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la al medesimo non avremmo che la sola au- dell'esilio (volontario o coatto che fosse) del torità della veneta, non molto sicura, edi- Cantor di Madonna Selvaggia. Ma non apparzione delle Rime antiche del 1518, sulla cui tiene a noi il pronunziar su di ciò definitifede la riprodussero il Pasquali, lo Zatta e va sentenza: basta solo il poter dire che la i successivi editori. Non l'abbiamo rinvenu- Canzone, non avendo dato nessuno per supta in nessuno dei tanti Codici, da noi esa-porla di Dante, debbesi escludere dal Canminati, contenenti le Rime liriche di Dante, zoniere di lui.

nè col nome di Dante l'abbiam riscontrata nella Giuntina edizione del 1527, ma sivvero con quello d' incerto (c. 118 retro). Niccolò Pilli fino dal 1559 l' avea collocata fra le Poesie di Cino Pistoiese, del quale egli mise in ordine e pubblicò il Canzoniere; e il Prof. Sebastiano Ciampi la riprodusse nella sua più compiuta edizione del 1813: l'uno e l'altro editore si appoggiarono all'autorità di vari Codici.

Se le ragioni sovraccennate non bastassero a far conoscere, che manchiamo di dati sicuri od almeno probabili per attribuir la Canzone all' Alighieri, aggiungeremo che nella Raccolta de' Poeti del primo secolo della Raccolta italiana (Vol. I, pag. 96, Firenze 1816), ov'è riportata questa Canzone, si dà la notizia che l'antico Codice Vaticano 4823, il quale s'intitola ricopiato dall' antichissimo 3793, l'assegna a Guido Guinicelli. Inoltre collo stesso nome di Guido Guinicelli si legge nella Raccolta di Rime antiche toscane stampata a Palermo nel 1817, Vol. I, pag. 410.

CANZONE XX.
Perchè nel tempo rio.

CANZONE XXI.

Dacchè ti piace, Amore, ch'io ritorni.
CANZONE XXII.

L'uom che conosce è degno ch'aggia ardire.
CANZONE XXIII.

L'alta speranza che mi reca Amore.

Queste quattro Canzoni non sono di Dante, ma sivvero di Cino da Pistoia. Furono all' Alighieri malamente attribuite dall'inesatta edizione veneta del 1518: i Giunti per altro nella loro edizione del 1527 eliminarono dal Canzoniere di Dante questi illegittimi componimenti, e si contentarono di stamparli sotto il nome d'incerto autore in fine della loro Raccolta, il primo a c. 127, il secondo a c. 117, il terzo a c. 124, il quarto a c. 121. Di oltre venti Codici, da noi esaminati, nissuno porta pur una di queste quattro Canzoni col nome di Dante Alighieri, mentre in vari Codici fiorentini le veggiamo con quello di Cino. Fra le poesie infatti di La Canzone non appartenendo a Dante, questo Giureconsulto Poeta le stamparono il resterebbe a vedersi a chi degli altri due, Pilli e il Prof. Ciampi sull'autorità di più od a Guido od a Cino appartenesse. Sebbe- Codici. Il Cod. Bossi, il Cod. Bembo, il Cod. ne il suo merito non agguagli quello delle Medici, ora nella Trivulziana, ( dei quali dà Canzoni Dantesche, pure non gli cede d'as- ragguaglio il Prof. Ciampi nella sua edizione sai. È dettata in uno stile terso e polito; gli del 1813) le attribuiscono altresì al medeaffetti vi sono assai ben maneggiati cosic-simo Pistoiese Poeta. Il Corbinelli nella Belchè Guido Guinicelli bolognese, il quale, la Mano, il Trissino nella Poetica, il Quaper testimonianza dell' istesso Dante e di al- drio nella Storia della volgar Poesia, le citri, fu principe de' poeti dell' età sua (cioè tano pur essi non come di Dante, ma come del 1220), ed il quale colle sue dolci e leg- di Cino. Finalmente lo stile loro più verbogiadre Rime d'amore procurò l'avviamento so di quello delle Canzoni Dantesche e i del lustro dell' italica lingua e poesia, po- confronti paralleli che noi abbiam fatti, e che trebb' esser pur troppo l'autore di essa. Ma ciascuno, volendo, può fare da sè, ne certiqueste medesime ragioni militano d'altron- ficano, che non a Dante appartengono, ma de per farne credere autore pur anche l'a- sivvero al di lui grande amico, a Cin da Pimico di Dante, cioè Cino dà Pistoia. Chè stoia. anzi paragonato lo stile a quel dell'uno e a quel dell' altro, io vedo maggior conformità collo stile del Pistoiese, che collo stile del Bolognese; ed in tale opinione più fortemente mi fondo, in quanto che i versi della Stanza II,

