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re...

avuto autorità, quelle cose dell'Impero che deputò alla Chiesa, non avrebbe potuto di ragione deputaMa il dire che la Chiesa così usi male il patrimonio a se deputato, è molto inconveniente (pag. 185). Per queste espressioni del ghibellino scrittore, le quali dicono chiaramente, la Chiesa tenersi di di ritto tutto quanto si tiene, parmi restare affatto escluso il sospetto, che l'argomento del Libro può a prima vista indurre in alcuno. Non intendeva adunque l'Alighieri che nel Pontefice non potessero unirsi la spirituale e la secolare potestà per modo che egli si fosse di diritto Sovrano ne' proprj Stati, ma sibbene escludeva l'autorità universale sopra gli Stati altrui. Egli teneva secondo l'opinione vera e cattolica, e secondo il detto di S. Paolo, omnis potestas a Deo venit, che ogni Principe temporale abbia, in quanto all' esser di Principe, una potestà immediata da Dio, non mediata per il Pontefice. Anzi, mentre Dante conchiude la combattuta tesi, protesta, che questa quistione non si deve così strettamente intendere, che l'Imperatore Romano non sia al Pontefice in alcuna cosa soggetto; conciossiachè questa mortale felicità alla felicità immortale sia ordinata. Cesare adunque (egli esclama) quella reverenza usi a Pietro, la quale il primogenito figliuolo usare verso il padre debbe, acciocchè egli illustrato dalla luce della paterna grazia, con più virtute il circolo della terra illumini (pag. 199).

Venendo ora a toccare alcun poco l'altra quistione intorno la Monarchia, dico che per essa intende l'Ali· ghieri la Monarchia universale, poichè, com' egli s'esprime (pag. 171), nell'unità dell' universale Monarchia consiste l'Imperio. La sovranità imperiale, derivata dal principio d' unità che regola l'universo, era quel tipo sul quale, secondo l'autore, dovea modellarsi il sistema civile e il legame delle diverse genti d'Italia, anzi di tutte quante le nazioni del mondo. Non intendeva egli già d'accordare al Supremo Imperante un assoluto e illimitato potere; ma voleva che questi

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fosse siccome capo e moderatore di tanti governi confederati, i quali da per se colle proprie leggi si reggessero, al tempo stesso che dipendevan da lui, quasi centro e anima vivificante di molte membra, destinate a fare, per la general forza ed unione, un solo vastissimo corpo. E' da considerarsi ( egli s'esprime, pag. 47) che quando si dice, che per uno supremo Principe il genere umano si può governare, non s'intende che qualunque minimo giudicio di qualunque villa, possa da quell' uno sanza mezzo disporsi, conciossiachè le leggi municipali alle volte manchino e abbiano bisogno di direzione: imperocchè le nazioni, regni e città hanno tra loro certe proprietà, per le quali bisogna con differenti leggi governa re...chè altrimenti conviene regolare gli Sciti, altrimenti i Garamanti. Da questo squarcio, e da altri pure che qui non riporto, si vede chiaro, che egli non voleva un assoluto Padrone, ma un Magistrato supremo, che si con formasse alle leggi delle varie nazioni, dappoichè se le leggi non son dirette all' utile de' Go. vernati, non han di leggi che il nome, Si ad utilitatem eorum qui sub lege, leges directae non sunt, leges nomine solo sunt, re autem leges esse non possunt (pag. 78.)

E quantunque i Ghibellini sembrino in apparenza meno italiani de' Guelfi (poichè, come molti dicono, questi stavano per un Principe nazionale, qual era il Papa, e quelli per uno straniero qual era l'Imperatore), pure la cosa era in sostanza il contrario. E questo apparirà per due ragioni, delle quali la prima fia la seguente. Il Re de' Romani, ch' assumeva quindi la dignità d'Imperatore, faceasi nella guisa stessa che il Papa, per elezione. E mentre la scelta, per antica consuetudine, andava a cadere sopra Personaggio di famiglia alemanna e cattolico, pure nè nella Bolla d'Oro, nè negli Statuti che ad essa precessero, io rinvengo che ne dovesse venir escluso quel Principe, che tenesse sede e dominio in Italia; anzi noi veggiamo che nel

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secolo XIII fu assunto all'Impero Federigo II della Casa di Svevia nel mentre ch' egli era Re di Sicilia, ed in Sicilia ed in Puglia si stava. Oltredichè, dentro a' confini d'Italia e meglio in Roma, dovendo a giudicio di Dante (Purg. VI. ec.) tener la sua stanza e la propria sua sede l'eletto Monarca, poteva dunque e dovea per più lati considerarsi siccome Italiano, ancor ch' ei nol fosse o per famiglia o per nascita. È chiaro dunque che i Ghibellini non teneano l'Imperatore e Re de' Romani per istraniero. Che se tale egli fosse invero da dirsi, non dovrebbe dirsi pur tale il Pontefice, cui i Guelfi come a Principe nazionale s' appoggiavano?

