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d'Orfeo. Il quale facea con la cetera mansuete le fiere, e gli arbori e le pietre a sè muovere: in ciò ammaestrandoci, che il savio uomo collo strumento della sua voce fa mansuescere e umiliare li crudeli cuori e fa muovere alla sua volontà coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: Conv., II, 1. Che significhino poi gli occhi della Filosofia, già s'è veduto che sono una stessa cosa colle sue dimostrazioni. Il nostro Poeta adunque or volle dirne che la Filosofia può innamorare di sè anche coloro che, non avendo vita di scienza e d'arte, sarebbero mal pieghevoli, anzi duri a sentirne la tanto efficace virtù.

V. 3. Esta crudel che mia morte perpetra, procaccia ; dacchè i suoi occhi m' hanno concio si, che non s'aspetta Per me, se non la morte che m'è dura.

7. Onde 'l convien morir. Gli è forza ch' ei resti morto per l'ignoranza e i vizi (Conv., II, 16): perocchè il misero si trafitto, mai non ottien mercè, che il suo debito (che è di sostenere quella morte) pur si spannocchi, scemi, s'alleggerisca, non ch'ei possa mai cessare. Spannocchiare, che è propriamente levar dallo stelo la pannocchia, ben fu qui tratto dal Fraticelli a significazione di affievolire, ma forse ch'egli insieme col Dionisi prese poi abbaglio nel riferire « suo dover » alla Filosofia, anzichè all' attento discepolo di essa. A schiarimento della data interpretazione, occorrono questi luoghi della Commedia... Ancor non sarebbe Il suo dover per penitenza scemo: Purg., XIII, 24. L'amor del bene scemo Di suo dover quiritta si ristora: ivi, XVII, 85.

11. Che suo fedel nessuno in vita serba? Perchè quanto più l'uomo ama la Filosofia e più gli fa ella sentire delle sue benefiche influenze, cacciandone ogni di più l'ignoranza ed i vizi. Dove quel si divino amore splende, gli altri amori si fanno scuri e quasi spenti: Conv., III, 15. Per amore in questa allegoria sempre s'intende esso studio, il quale è applicazione dell' animo innamorato della cosa a quella cosa: Conv., III, 16.

12. Ed è contra a pietà tanto superba, si fiera e disdegnosa, che qualunque si distrugge nello studio della Sapienza,

questa non gli lascia più vedere le sue dimostrazioni, anzi gli suol nascondere le verità più sublimi. Imperocchè il nostro intelletto, aiutato dalla sapienza, può salire d'una in altra verità, ma appunto allora incontra si alte cose, che per troppa luce lo soverchiano e abbagliano. La Sapienza non può fare quaggiù l'uomo beato (renderlo del tutto vivo a ogni verità) non potendo a lui certe cose mostrare perfettamente. Conv., III, 15. Le due terzine parmi che debbano essere disposte un po' meglio, non fosse altro per corrispondere alla solita arte del nostro Poeta. Ma chi ripensi agli alti concetti, nobilmente e fortemente espressi in questo sonetto, non pʊtrà star punto dubbioso di scorgere in esso l'accorta mano del sovrano maestro. Dante ha un suo proprio sigillo e cosi splendido, che si fa prontamente conoscere e rispettare.

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Amor, dacchè convien pur ch' io mi doglia.

Questa canzone porta cosi espressi e visibili i caratteri di Dante, che non potrebbe recarsi ad altro autore. Bensi l'amore, di che vi si ragiona, è assai diverso da quello onde egli fu acceso per Beatrice o per la Filosofia. Ed a viemeglio accertarlo si ponga mente che l'Allighieri, non appena esulando giunse alle sorgenti dell' Arno, senti risvegliarsi amore verso una bella donna del Casentino. Il che ei ne rafferma nella sua lettera a Moroello Malaspina. Ora, insieme col Witte, il Torri e il Fraticelli s'avvisarono, che la poesia, accompagnata ad essa lettera, ben debba ravvisarsi nella canzone pre

sente; nè da siffatto parere si discosterà chi voglia paragonare e pregiar le parole del veridico Poeta.

St. 1. E mostri me d'ogni virtute spento, senza forza, onde resistere all' amore che mi signoreggia. « Regnet itaque amor in me, nulla refragante virtute:» Ep. Domino Moroello March. Malaspinæ, § 11. Affine di penetrare gl'intendimenti di questa canzone, gioverà di raffrontarla con l'altra: E'm'incresce di me si duramente.

Dammi savere a pianger com' ho voglia. Questa lezione che è del codice Riccardiano 1100, mi sembra assai più conforme al vero, che non la volgata: Dammi savere a pianger come voglia. Di fatti non era mestieri che Dante chiedesse ad Amore voglia di piangere, quando il pianto già gli abbondava, espresso dal vivo e angoscioso dolore.

Si che 'l duol che si snoda, Portin le mie parole (l'esprimano), come il sento. « Si ch'io sfoghi il dolor che'l cor m' impregna: » Inf., XXXIII, 113.

Chi crederà ch' io sia omai si côlto? così vinto, preso al laccio d'amore, da non poter esprimere l'interno affanno.