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In proposito della Canz. XXII L'uom che conosce dobbiamo aggiungere un' osservazione, ed è questa: che Dante siccome poeta di sommo accorgimento, fu parchissimo nell'uso della Rimalmezzo; e dove ei l'adoprò, lo fece con grandissima grazia, come può vedersi nella Canz. V Morte poich'io non trovo e nella Canz. XV Posciach' amor. Ma Cino, prendendo in questo ad imitare Guido Cavalcanti e Guido dalle Colonne, scrisse più Canzoni, nelle quali fece sfoggio di simile rima intermedia. Ora la Canzone L'uom che conosce anche per questo lato sente più del la maniera di Cino, che di quella di Dante,

imperciocchè le Stanze della medesima sono | aspri monti dell' Appennino, lo che certamencosì architettate:

Perchè mai non avea veduto Amore,
Cui non conosce il core,-se nol sente,
Che pare propriamente una salute,
Per la vertute, della qual si cria;
Poscia a ferir va via-come un dardo
Ratto, che si congiunge al dolce sguardo.

CANZONE XXIV.

Oimè lasso, quelle treccie bionde.

te non accadde di Beatrice, perchè morta in Firenze, nè per quanto sappiamo, della lucchese Gentucca?

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Qual senso pertanto più naturale e più vero possiamo dare a queste parole, se non che

Tutte le medesime ragioni, or ora allega-il poeta parli della morte di Selvaggia, ac

così:

Treccie conformi al più raro metallo,

te per provare l'illegittimità delle quattro caduta nel tempo della ritirata sua col paCanzoni antecedenti, militano egualmente per dre in montagna? Ad esuberanza di argomenquesta; vale a dire, che fu pur questa ma- ti faremo osservare, che il ritratto della sua lamente attribuita a Dante dalla poco accura- donna, fatto qui dal poeta, è pienamente conta edizion veneziana del 1518, e che i Giun-forme a quello di Madonna Selvaggia, fatto ti saviamente la rifiutarono, limitandosi a ri- altrove da Cino. Nel Sonetto CLIV ei dice stamparla in fine della loro Raccolta a c. 128 col nome d'incerto autore; che col nome di Dante non trovasi nei molti Codici da noi veduti, mentre che in altri stà col nome di Cino; che il Pilli e il Prof. Ciampi appoggiati a buone autorità la produssero siccome del Pistoiese Poeta, e che qual componimento di Cino, e non già dell' Alighieri, la citano il Trissino, il Quadrio ed altri; che lo stile passionato sì, ma verboso, ne persuade appartenere al Cantor di Selvaggia, mentre che niun dato, niun argomento abbiamo per supporla del Cantor di Beatrice, perciocchè sulla mal sicura fede della veneta rammentata edizione la riprodussero il Pasquali e lo Zatta con altri.

Ma a togliere ogni scrupolo che nei più dubbiosi potesse tuttavia restare, basterà il dire che la donna della quale qui si piange la perdita, si è Selvaggia Vergiolesi, l'amorosa di Cino. Che questa donzella facesse non breve dimora alla Sambuca (Castello piantato sugli aspri monti dell' Appennino nella Pistoiese Provincia, nel quale erasi rifuggito per le cittadinesche fazioni il di lei padre Filippo), e che ella poi vi morisse, lo dicono gli scrittori della vita di Cino; lo dice lo storico Pandolfo Arfaroli, lo dice finalmente lo stesso Cino nelle sue poesie:

Com'io passai per il monte Appennino,
Ove pianger mi fece il bel sembiante,
Le treccie bionde, e'l dolce sguardo fino,
Ch'Amor con la sua man mi pose avante.
Cino, Son. LXXIX.
Io fui 'n sull'alto e'n sul beato monte,
Ove adorai baciando il santo sasso,
E caddi 'n su la pietra ohimè lasso!
Ove l'onesta pose la sua fronte.

Cino, Son. LXXV.