La seconda poi, ch'è da valutarsi forse più della prima ragione, consiste nel vedere che scopo de' Ghibellini si era quello di riunire tutte in un corpo le discordi membra d'Italia, e farle, quasi raggi, nel comun centro d'una moderatrice suprem Potestà convergere. Vedea Dante tornar vana la speranza che ogni singolo italiano municipio mantener potesse la propria libertà e indipendenza senza convenire in un Cap, cui afforzassero l'autorità delle leggi e la potenza dell'ar mi, Ond'è ch'ei ripeteva quella sentenza de' sacri Libri, che ogni regno in se diviso sarà desolato; ed amantissimo, siccome egli era, delle antiche glorie italiane, e della grandezza del nome romano, ei considerava che soltanto pel mezzo d'una general forza ed autorità poteva l'Italia dalle interne contese e dalle straniere invasioni restarsi sicura, e recuperare l'antico imperio sopra tutte le genti. Coll' esempio allora presente non lasciava di persuadere, che la divisione in tanti piccoli stati, senza una Potestà a tutti superiore, era la causa che commettea discordia tra le città, e le urtava fra loro in perpetua guerra, le proprie forze in van consumando. Sicchè non volendo l'Italia soffrire un'alta potenza regolatrice verrebbe in breve a cadere sotto il dominio straniero; e così a nazioni un tempo già a lei soggette resterebbe sottoposta quella, che pel corso di mille anni era stata la signora del mondo.

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Per questo appunto nella sua grave Epistola, indiritta, nella venuta d'Arrigo, a'Principi e Popoli Italici, esclama: Rallegrati oggimai Italia, di cui si dee avere misericordia, la quale incontanente parrai per tutto il mondo essere invidiata, perocchè il tuo sposo, ch'è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il pietosissimo Arrigo, alle tue nozze di venire s'affretta. Asciuga, o bellissima, le tue lagrime, e gli andamenti della tristizia disfa', imperocchè egli è presso colui che ti libererà dalla carcere de' malvagi. E mentre Dante invita gl' Italiani a riconoscere in Arrigo l'unico loro Regolatore, non esige però che essi pongano nel di lui arbitrio le loro libere costituzioni: Vegghiate tutti (egli dice), e levatevi incontro al vostro Re, o abitatori d'Italia, e non solamente serbate a lui ubbidienza, ma come liberi il reggi. mento. A questo dunque eran volte le mire e tutti gli sforzi del magnanimo Ghibellino, di procurare il riordinamento, l' unione e la gloria d'Italia; e nella dolce lusinga che ciò fosse per accadere vicino, e nello scopo di preparare la sospirata riconciliazione fraterna, e far tacere le ire intestine ognor rinascenti, scriveva appunto quella Epistola, e pateticamente gridava: Perdonate, perdonate oggimai, carissimi, che con meco avete ingiuria sofferta.

Nè soltanto al vantaggio d'Italia, ma al ben essere di tutta l'umana generazione pensava Dante che fosse necessaria l' universal Monarchia. Un solo principato (dic' egli nel Convito pag. 348) è uno Principe avere, il quale tutto possedendo, e più desiderare non possendo, li re tenga contenti nelli termini delli regni, sicchè pace intra loro sia nella quale si posino le cittadi. E questo principio egli ripete ed a lungo sviluppa nel primo libro della presente Operetta. Laddove pertanto è pace, quivi si trova pubblica felicità; ma quivi solo è pace laddove è giustizia. Ond' è che in effetto tanto più ampiamente dominar deve giustizia, quanto più sia potente l' uom giusto prepo

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sto ad amministrarla: dunque la miglior guarentigia della pubblica felicità risiede nella massima potenza del Supremo Imperante. E poichè tolta la cupidigia, nulla rimane d'ostacolo alla giustizia, il Monarca il quale nulla abbia a desiderare, esser deve giustissimo per necessità. Desso egli è causa utilissima, causa massima all'ottimo vivere delle genti: dunque a conseguire un tanto effetto è necessaria al mondo una tanta causa. Se non che a far pieno e inconcusso il suo teorema, Dante vuole un Monarca necessitato dal propostosi fine di dare e serbar sempre giustissime leggi; quindi Monarca afferma solamente colui, che disposto sia a reggere ottimamente, e così argomentando fa vedere che non il popolo solo si uniforma alla volontà del Legislatore, mentre il Legislatore stesso, egualmen te che il Popolo alle leggi obbedisce. Conchiude poi che sebbene il Monarca, riguardo ai mezzi, sembri ik dominatore delle Nazioni, in quanto però al fine, altro egli non è che il loro Ministro, perciocchè non il Popolo pel Re, ma il Re pel Popolo è creato: Non enim gens propter Regem, sed e converso Rex propter gentem (pag. 40).

Nel secondo Libro, che s'aggira tutto in provare come l'Impero appartien di diritto all' Italia ed a Roma, fassi dapprima l'Autore a mettere in vista la serie de' prodigj operati dal Cielo per istabilire, promuo、 vere e conservare la sovranità del popolo Romano, Dopo di che egli dice, che quello il quale alla sua perfezione è da'miracoli aiutato, è da Dio voluto, ed è perciò di diritto. Adunque l'Impero di Roma, che nella caduta dello scudo celeste, nel gridare delle Oche della Rocca Tarpeja, nella mala final riuscita delle vittorie d' Annibale, appare conservato e cresciuto per mezzo di soprannaturali prodigj, è certo essere e starsi di diritto, dappoichè Dio così volle e dispose. Indi l'Alighieri in cotal guisa i suoi argomenti prosegue: Chi ha per iscopo il fine della Repubblica tende a conseguire il vero fine della giustizia. I Digesti non

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