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>> maggiore delle libertà: perciocchè cosa è >> mai l'obbedienza alle leggi se non il libe>> ro passaggio della volontade all'azione? E » questo è appunto quello che le leggi ac>> cordano a coloro, che sono ad esse fedeli. » Se, a parer vostro, non sono uomini ve>> ramente liberi se non quelli che obbedi>>scono in tutto alla propria volontà, a qual >> setta volete appartenere, voi che profes>> sando l'amore alla libertà, congiurate di >> tutta forza contro il Principe posto a ser>> bare le leggi? O sciaurata schiatta di Fiesole, io ti veggio tornare nel nulla! Non » siete voi di terrore compresi ponendo men» te a ciò ch'io v'annunzio? Egli appare al >> primo aspetto di no: ma io veggio, che >> abbenchè per dubbi fatti e per fallaci detti >> facciate sembiante di nutrire speranza, pure >> non trovate minore travaglio; e che dai » vostri sonni vi risvegliate bene spesso di » spavento ripieni, sia che questo muova dal» le predizioni a voi fatte, sia che muova >> dagl'inefficaci vostri provvedimenti contro » la tempesta che vi romoreggia sul capo ». Termina l'Alighieri annunziando a'suoi concittadini, a' suoi nemici, che il tempo era omai trascorso, e che l'Imperatore, già sì clemente e si buono, null'altro omai avrebbe dato loro che il meritato castigo. Ventinove mesi più tardi il veleno di Buonconvento (1) diede una trista risposta alle minaccie del ghibellino scrittore.

18 Marzo 1311: la prima, che non ha data, dee con molta probabilità essere stata scritta nell'estate del 1310 alloraquando gli emissari d'Arrigo percorrevano per ogni verso l'Italia, per guadagnare al di lui partito quelli che si stavano indecisi, e per incoraggiarvi gli altri che ad esso si mostravan devoti. Or questa prima lettera della Contessa contiene de'ringraziamenti i più grandi per la particolar prova d'affetto che l'Imperatrice ha voluto darle colla participazione delle sue nuove medesime e di quelle pure del suo marito. La seconda esprime quant'ella prenda parte alla gioia dell'Imperatrice in essa destatasi pe'felici avvenimenti di che le tiene discorso (forse gli avvenimenti d'Asti, Novembre 1310); e la terza finalmente contiene nuove proteste di congratulazione, alle quali, sull'espressa domanda dell'Imperatrice, ella aggiunge alcune parole intorno le stato di sua salute, di quella del suo marito e de'figli. Noi veggiamo pertanto Margherita, la fedele compagna d'Arrigo, adoperarsi per la causa del suo marito, cercando di guadagnare a lui i cuori degl'Italiani, fra la nobiltà pure de'Guelfi. Nella sottoscrizione la Contessa si nomina Contessa Palatina di Toscana, titolo che allora si davano quasi che tutti i Conti Guidi. Noi adunque riconosciamo in essa la sposa del Conte Guido, madre di colui che nel Purgatorio VI, 17 è chiamato Federico Novello. Dalla dizione, Le tre ultime Epistole, più brevi che tutte dalle frasi e dall'andamento di queste Epile altre, non sono sottoscritte col nome di stole siamo indotti a credere ch'elleno siene Dante ma con quello della Contessa G. state scritte sotto la dettatura di Dante, che (Guidi) di Battifolle, e dirette all'Impera- in quel tempo trovavasi nel Val d'Arno sutrice Margherita di Brabante, sposa d' Arri-periore presso i Conti Guidi: per lo che l'amgo VII. Fra queste Epistole l'ultima, che fu senza dubbio scritta appresso le altre, è datata da Poppi, Val d'Arno superiore, il

(1) Secondo alcuni storici Arrigo mori in Buonconvento non per la febbre prodottagli dalla mal aria di Maremma, ma per veleno

mettere col Troya (2) la prigionia di Dante nella Bocca di Porciano (anno 1311), è cosa affatto improbabile.

datogli per opera de' suoi nemici, i Guelfi (2) Del Veltro allegorico, pag. 123.