Chè se intendesse ciò ch'io dentro ascolto, le vive parole corrispondenti al mio dolore (che tien forte a sè l'anima volta: Pur., IV, 8), si muoverebbe a compatirmi.

2. Nell' immagine mia, nella mia immaginazione. « Dell'empiezza di lei che mutò forma Nell'uccel, che a cantar più si diletta, Nell' immagine mia apparve l'orma: Purg., XVII, 19. Così, come non m'è possibile vietarne il pensiero, non posso impedire che la figura di quella rea donna non mi venga in mente.

Poi l'anima riguarda la bella e rea figura, e quand'ella è ben piena del gran disio, che le deriva da tal vista, s'adira contro se medesima, per essere stata cagione dell'amoroso fuoco, onde poi tutta ardendo, piange e s'attrista. E conobbe il disio ch' era criato Per lo mirar intento ch'ella fece: Canz. E' m' incresce di me si duramente.

Ove tanta tempesta in me si gira. A questa comune lezione anteporrei quella del codice Riccardiano 1100 « in

me s'aggira, » che mi sembra più al caso e di una maggiore evidenza.

L'angoscia, che non cape dentro, spira Fuor della bocca si ch'ella s'intende: tutta si disfoga in sospiri e in pianto. Pianger di doglia e sospirar d'angoscia Mi strugge il core, ovunque sol mi trovo: V. N., xxxII.

3. La virtù che vuole, la mia volontà. «Per non soffrire alla virtù che vuole Freno a suo prode, Quell'uom che non nacque, Dannando sè, dannò tutta sua prole: » Par., vii, 25. Dante vuol indi farne intendere che la nimica figura (e perchè bella, piacente a se stessa) lo costringeva a cercare dove ella si trovasse in essere verace.

Va co' suoi piè colà, dov' egli è morto, va dinanzi a quegli occhi, onde viene l'amoroso lume che gli dà morte.

4. E se l'anima torna poscia al core, onde (come da sua dimora) s'era divisa, e m'ebbe lasciato senza vita, conosce che in quello stato rimase quasi tolta a se stessa, fuori d'ogni conoscenza e memoria.

E mostra poi la faccia scolorita (dacch' ei tremava tutto di paura) Qual fu quel tuono che mi giunse addosso (la ferita che mi percosse a morte). « Oh quam eius (illius mulieris) admiratione obstupui! Sed stupor subsequentis tonitrui terrore cessavit. Nam sicut divinis corruscationibus illico succedunt tonitrua, sic, inspecta flamma pulchritudinis eius, Amor terribilis et imperiosus me tenuit: » Ep. cit., II.

Cosi m' hai concio Amore in mezzo l'Alpi (del Casentino) Nella valle del fiume (Arno).... Mercè del fiero lume, che folgorando fa via alla morte. « Cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem, subito, heu! mulier, ceu fulgur descendens, apparuit, nescio quomodo, meis auspiciis undique, moribus et fortunæ confor mis: >> ib.

6. O montanina mia Canzon, tu vai; Forse vedrai Fiorenza, la mia terra, Che fuor di sè mi serra, Vôta d'amore e nuda di pietate. Indi ben si argomenta che l'Allighieri dovette aver composta questa Canzone in mezzo alle Alpi del Casentino, quando non era ancor piegata, non che vinta, la

crudeltà che lo serrava fuori del bello Ovile, ov' egli dormi agnello, Nimico ai lupi che gli danno guerra: Par., xxv, 3.

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O patria, degna di trionfal fama! come quella che nel suo crescere (nel montar su) vinse la stessa Roma pur tanto magnificata pe' suoi trionfi (Par., xv, 109), e che si celebrò qual madre de' magnanimi e valenti nel porre l'ingegno a ben fare: Inf., vi, 81.

St. 1. Più che in tua Suora, soverchia il dolore nel tuo seno; talchè, come già vincesti Roma nell'ardue opere di grandezza, or la vinci nel calare e correre a rovina: Par., xv, 111. Firenze vien qui riguardata solamente come Suora, quando invece nel Convito si predica come bellissima e famosissima figlia di Roma: 1, 3. Forse il Poeta quivi pensava alla semenza santa di que' Romani che rimasero prima in Firenze: Inf., xv, 76. Laddove al luogo presente sembra che rivolga pur il pensiero al simile modo con che esse due città vennero crescendo di virtù e di gloria.

Qualsiasi de' tuoi figli, che ami di vederti in onore, al sentire le tue opere inique, s'attrista e si vergogna. Le opere ladre qui ne richiamerebbero anche in mente quell'ironia, piena di disdegnosa amarezza: Godi Firenze, poi che se' si grande, Che per terra e per mare butti l'ali, E per lo inferno il tuo nome si spande. Fra li ladron trovai cinque cotali Tuoi cittadini, onde mi vien vergogna, E tu in grande onranza non ne sali: Inf., xxvi, 1.

Luci bieche e torte. Ciacco, disdegnando di più oltre parlare con Dante, li diritti occhi torse allora in biechi: Inf., vi, 91.

Alza il cor de sommersi, solleva i buoni, la cui lumiera non dà nullo splendore, Ma stan sommersi, ed è spregiata la loro virtù come vil fango.

Il sangue accendi a giusto sdegno e punisci i traditori; sicchè di nuovo ti adorni quell' affezione, per la quale io or

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