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Gira il pestello, e ne l'informe pasta
Di più colori fassi un sol colore:

Bianco non è, chè l'erba gliel contrasta ;
Verde no, chè gliel nega il bianco umore.
Fan que' cibi, in perdendo lor virtute,
Una di molte lor virtù perdute,

Spesso l'acuto odor saetta il naso,
Che si raggrinza, al povero villano;
Ond'egli, il volto in ritirar dal vaso.
Le lagrime col dosso de la mano
Si terge; e qualche volta, ito in furore,
Maledice'l suo pranzo e quell'odore.
Andar vede il pestello omai più lento
Vicino al fin de l'opra il villan lieto,
E su saporosissimo alimento

Stilla con parca man pungente aceto,
Ed olio pure in maggior copia infonde;
Il tutto poi rimesce e riconfonde.

Va con due dita intorno, e al mezzo porta La massa omai ben assodata e mista;

E per sua man la desïata Torta

La sembianza in tal modo e'l nome acquista.
Il pane appunto allor Cibale attenta
Tolto dal foco al contadin presenta;
Che, satisfatte omai viste sue brame,
E per quel di dopo le rustich' opre,
Sicuro già di non morir di fame,
Calza i stivali e col cappel si copre,
Indi fuor esce, ed aggiogati i buoi,
Gli spinge il solco a far pe' campi suoi.

.DELLA

SATIRA DI SIMONIDE

SOPRA LE DONNE.

(1823)

Giove la mente de le donne e l'indole
In principio formò di vario genere,
Fe'tra l'altre una donna in su la tempera
Del ciacco; e le sue robe tra la polvere
Per casa ruzzolando, si calpestano.
Mai non si lava nè'l corpo nè l'abito,
Ma nel sozzume impingua e si rivoltola.
Formò da l'empia volpe un'altra femmina
Che d'ogni cosa, o buona o mala o siasi
Qual che tu vogli, è dotta; un modo, un animo
Non serba, e parte ha buona e parte pessima.
Dal can ritrasse una donna maledica

Che vuol tutto vedere e tutto intendere.
Per ogni canto si raggira e specola,
Baiando s'anco non le occorre un'anima;
Nè per minacce che'l marito adoperi,
Nè se d'un sasso la ritrova e cacciale
Di bocca i denti, nè per vezzi e placide
Parole e guise, nè d'alieni e d'ospiti
Sedendo in compagnia, non posa un attimo
Che sempre a vôto non digrigni e strepiti.

Fatta di terra un'altra donna diedero

Gli eterni e l'uomo in costui pena e carico. Null'altro intende, fuorchè mangia e corcarsi; E'l verno, o quando piove e'l tempo è rigido, Accosto al focolar tira la seggiola.

Dal mare un'altra donna ricavarono,
Talor gioconda, graziosa e facile,
Tal che gli strani, a praticarla, esaltanla
Per la donna miglior che mai vedessero;
Talor, come la cagna intorno a i cuccioli,
Infuria e schizza, agli ospiti, a i domestici,
A gli amici, a i nemici aspra, salvatica,
E, non ch'altro, a mirarla spaventevole:
Qual per appunto il mar, che piano e limpido
Spesso giace la state, e in cor ne godono
I naviganti; spesso ferve ed ulula
Fremendo. È l'oceán cosa mutabile
E di costei la naturale imagine.

Una donna dal ciuco e da la cenere
Suscitaro i celesti, e la costringono
Forza, sproni e minaccie a far suo debito.
Ben s'affatica e suda, ma per gli angoli
E sopra il focolar la mane e'l vespero
Va rosecchiando, e la segreta venere
Con qualsivoglia accomunar non dubita.
Un gener disameno e rincrescevole,
Di bellezza, d'amor, di grazia povero,
Da la faina uscì. Giace nel talamo
Svogliatamente e del marito ha stomaco:
Ma rubare i vicini e de le vittime
Spesso gode ingoiar pria che s'immolino.
D'una cavalla zazzeruta e morbida
Nacque tenera donna che de l'opere
Servili è schiva e l'affannare abomina.
Morir terrebbe innanzi ch'a la macina

Por mano, abburattar, trovare i bruscoli,
Sbrattar la casa: non s'ardisce assistere
Al forno, per timor de la fuligine;
Pur, com'è forza, del marito impacciasi.
Quattro e sei fiate il giorno si chiarifica
Da le brutture, si profuma e pettina
Sempre vezzosamente e lungo e nitido
S'infiora il crine. Altrui vago spettacolo
Sarà certo costei, ma gran discapito

A chi la tien, se re non fosse o principe,
Di que' ch'hanno il talento a queste ciuffole.
Quella che da la scimmia i numi espressero
È la peste maggior de l'uman vivere.
Bruttissima, scriata, senza natiche.

Nè collo, ma confitto il capo e gli omeri;
Andando per la Terra, è gioco e favola
De' cittadini. Oh quattro volte misero
Quel che si reca in braccio questo fulmine!
Quanti mai fûr costumi e quante trappole,
Come la monna suol, di tutto è pratica;
E non le cal che rida chi vuol ridere.
Giovar non sa, ma questo solo ingegnasi
E tutte l'ore intentamente medita
Qualche infinito danno ordire e tessere.

Ma la donna ch'a l'ape è somiglievole
Beato è chi l'ottien, che d'ogni biasimo
Sola è disciolta, e seco ride e prospera
La mortal vita. In carità reciproca,;
Poi che bella e gentil prole crearono,
Ambo i consorti dolcemente invecchiano.
Splende fra tutte; e la circonda e séguita
Non so qual garbo, nè con l'altre è solita
Goder di novellari osceni e fetidi

Questa, che de le donne è prima ed ottima, I numi alcuna volta ci largiscono.

Ma tra noi l'altre tutte anche s'albergano
Per divin fato; chè la donna è'l massimo
Di tutt'i mali che da Giove uscirono;
E quei n'ha peggio ch'altramente giudica.
Perchè s'hai donna in casa, non ti credere
Nė sereno giammai nė lieto ed ilare

Tutto un giorno condur. Buon patto io reputo
Se puoi la fame da’tuoi lari escludere,
Ospite rea che gl'immortali abborrono.
Se mai t'è data occasion di giubilo,
O che dal ciel ti venga o pur dagli uomini,
Tanto adopra colei che da contendere
Trova materia. Nè gli strani accogliere
Puoi volontier se alberghi questa vipera.
Più ch'ha titol di casta e più t'insucida;
Chè ben la guardi: ma si beffa e gongola
Del tuo caso il vicin; chè spesso incontraci
L'altrui dannar, la propria donna estollere.
Nè ci avveggiam che tutti una medesima
Sorte n'aggreva, e che la donna è'l massimo
Di tutti i mali che da Giove uscirono;
Da Giove, il qual come infrangibil vincolo
Nel cinse al piè, tal che per donne a l'Erebo
Molti ferendo e battagliando scesero.

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