SULL'EPISTOLA I.

A CINO DA PISTOIA.

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Primo a pubblicar colle stampe questa condo il Witte, fu la Canzone Voi che inEpistola fu il Prof. Carlo Witte, il quale tendendo, e che probabilmente avrà fatto la trasse dal Codice 8. Plut. XXIX della parole di quell'amore allegorico, che di Laurenziana. Fino dal 1740 il P. Lagomar-sensuale cambiandosi in intellettuale (testisini avea fatt' uso di questo medesimo Co-mone l'Autore stesso nel suo Convito) acdice, e nel 1759 l'Ab. Mehus aveane tratto cese dopo la morte di Beatrice, il petto la nota Lettera di Frate Ilario del Corvo dell' Alighieri. Che il Pistoiese Giureconsulto che tanta luce diffonde sulla storia della e Poeta, spenta la sua Selvaggia, passasse Divina Commedia, comechè abbia dato luo- ad altri amori di femmine, e fosse in quelli go a controversie non ancora ultimate. An- molto mobile ed incostante, la è cosa cerche il Canonico Angelo Maria Bandini, nel tissima, secondo la testimonianza de' suoi descrivere accuratamente quel Codice nel biografi, ed anche per le parole di Dante bel Catalogo de' MSS. Laurenziani, avea fatto medesimo (Son. LI): parole di questa di altre due Lettere (l'una all' Amico fiorentino, l'altra ai Cardinali italiani riuniti al Conclave di Carpentras), ma non erasi accorto ch'elle fossero di Dante Alighieri, ed aveale quindi asserite d'un anonimo. Il Mehus però nel tornar sopra quel Codice si avvide che la Lettera all'Amico Fiorentino era cosa di Dante Alighieri, e di questa scoperta fece parte al Canonico Dionisi, il quale se ne valse ben tosto, pubblicando nel quinto de' suoi Aneddoti, Verona 1790, quella interessantissima Epistola, che nella presente edizione è la V.

Ma in progresso il Sig. Conte Troya nell'esaminare su quel medesimo Codice la Lettera di Frate Ilario, che presentavagli il più forte argomento a risolvere la questione da esso trattata intorno al Veltro allegorico, s'avvide che non una, ma tutte e tre le Lettere or ora indicate appartenevano egualmente a Dante Alighieri. E nel dar di ció contezza alla Repubblica Letteraria, volle pubblicare nell' Appendice al Libro del Veltro un brano di quella fra le due inedite che sembrogli la più importante, e che qui appresso sta col numero IV.

Io mi credea del tutto esser partito

Da queste vostre rime, o Messer Cino,
Che si conviene omai altro cammino
Alla mia nave, già lunge dal lito.
Ma perch' io ho di voi più volte udito
Che pigliar vi lasciate ad ogni uncino,
Piacemi di prestare un pocolino
A questa penna lo stancato dito.
Chi s'innamora sì come voi fate,

Ed ad ogni piacer si lega e scioglie,
Mostra ch' Amor leggiermente il saetti.
Se 'l vostro cuor si piega in tante voglie,
Per Dio vi priego, che voi 'l correggiate,
Sicchè s'accordi i fatti a' dolci detti.

Nel fine poi di questa Epistola trovansi alcune parole di consolazione che Dante porge all' amico, pur esso sventurato, siccome quegli, che trovavasi in bando dalla sua patria. L'esilio di Cino fu dall' anno 1307 al 1319; laonde è certo, che la Lettera, la quale nel Codice Laurenziano non porta data, appartiene a tal intervallo di tempo. Ed abbenchè questa e le altre due Epistole, nello stesso Codice contenute, non esprima

Or tornando alla Lettera a Cino da Pi-no il nome di Dante se non per mezzo della stoia ( exulanti Pistoriensi ) dirò esser que- iniziale D seguita da un punto (Epistola D. sta una responsiva. Apparisce che Cino in- de Florentia), pure sì per quell' aggiunto terrogasse l'Amico suo, se l'anima nostra de Florentia, si per l'altro nella Lettera trapassare si possa di passione in passione. presente florentinus exul immeritus, e si E alla quistione proposta Dante rispose con specialmente pel lor contenuto, non possoquesta Lettera, la quale egli accompagnò no lasciare il minimo dubbio, ch' esse non d'un poetico componimento, che forse, se-appartengano a Dante Alighieri.

