Da quel di pria diverso? A me sul volto Fioria beltà, com'edera sul troco;
E ornavami la barba. Eran le chiome Sparse, qual appio, alle mie tempie intorno; Bianca fronte splendea su ciglia nere; Più di quei di Minerva erano i lumi Vivi e sereni; e più d'una giuncata Soave era la bocca, onde scorrea D'un cereo favo il ragionar più dolce. Grato è pure il mio canto, e grato il suono Che sulla canna io so, sulla sampogna, Sul piffero destar, sulla traversa. Bello mi dice e m'ama ogni fanciulla Della montagna. Eppur negommi amore, Perchè pastor son io, la cittadina E mi fuggì nè dar mi volle orecchio. Certo ella non sapea che il bel Dionisio Pasce egli pur ne' prati una vitella; Nè che per un bifolco arse Ciprigna E al pasco i buoi menò suï frigii monti; Ch'Adone amò nelle foreste, e morto Nelle foreste il pianse. Endimione Non fu bifolso anch'egli ? e non amollo Cintia così bifolco e dall' Olimpo
Non discendea per lui di Latmo al bosco E seco non dormia? Per un bifolco
Tu pur vai mesta, o Rea. Tu stesso errando Per un giovin bifolco andasti, o Giove. Sola i bifolci amar disdegna Eunice, Di Venere maggior, di Cintia e Rea. Ciprigna, or tu più non amare alcuno Nè in cittade nè in monte, e sola omai, Poi che disparve il dì, vanne al riposo.
L'uom dal saggio avvisar cantami, o diva, Che con diverso error, poi che la sacra Ilio distrusse, le città di molti Popoli vide ed i costumi apprese. In suo core egli pur di molti affanni Nel pelago soffri, mentre cercava A sè la vita, ed ai compagni suoi Comperare il ritorno. E pur nessuno, Ben ch' il bramasse, ne salvò! Periro Tutti per lor follia, stolti! che i buoi Mangiâr del Sole eccelso: ei del ritorno Lor tolse il di. Figlia di Giove, alquanto Dinne di questi casi ancora a noi.
Gli altri che il fato acerbo avean fuggito Nelle lor case erano già, campati
Dalla guerra e dal mar. Lui solo ancora E del ritorno e della moglie privo
In cavi spechi ritenea Calisso, Inclita ninfa e diva, che di farlo
Suo sposo avea desio. Ma quando il tempo Venuto fu col volgere degli anni
In che piacque agli dei che al patrio tetto In Itaca ei tornasse, allor finiti
Non furo i suoi travagli, ancor che in mezzo A'suoi cari egli fosse. Ognun de' numi N'ebbe pietà, salvo Nettun, che fermo Nell'ira sua contro il divino Ulisse Restò fin ch'ei non giunse al suo natio. Agli Etiopi lontani ito era il nume (Agli Etiopi, del mondo ultima schiatta In due partita: gli uni al sol che cade, Gli allri sono all'aurora) onde presente Il sacrificio accôr d'un' ecatombe D'agnelli e tori. Ivi al convito assiso Stavasi con piacer. Ma gli altri dêi S'eran raccolti dell' olimpio Giove Nella vasta magione. Ad essi il padre Degli uomini e de? numi a parlar prese; Chè ricordossi del preclaro Egisto, Cui morto aveva il rinomato figlio D'Agamennone, Oreste. Or, lui membrando, Favellò tra gli eterni in questi accenti:
Ci accusano i mortali, oh stolti! e danno Delle sventure lor la colpa ai numi, F si per lor follia soffrono affanni Non voluti dal fato. Egisto appunto Del destino ritroso a or or la moglie D'Agamennon si tolse a sposa e lui Tornate uccise: e pur l'acerbo fine Che l'attendea non ignorò. Spedito Gli avevamo noi già Mercurio, d'Argo Il veggente uccisor, che gli disdisse Spegner l'Atride e tôr la moglie a sposa; Ed avvisato il fe come da Oreste, Cresciuto d'anni e in bramosía venuto Delle sue terre, Agamennon vendetta
Avuto avria. Così Mercurio a lui Saggiamente parlò; ma nol rimosse
Dal suo pensiero. Or quegli a un tempo solo Tutto pagò del mal oprare il fio.
A lui Minerva dalle azzurre luci Così poscia rispose; O nostro padre, Santurnio dio, sommo de' re, tal sorte Quel meritossi assai. Così perisca Chi com' egli oprerà. Ma per Ulisse Il battaglioso mi si strugge il core: Misero che lontan da' cari suoi
Da gran tempo sopporta immensi affanni, In un'isola d'arbori nutrice
Tutta cinta dall' acque, ove del mare È l'umbilico, e dove in sua magione Ha ricetto una dea figlia d'Atlante,
Cui tutto è noto, che del mar gli abissi Tutti conosce e che la terra e il cielo Sopra colonne altissime sorregge. La figliuola di lui ritiene a forza
Il misero piangente; e ognor con dolci Molţi detti il carezza, affin che il prenda D'Itaca oblio. Ma di sua terra almeno Veder bramando Ulisse alzarsi il fumo, Morir desía. Nè da pietade infine Il tuo cor sarà tocco, olimpio dio ? Nell'ampia Troia non ti fece Ulisse Presso alle navi achee gradite offerte ? E donde, o Giove, contro lui tant'ira? Giove de' nembi adunatore a lei Rispose: O figlia mia, quai detti uscîrti Dalla chiostra de' denti? Il divo Ulisse
Come obliar potrei ch'ogni mortale
Vince in prudenza, e al par di cui non evvi Uom ch'abbia offerte agl'immortali numi
Ch'abitan l'ampio ciel vittime sacre? Ma Nettuno, che il suol tutto circonda, Di terribile sdegno è sempre acceso Per il ciclope ch'ei dell'occhio ha privo, Per Polifemo a nume ugual, che avanza Tutti i ciclopi in gagliardía. La ninfa Toosa partorillo, a cui fu padre Forcine, un dio dell'infecondo mare, A Nettuno commista in cavi spechi. Morto Ulisse non ha lo scotitore Della terra Nettun, ma da quel tempo Lungi lo tiene dalla patria sede. Cerchiam però fra noi come sia d'uopo Far che in Itaca ei giunga, onde al suo regno Torni quegli, e Nettun l'ira deponga; Poi che di tutti gl'immortali ad onta Niun potere egli avrà, nè fia che sappia Solo cozzar con i contrarii dêi.
Ed a lui poscia l'occhi-glauca diva Minerva replicò: Saturnio nume, Padre di noi, sommo de' re, se fermo Hanno i beati dêi che al patrio tetto Ritorni Ulisse il battaglier, messaggio D'Argo l'ucciditor tosto all'Ogigia Isola si spedisca; ond'ei, trascorso Velocissimamente, quella ninfa Da'bei cincinni faccia conto il nostro Infallibil voler: torni il paziente
Ulisse al suol nativo: e degli eterni Adempiasi il decreto. Io recherommi In Itaca a destar nel figlio suo Ardimento più grande e a porgli in core Valenteria, sì che, i chiamati Achivi Raccolti a parlamento, i Proci affronti, Che sempre dense greggi neri buoi
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