Venere un di, cercando Amor perduto, Alto gridar s'udia: Per sorte alcuno Veduto avrebbe Amor de' trivii errante? Il fuggitivo è mio; chi me l'addita Sicuro premio avrà, di Cipri un bacio: Che se trovato alcun mel tragga innanzi, Non un mio bacio sol, più speri ancora. A molti segni il mio figliuol tra venti Distinguer puoi: bianco non è, ma il fuoco Somiglia nel color, furbe ed accese Ha le pupille; è di maligna mente, Dolce nel favellar; lingua bugiarda, Mellita voce egli ha; ma se si adira È di selvaggio cor; garzon fallace, Nemico a verità, brutal ne' giuochi ; Crespe ha le chiome e di tiranno il volto; Brevi ha le mani, e pur da lungi scaglia Fino a Stige lo stral, fino a Plutone. Nudo è di corpo, ma di mente ascosa; D'ali vestito, come augel saltella,
Or di quello, or di questa in cuor si asside. Picciolo ha l'arco, ma sull'arco il dardo; Picciolo il dardo, ma che giunge al cielo. Grave di acerbi strali al fianco appesa
Ha una faretra d'oro, e me pur anco Spesso feri con quelle frecce: in lui Tutto tutto è crudel, ma più di tutto Quella che reca in man piccola face, Onde talor l'istesso Sole infiamma.
Or se per caso il prendi, avvinto il traggi; Non averne pietà, se piagner mostra; Guarda che non t' inganni, e stretto il reca. Se ride ancor, se vuol baciarti, il vieta; Maligno è il bacio, e venenoso il labbro.
Orsù, prendi, quest'armi tu le ricusa;
Fallace è il dono, e fuoco son quell' armi.
Già Venere ad Europa, della notte Nella terza vigilia, allor che omai Era presso il mattino, un dolce sogno Mandò; quando il sopor sulle palpebre Più soave del mel siede e le membra Lieve rilassa, ritenendo intanto In molle laccio avviluppati i lumi; Quando lo stuol dei veri sogni intorno Ai tetti errando va. Nelle sue stanze Vergine ancor dormia la bella Europa, Di Fenice la figlia. In sogno vide Per sè far lite due regioni opposte. Ambe di donne avean l'aspetto; e l'una
D'Asia parea, l'altra straniera: or quella Alto sclamar s'udiva e la fanciulla
Chieder con forti grida e dir che madre Gli era e nutrice; l'altra colle braccia Europa a sè traea robustamente E gridava già scritto esser nei fati Che la donzella a lei l'egioco Giove Recasse in don. Nè resisteva Europa, Ma palpitante il cor batteagli in seno. A un punto si destò, balzò dal letto, Chè visto aver credeva e non sognato. Sedeva taciturna e, benchè desta, Ambe le donne ancor negli occhi avea. Alfin, poi che si scosse, Qual dei numi, Disse, mi spedi mai questi fantasmi? Quai sogni mi turbâr mentre tranquilla Sul mio letto dormía si dolcemente Nelle mie quete stanze? E quella donna Che straniera parea, che rimirommi Come sua figlia e con si dolce volto M'accolse, m'abbracciò, seco mi trasse, Oh quanto ancor mi piace! e che fia mai? Deh fate, o numi, voi che questo sogno Per me si volga in ben. Così diss' ella. Quindi rizzossi e corse tosto in traccia Delle compagne sue; dolci compagne, Tutte d'età, di nobiltà, di voglie A lei conformi. Ella solea con queste Tutto il di sollazzarsi, e allor che al ballo Si disponeva, e quando sulle rive S'abbellia dell'Anauro, e quando al prato China cogliea tra l'erba i bianchi gigli. Presto incontrolle; esse veniano e in mano Recavan tutte un cestellin da fiori. Andavo ai prati, presso cui dal lido
Azzurra si stendea l'ampia marina: Quivi solean raccorsi e quivi insieme Godean concordi e delle fresche rose E del fiottar monotono dell'onda. Seco recava Europa un cestin d'oro, Bellissimo a vedersi e di Vulcano Opra stupenda. Questi a Libia, allora Che al talamo recossi di Nettuno, Lo scotitor della terrestre mole,
In dono il diede, e Libia alla sua nuora, Alla bella il donò Telefaessa;
Questa ad Europa, alla sua vergin figlia, Fatto quindi ne avea nobil presente. Con arte industre in quello eran espresse Mille cose vaghissime e lucenti. Effigïata in ôr vi si vedeva
Io sventurata, d' Inaco la figlia,
Che, priva ancor del femminil sembiante E giovenca all'aspetto, il salso mare Co' piè scorreva, di chi nuota in guisa. Di ceruleo color v'erano i flutti,
E v'eran due che da un ciglion del lido Stavano insieme il mar mirando e quella Che il mar guadava candida giovenca. Giove in atto pietoso eravi sculto Che mollemente colla man divina Ad lo palpava il dorso e di vitella Dalle leggiadre corna, alfine in riva Poi ch'era giunta al Nil di sette bocche,, La ritornava in donna e le rendeva Cosi le antiche e sospirate forme. L'acqua del Nilo espressa era in argento, In bronzo la giovenca, e Giove in oro. Del panierino sotto agli orli intorno Scolpito era Mercurio; e presso lui
Argo giacea disteso, Argo vegghiante
E d'occhi adorno cui mai chiuse il sonno. Dal suo purpureo sangue augel nascea Pel color vario de' suoi vanni altero, Che, come al mare in sen rapida nave, Superbamente dispiegando l'ali, Al cestellino d'ôr gli orli copria. Tal d'Europa leggiadra era il paniere. Poichè scese lo stuolo ai prati ameni, Erravan le donzelle; e qual d'un fiore, Qual fea d'un altro il suo sollazzo: e queste Il narciso cogliean che grato olezza, Quelle il giacinto, altre serpillo, ed altre Mietean viole pallide. Frattanto
In copia sparse di que' prati alunni
Di primavera spicciolate foglie
Cadean sul verde suol. Givano alcune
Del croco in traccia e ne cogliean la chioma. Ma in mezzo a tutte, come tra le Grazie La dea cui l'onde partorîr del mare, Splendea regina Europa, e delle rose Tra le fronde sceglieva il fior vermiglio. Breve diletto! omai non più dai fiori Trarrà piacer nè la verginea fascia Intatta serberà. Giove la vide
E ne fu tocco e si diè vinto a un tratto Agli strali di Venere, che sola Domar può fin l'onnipossente Giove. La vide: e, per fuggir l'ire moleste Della gelosa Giuno, e l'inesperta Verginella ingannar, celossi il nume Sotto mentite spoglie e si fe' toro; Non quale ingrassa entro ie stalle o quale Aggiogato trascina onusto carro,
Ma biondo il corpo tutto, e armato il capo
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