Ora, la donna, della quale nella presente Canzone si deplora la perdita, non si dice forse con vocaboli chiari e precisi morta in sugli

Fronte spaciosa e tinta in fresca neve,
Ciglia disgiunte tenuette e breve,
Occhi di carbon spento e di cristallo;
Gote vermiglie, e fra loro intervallo
Naso non molto concavato e leve,
Denti di perla e parlar saggio e greve,
Labri non molto gonfi e di corallo;
Mento di picciol spazio e non disteso,
Gola decente al più caro monile,
Petto da due bei pomi risospeso;
Braccia tonde, man candida e sottile,
Corpo non già da tutti ben inteso,

Son le bellezze di Selva gentile.
Nella presente Canzone va poi delineando l'im-
magine della stessa donna coi tratti medesi-
mi: ei va piangendo le treccie conformi al
metallo il più raro:

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nome di lui fu stampata nell' edizione di Rovetta 1823, nella quale si dà la notizia che fu tratta dal Cod. 7767 della R. Biblioteca di Parigi. Conforme a quel testo, che presenta una lezione oltremodo lacera e guasta, fu riprodotta nell' ultima edizion fiorentina 1830: noi però l'abbiamo alquanto rettificata coll'aiuto di altre anteriori edizioni, sconosciute all' editor fiorentino.

bio sulla sua originalità (1). Cotanto l'Alighieri si compiacque di questa sua filosofica Canzone, che volle rammentarla nel Paradiso, Canto VIII, v. 37. A maggiore intelligenza della medesima si potrà leggere il Trattato II. del Convito.

St. I, v. 1. Voi che intendendo, cioè Voi angeliche intelligenze, che ec.

condizione.

St. II, v. 2. Un soave pensiero, cioè il dilettoso pensiero di Beatrice, il quale mi portava a contemplare il regno de' Beati, ove si trova in gloria quella mia prima donna.

Ivi, v. 6. l'anima dicea: i' men vo' gire, cioè me ne voglio andare ove se ne gia il soave pensiero, di cui ha parlato di sopra.

Ivi, v. 7. Ora apparisce chi lo fa fuggire. Intendi: Ora apparisce il pensiero del filosofico amore intellettuale, il quale fa fuggire il primo dilettoso pensiero dell' amor sensuale.

La Canzone non è di Dante. Non solo non Ivi, v. 4. Il ciel che segue ec. Intendi: ritrovasi nelle antiche edizioni delle Rime Il cielo che gira per vostra virtù, (ch'è quelDantesche, non nelle più recenti del Pasqua-lo di Venere), mi ha tratto nella presente li, dello Zatta, del Caranenti, ma neppure nei tanti Codici che noi abbiamo esaminati. Se chi ordinò l'edizione Rovettana e la Fiorentina avesse gettato l'occhio almeno sull'edizione delle Rime di Cino da Pistoia, procurata dal Professor Sebastiano Ciampi in Pisa nel 1813; se avesse consultata almeno la Raccolta dei Poeti del primo secolo, Firenze 1816, e la Raccolta delle Rime antiche toscane, Palermo 1817, non sarebbe caduto nel grave abbaglio di reputare inedito e di Dante quello che già era edito e di Cino. E di Cino infatti dobbiamo dirla, non solamente perchè trovasi in tutte le edizioni del Canzoniere di lui; non solamente perchè vedesi siccome di Cino citata dal Trissino e dal Quadrio; non solamente perchè per lo stile apparisce essere del pistoiese poeta; ma perchè questa Canzone (nonostantechè nella Raccolta di Firenze 1816 sunnominata (Vol. I, pag. 154) e nell'altra di Palermo 1817 (Vol. I, pag. 288) stia col nome di Noffo d'Oltrarno), ma perchè, io diceva, da Dante Alighieri, da quell' istesso poeta, cui fu senza niun dato probabile attribuita, vedesi citata nella Volgare Eloquenza (lib. II, cap. V) non già come sua, ma come di altri, e precisamente come di Cino da Pistoia.

Se l'istesso Dante ne certifica, che la Canzone è di Cino, resterà dunque inutile un altro argomento, che potrebbe dedursi dall'avvertenza intorno la Rimal mezzo, fatta già per la Canzone XXII qui innanzi, e che potrebbe farsi pure per questa, perciocchè qui pure è sfoggio di rime intermedie.

CANZONE XXVI.

Voi ch'intendendo, il terzo ciel movete.

Ivi, v. 10. Questi mi face una donna guardare. Intendi: Questo nuovo pensiero mi fa guardare una donna, e quest' era la Filosofia, ec.