EPISTOLA I.

EXULANTI PISTORiensi (1) florenTINUS EXUL
IMMERITUS, PER TEMPORA DIUTURNA SA-
LUTEM
ET PERPETUAE CARITATIS ARDO-
REM.

I. Eructavit (2) incendium tuae dilectionis verbum confidentiae vehementis a me in quo consuluisti, carissime, utrum de passione in passionem possit anima transformari, de passione in passionem dico secundum eamdem potentiam, et obiecta diversa numero, sed non specie; quod, quamvis ex ore tuo iustius prodire debuerat, nihilominus me illius auctorem facere voluisti, ut (3) in declaratione rei nimium dubitatae (4) titulum mei nominis ampliares. Hoc etenim quam iucundum (5), quam acceptum, quamque gratum extiterit, absque importuna deminutione verba non capiunt (6): ideo, causa conticentiae huius inspecta, ipse quod non exprimitur metiaris.

II. Redditur, ecce, sermo Calliopeus (7) inferius, quo sententialiter canitur, quamquam transumptive more poetico signetur intentum amorem huius (8) posse torpescere atque denique interire (9), nec non (10) quod corruptio unius generatio sit alterius in anima reformati (11).

(1) Cino Pistoriensi, iurisconsulto, atque poetae, Dantisque amico.

(2) Ps. XLIV, 2.

(3) Cod. et.

(4) Cf. Aristot. De generat. et corrupt. II,

Th. 45.

(5) Cognitum in Cod., quod in iucundum mutavimus.

(6) Cod. Cavent, quod, licet duritie motus. in capiunt mutaverim, tamen potest defendi. Eadem sententia saepius apud Dantem recurrit ex. gr. in carmine, cui initium Amor che nella mente mi ragiona. Parad. XXII, 55, XXX, 16.

(7) Sermo Calliopeus et a Boccaccio in Epistolis, quas ex codem hoc nostro Codice primus edidit Ciampius, usurpatur, p. 62, 63. 65, 69. De sensu vocabuli apud Bocc. cf. editorem p. 31, quem tamen acu rem tetigisse haud facile adducor ut credam. Mihi quidem Calliopeus sermo nil nisi poeticus nobiliorque. Hoc enim loco Dantem ad carminum suorum unum vel alterum, illud fortasse quod incipit Voi che intendendo il¦ terzo ciel movete, quod epistolae subnectere secum constituerat, respicere, certissimum videtur.

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EPISTOLA I.

ALL' ESULE PISTOIESE IL FIORENTINO NON MERITAMENTe sbandito, PER LUNGHI ANNI SALUTE, E ARDORE DI PERPETUA CARITA

I. L'incendio dell' affetto tuo hatti mosso a parole di grandissima fidanza in me, cui di parere tu richiedesti, o carissimo, se di passione in passione l'anima nostra trapassare si possa; di passione in passione, io dico, secondo la potenza medesima e gli oggetu diversi nel numero, nou nella specie. Il qual giudizio, abbenchè dalla bocca tua potesse a miglior dritto venir pronunziato, tu volsti che dalla mia fosse emesso, affinchè nella dichiarazione di cosa assaissimo incerta, per te venisse un titolo al mio nome accresciuto. La qual cosa pertanto quanto gioconda, quanto accetta, quanto grata mi sia, senza un'importuna diminuzione le mie parole non valgono a significare: però, veduta la cagione di tal silenzio, tu stesso ciò che per me no è detto, comprenderai.

