo e l'erba.

Di sal gli asperge e duro cacio e bianco, E con la destra man tratta il pestello, L'aglio ammollisce, e fa vicino al fianco Con la sinistra al rozzo lin puntello. Ammacca pria le più superbe cime,

Poi tutto infrange, e un misto succo esprime.

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