Ivi, v. 12. gli occhi d'esta donna, cioè le dimostrazioni d'essa Filosofia.

Ivi, v. ult. S' egli non teme angoscia di sospiri, Intendi: Se non teme fatica di studio.

St. III, v. 6. Questo pietoso, cioè quel primo pietoso pensiero che avea consolato l'anima del poeta dolente per la partita di Beatrice.

Ivi, v. 8. che tal donna gli vide? cioè che gli occhi di tal donna incontrarono i miei?

Ivi, v. 11. gli miei pari. Col Cod. Pal. e con altri leggo piuttosto le mie pari, perchè è l'anima che parla. E la dov' e' dice le mie pari, s'intende le anime libere dalle miserie e vili dilettazioni e dalli volgari costumi, d'ingegno e di memoria dotate. (Dante, Convilo, Tratt. 11, cap. XVI).

St. IV, v. 3. uno spiritel d'amor gentile, cioè un pensiero che nasce dallo studio filosofico.

St. V, v. 2. tua ragione, cioè tuo ragio

La presente Canzone è la prima di quelle riportate da Dante e comentate nel suo Con-namento, tua sentenza. vito: laonde non può esservi il minimo dub

Ivi, v. 3. forte, cioè oscura. Così nel

(1) Per provare l'originalità di questa e di pera sua, quando egli ce ne dichiara tutti i alcun' altra Canzone, l' Arrivabene (p. CCXX) sensi più ascosi, tutte le allegorie le più oricorre all'autorità o del Petrarca o del Tasso scure? Non per quelle Canzoni, la cui legitdel Trissino ec. Ma a che serve qui l'auto-timità era certissima, ma per quelle più parrità di questi Personaggi quando abbiamo l'autorità dell'istesso Alighieri? Può affacciarsi forse alcun dubbio sulla sua autenticità, quando Dante istesso ci manifesta esser queste o

ticolarmente, le quali erano e dubbie ed incerte, dovea l' Arrivabene impiegar le sue indagini e le sue critiche analisi.

Convito, Tr. I, cap. IV: e questa scusa basti | do Dante nel Convito (Tratt. III, cap. VII) di

alla fortezza del mio argomento,cioè all'oscurità, come bene interpetra il Perticari. Ivi, v. 8. diletta mia novella. Parole d'affetto dirette dal poeta alla Canzone. CANZONE XXVII.

Amor che nelle menti mi ragiona.

È questa la seconda Canzone del Convito. Dante la rammento pure nel Purgatorio Canto II, v. 112, e la citò nel trattato del Volgare Idioma lib. II, cap. VI.

spiega ciò che egli ha qui inteso, dice: un pensiero d' Amore il quale io chiamo spirito celestiale.

Ivi, v. ult. Intendi: Perocchè la donna, (da cui la fede nostra è aiutata), fu ordinata tale da eterno. Secondo quel passo dei Prov. 8, 23: ab aeterno ordinata sum.

St. ult. I primi quattro versi del Commiato della presente Canzone,

Canzone, e' par che tu parli contraro Al dir d'una sorella che tu hai; St. I, v. 2. della mia donna. Noi ricordiaChe questa donna che tant' umil fai, mo che questa donna, oggetto del secondo innamoramento dell'Alighieri, si è la Filosofia, Quella la chiama fera e disdegnosa, e che l'amore di essa, si è lo studio. A mag- fecero credere al Dionisi, (il quale acremente giore intelligenza dei mistici sensi della pre- sostenne che Dante, morta Beatrice, non prosente Canzone leggasi il Tratt. III del Convito. vasse più per femmine naturale passione) Ivi, v. 6. che ascolta e che lo sente. Ascol- che volessero accennare la Canz. VII Così tare, quanto alle parole, e sentire quanto alla nel mio parlar, e quindi che pur questa tratdolcezza del suono. (Conv., Tr. III, cap.III). tasse argomento filosofico. Ma che il poetico Ivi, v. 9-13. Ad intelligenza di questi ver- componimento, a cui quelle frasi alludono, si dice Dante (loc. cit., Cap. IV); non sia non già la Canzone dal Dionisi voluta pure a quello che l' intelletto non sostiene, ma la Ballata Voi che sapete ec., lo diciamo ma eziandio a quello che io intendo, suffi- nelle illustrazioni alla Ballata medesima; e che ciente non sono a parlare, perocchè la lin- la sorella della presente Canzone del Congua mia non è di tanta facondia, che dir po- vito, la sorella la quale parla in un modo tutto tesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona. contrario, sia una Ballata, e non già una CanIvi, v. 15. ch' entreran nella loda. Il Bi-zone, lo manifesta Dante medesimo nel Conscioni legge che interran. Io con leggerissimu inflessione leggerei che internan, cioè, che entran nella loda, vale a dire che trattan della loda; imperciocchè Dante nel Convito ripetendo in prosa ciò ch' egli avea già detto per rima, così va dicendo. E dico che se difetto fia nelle mie rime, che a trattare della loda di costei sono ordinate, di ciò è da biasmare la debolezza dell'intelletto e la cortezza del nostro parlare (Tratt. III, cap. IV).