II. Ecco che qui appresso vengonti porte parole dette per rima, nelle quali per sentenze è dichiarato, (sebbene allegoricamente secondo i modi poetici si significhi ), che il proposto amore d'un solo oggetto possa affievolire, e alla fin venir meno, e che la cessazione dell'uno sia origine dell'altro che risorge nell'anima.

III. Et fides huius, quamquam sit ab expe- III. La prova di questo, comechè sia darientia persuasum, ratione potest et auctori- ta dall'esperienza, può ancora dalla ragione tate muniri. Omnis enim potentia, quae poste dall'autorità venire afforzata: conciossiacocorruptionem unius actus non deperit, natu- sachè ogni potenza, che, appresso la cessione raliter reservatur in alium. Ergo potentiae di un atto, non si spegne, naturalmente si sensitivae, manente organo, per corruptio- riserba in un altro. Adunque le potenze sennem eius actus non (12) depereunt, et natu- sitive, stando i loro organi, per la cessazione raliter reservantur in alium. Quum igitur po- dell'atto loro non spengonsi e naturalmente tentia concupiscibilis (13), quae sedes amoris in altro riserbansi. Ed avvegnachè la potenest, sit potentia sensitiva, manifestum est, za concupiscibile, che dell'amore è sede, sia quod post corruptionem unius passionis, qua una potenza sensitiva, manifesta cosa è, che in actum reducitur, in alium reservatur. Ma- appresso la cessazione d'una passione, da cui ior et minor propositio syllogismi, quarum in atto è ridotta, in altro riserbasi. La magfacile patet introitus, tuae diligentiae relin- giore e la minor proposizione del sillogismo, quantur probandae. delle quali facilmente appare il principio, alla tua diligenza si lascino a confermare.

IV. Auctoritatem (14) vero Nasonis, quarto de rerum transformatione, quae directe alque ad literam propositum respicit, sedulus (15) intueare; scilicet ubi ait auctor (et quidem (16) in fabula trium sororum contemtricum Numinis (17) in semine Semeles (18)) ad Solem loquens (qui Nymphis aliis derelilictis atque neglectis, in quas prius exarserat noviter Leucothoen diligebat : «Quid nunc Hyperione nate » et reliqua (19).

V. Sub hoc, frater carissime, ad potentiam, quod (20) contra Rhamnusiae (21) spicula sis potens te exhortor. Perlege, deprecor, fortuitorum remedia, quae ab inclytissimo Philosophorum Seneca, nobis, velut a patre filiis, ministrantur, illud de memoria sane (22) tua non defluat: « si de mundo fuissetis, mundus, quod suum erat, diligeret (23) etc. »

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(13) Cod. concupiscibiliter. (14) Cod. Autoritate,

(15) Cod. sed ut.

(16) Cod. subtraxit aut equidem, quae ex illis quae in textu reposuimus facile nasci potuisse intelliges, dum memineris veteres ita per compendia scribere; s. ubi ait aut., et quidem.

(17) Cod. contemtrix cum, cf. Ovid. Metam. III. 611.

(18) Puta tres Mineydes: Alcithoen, Arsippen et Leucippen.

(19) Metam. IV, 192. -Conveniamus tamen, locum Ovidii, ad quem provocat noster, si quem alium, quaestioni in qua versamur prorsus esse alienum.

(20) Cod. quam.

(21) Cod. Raynusie. Ovid. Metam. III. 406, XIV. 694, Trist. V. 8. 9. - Cf. Boc. caccium in Epistolis a Ciampio editis p. 62. et 84, editoremque ibidem p. 36.

(22) Cod. sana.

(23) Ioh. XV. 19.

IV. L'autorità poscia d'Ovidio, la quale direttamente e alla lettera il proposito nostro risguarda, tu diligente considera nel quarto delle Metamorfosi, là dove l'Autore, nel raccontare la favola delle tre sirocchie spregiatrici del divo figlio di Semele, parlando a Febo, ( il quale, poste in non cale le altre Ninfe dapprima dilette, or amava Leucotoe) dice quelle parole « Quid nunc Hyperione nate» e le altre che vanno appresso.

