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definirono la giustizia quale si è veramente in se stessa, ma quale appare nel suo pratico esercizio. Il giusto consiste nella reale e personale proporzione dell' uomo verso l'uomo, la quale conservata conserva, e corrotta corrompe la Società. Ond'è che non sarà mai diritto quello che non tenda al comun bene de' soci, ed è per ciò che Tullio nella sua Rettorica afferma che le leggi si deggiono sempre interpetrare secondo l'utilità della Repubblica. Ora il Romano popolo colle sue gesta dimostra come nel conquistare l'intero mondo, pose in non cale gli agj proprj e solo provvide alla salute dell' uman genere. L' Impero della Romana Repubblica era il refugio ed il porto de' Re, de' Popoli e delle Nazioni. I Magistrati e Imperatori Romani in questo massime si sforzavano di conseguir lode, nel difendere cioè le provincie, nel proteggere gli alleati con fede ed equità; e gli esempi di Cincinnato, di Fabrizio, di Camillo, di Bruto, di Muzio, de' Decii e de' Catoni sono di cotanta virtute e specchi e riproÈ ve. dunque a conchiudersi che come il romano popolo soggiogando l'intiero mondo intese al fine della giustizia, e provvide al pubblico bene, a buon diritto arrogossi la suprema dignità dell' Impero.

Io non dirò che queste opinioni del ghibellino Scrittore siano del tutto vere e inconcusse, nè che la sua teoria, quantunque sembri in astratto probabile, possa nel fatto realizzarsi. Troppo smisurate cose appare manifestamente aver egli dette per istudio di parte, e per l'amor della causa Imperiale: dover cioè tutto il mondo appartener di diritto all'Impero de' Romani, e sola l'universal Monarchia esser quella, all'ombra di cui le Nazioni goder possano pace e felicità; mentre per un lato, quel preteso diritto de' Romani, come quello di tutti i popoli conquistatori, non consisteva che nella violenza e nella fortuna dell'armi loro; e per l'altro, ogniqualunque forma governativa può esser atta a procurare la felicità de' governati, quando coLoro che siedono al timon dello stato si sforzino, con

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tutti i mezzi che sono in loro potere, di conseguire quell' altissimo fine. Ma se la tesi del ghibellino Scrittore del comprendere in un sol corpo politico la Terra intiera, mentre pure I' Italia, la di lui patria, si stava sotto a' suoi occhi tutta sminuzzata, divisa ed in se stessa discorde, è da riporsi nel numero delle utopie, ella non potrà a meno di dirsi grande e magnifica, e degna dell' alta mente di Dante Alighieri.

Cinque o sei edizioni di questa Operetta hanno finora veduta la luce, la prima delle quali fu fatta nel 1559 in Basilea per Gio. Oporino: ma la lezione per colpa de'secoli e degli editori n'era così scorretta e malconcia, che più di cento strafalcioni m'è venuto fatto d'emendare nel darne al Pubblico la presente ristampa; come, a cagion d'esempio, correggendo dicentes ipsum recepisse in dicentes Christum recepisse, pag. 152; facere tamen ascendere in facere terram ascendere, pag. 154; gestis humanis in gestis romanis, pag. 168; non enim Decius in non enim dicimus, pag. 180; divinae prudentiae in divinae providentiae, pag. 198, ec. ec.

La traduzione italiana, ch'or per la prima volta vede la luce, e ch'è opera del celebre Marsilio Ficino, il quale volle intitolarla a due suoi amici Bernardo Del Nero ed Antonio Manetti, è tratta dal Cod. 1173. Cl. VII. della Magliabechiana. Ed abbenchè io l'abbia collazionata sopra altro esemplare, di cui mi fu cortese il Chiariss. Sig. March. Gino Capponi, essa sarebbe rimasa in più luoghi o guasta o mutila o inintelligibile per colpa più degli amanuensi che di lui che dettolla, se io con un po' di critica e col soccorso del testo latino non l'avessi raddirizzata e corretta. Nel che fare ho usato tal parsimonia e tal diligenza che io sono per credere non sia per esservi alcuno, che vorrà farmene rimprovero, anzi sapermene qualche grado, tanto più s'egli prenda in esame le correzioni da me eseguite, le quali se non tutte almeno nella massima parte ho stampate in carattere corsivo, affinchè possano a prima vista conoscersi.

DANTIS ALIGHIERI

FLORENTINI

MONARCHIA

LA MONARCHIA

DI

DANTE ALIGHIERI

FIORENTINO

PROEMIO DI MARSILIO FICINO FIORENTINO SOPRA LA MONARCHIA di DanTE, TRADOTTA

DA LUI DI LATINO IN LINGUA TOSCANA, A BERNARDO DEL NERO ED ANTONIO DI TUCCIO MANETTI, CITTADINI FIORENTINI.

Dante Alighieri per patria celeste, per

abitazione fiorentino, di stirpe angelico, in professione filosofo-poetico, benchè non parlasse in lingua greca con quello sacro padre de' filosofi, interpetre della verità, Platone, nientedimeno in spirito parlò in modo con lui, che di molte sentenzie platoniche adornò i libri suoi; e per tale ornamento massime illustrò tanto la città fiorentina, che così bene Firenze di Dante, come Dante da Firenze si può dire. Tre regni troviamo scritti dal nostro rettissimo duce Platone: uno de' beati, l'altro de' miseri e il terzo de' peregrini. Beati chiama quelli che sono nella città di vita restituiti; miseri quelli che per sempre ne sono privati; peregrini quelli che fuori di detta città sono, ma non giudicati in sempiterno esilio. In questo terzo ordine pone tutti i viventi, e de' morti quella parte che a temporale purgazione è deputata. Questo ordine

platonico prima seguì Virgilio; questo seguì Daute dipoi, col vaso di Virgilio beendo alle platoniche fonti. E però del regno de' beati, de' miseri e de' peregrini, di questa vita passati, nelle sue comedie elegantemente trattò. E del regno de' peregrini viventi nel libro da lui chiamato Monarchia, ove prima disputa dovere essere uno giusto imperadore di tutti gli uomini, di poi aggiugne questo appartenersi al popolo romano. Ultimo pruova che detto imperio dal sommo Iddio sanza mezzo del papa dipende. Questo libro composto da Dante in lingua latina, acciò che sia a' più de' leggenti comune, Marsilio vostro, dilettissimi miei, da voi esortato, di lingua latina in toscana tradotto a voi dirige, poichè l'antica nostra amicizia e disputazione di simili cose intra noi frequentata richiede, che prima a voi questa traduzione comunichi, e voi agli altri di poi se vi pare ne facciate parte.

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