V. Oltre di questo che le nostre sensitive potenze risguarda, io ti esorto, fratello carissimo, ad esser paziente contro i dardi di Nemesi. Leggi, ti prego, i rimedi delle sventure, che dall'eccellentissimo frai filosofi, Seneca, a noi, come da un padre a' figli, son porti: e dalla memoria tua non caggia un momento quella sentenza: « se voi foste cosa » del mondo, il mondo ciò ch'è sua cosa amerebbe ec ».

SULL'EPISTOLA II.

AI PRINCIPI E POPOLI D'ITALIA.

Alla novella che Arrigo VII. di Lussemburgo, già eletto in Re de' Romani, stava in sulle mosse per calare in Italia, Dante accendendosi in nuove speranze, e vagheggiando il trionfo del proprio partito, prese a scrivere le Lettera presente, ch'egli indirizzò ai due Re di Napoli e di Sicilia Roberto e Federigo, ai Senatori di Roma, ai Duchi, Marchesi e Conti, ed a' popoli tutti d'Italia. Comincia dal significare la sua gioia del veder sorgere i segni di consolazione e di pace: annunzia quindi che il Re de' Romani già s'affretta alle nozze d'Italia, e che egli, siccome dolce ed umano Signore, avrebbe a tutti conceduto il perdono. Esorta le genti a dimostrarsi fedeli al nuovo Principe, perciocche chi resiste alla potestà imperiale resiste agli ordinamenti di Diò, e chi al divino comandamento ripugna è simile all'impotente che recalcitra. Va confortando coloro, che nell'oppressione piangevano, e rampognando quelli che si mostravano fermi nelle ire di parte. E poichè fino al giorno di questa Lettera, Clemente V erasi mostrato favorevole inverso d'Arrigo, il poeta dimenticò l'avere un di tenuto per simoniaca l'elezione di quel Pontefice, e a riunire gli animi de' Ghibellini e de' Guelfi volle esortare le genti ad onorare il Vicario di Pietro, vicina essendo l'ora, in cui le potestà della Chiesa e dell'Impero avrebbon posto fine a' mali d'Italia, e lui stesso cogli altri esuli restituito alla patria. Questa Lettera, non havvi alcun dubbio, fu da Dante, siccome tutte le altre, dettata in latino; ma l'originale è perduto. Rimane peraltro un'antica traduzione che qui si riproduce, e che fu primamente data alle stampe dal P. Lazzeri (Miscell. ex lib. MSS. Bibl.

Coll. Rom. Soc. Jesu T. I. Romae 1756). quindi riprodotta dal De Romanis nelle Note alla vita di Dante scritta dal Tiraboschi (Roma 1815), in seguito dal Moutier nel Vol. VIII della Cronica del Villani (Firenze 1823; ingannatosi in questo che supposela inedits, e finalmente dal Witte, insieme alle altre Lettere dell' Alighieri, nella summentovata edizione del 1827.

Il P Lazzeri e il Witte affermarono che questa, siccome l'altra ad Arrigo fu fatta volgare per Marsilio Ficino, traendo forse tale argomento dal vederle comprese nell'istesso Codice insieme alla traduzione del Trattato della Monarchia, che solo dal Ficino fu nella volgar lingua tradotto. Nonostante che questo argomento possa dimostrarsi inconcludente, come quello che si riduce a una semplice congettura, io stimo non dover su di ciò spender parole, poco calendomi che il traduttore sia questi piuttosto che quegli. Dirò solo che la lezione, la quale vien porta si da' MSS. e sì da' libri a stampa, è bene spesso oscura e disordinata a tal che è forza inferirne, che il volgarizzatore, chiunque si fosse traducesse troppo alla buona, o si valesse d'un testo, pieno, per colpa de' copisti, di scorrezioni e d'errori. Se un giorno avremo la ventura di discuoprirne l'origina le latino, io m'affretterò a farne una traduzione novella, che se non altro sia più ordinata e più intelligibile.

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