St. H, v. 1. il Sol che tutto il mondo gira, secondo il sistema Tolemaico e Aristotelico, seguito dai Sapienti del Secolo di Dante.

Ivi, v. 5. Ogni intelletto di lassù, cioè ogni intelligenza del terzo cielo.

Ivi, v. 6. che qui, quaggiù in terra. St. III, v. 2. in Angelo che'l vede, cioè in Angelo che, stando in cielo, vede Dio, indicato per la virtù divina nel verso antecedente. Ivi, v. 3. Per donna gentile intende qui Dante la nobile anima d'ingegno, e libera nella sua propria potestà (Conv. Tr. III, cap. XIV). Ivi, v. 6. Un Angelo dal ciel. Leggasi piuttosto Uno spirto del ciel, come portano alcune stampe e vari Codici; imperciocchè quan

(1) Era affatto inutile e inconcludente il dire, come disse l'Arrivabene (Amori, p. 233), che i sensi di questa filosofica Canzone Le dolci rime ec. sono pur consentanei agli espressi nella prosa del Convito, ove leggesi che la stirpe non fa nobili le singolari persone, ma le singolari persone fanno nobile la DANTE. Opere Minori.

vito, Trattato III, cap. IX, e Tratt. stesso, cap. X. Quindi per questa parte non vien punto a distruggersi quanto per la Canzone Così nel mio parlar abbiamo detto, cioè che essa s' aggiri intorno ad un amore naturale e terreno.

CANZONE XXVIII.

Le dolci rime d'amor ch'io solia.

In questa Canzone, ch'è la terza ed ultima del Convito, tratta il poeta della vera Nobiltà. Dante la dischiarò lungamente col Trattato IV di quel suo filosofico libro (1).

St. I, v. 1. e segg. Comincia il poeta dicendo, che è costretto a lasciare le dolci rime, cioè le dolci maniere, le pacate persuasioni, perchè la sua donna, la filosofia non più vuol per adesso ragionare coi logici argomenti, ma tuonare colle rampogne e colle invettive, riprovando il giudizio falso e vile dei vanitosi e dei superbi, ec.

Ivi, v. 12. Valore. Qui si prende quasi potenza di natura, ovvero bontà da quella data (Conv. Tr. IV, cap. II).

Ivi, v. 13. gentile cioè nobile. Così il poeta

stirpe, inquantochè il Tratt. IV. del Convito
fu scritto appositamente dall' Alighieri per di-
spiegare i filosofici sensi di quel suo poetico
componimento. Era duoque ben naturale che
i sentimenti della poesia dovessero esser con-
sentanei a quelli della prosa, subitochè que-
sta era un commento a quella.
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poco dopo adopra il vocabolo gentilezza sic-chi, e più particolarmente dai prosatori, income sinonimo di nobiltà. tromessi nelle loro scritture volgari.

Ivi, v. 18, 19. chiamo quel Signore, ch'alla mia donna negli occhi dimora; cioè chiamo la verità che sia meco, la quale è quel Signore, che negli occhi, cioè nelle dimostrazioni della Filosofia, dimora (Tr. IV, cap. II). St. II, v. 1. Tale imperò, che ec. cioè Tale regno, tenne impero, il quale ec. Intende qui Dante di Federigo di Svevia Imperatore nel secolo XIII.

Ivi, v. 3. antica possession d' avere, cioè antico possesso di ricchezze, o, come dice Dante nel Commento, antica ricchezza.

Ivi, v. 4. Con reggimenti belli, cioè con belli costumi, belli nel parlare e negli atti bene ordinati.

Ivi, v. 7. E l'ultima particola della sentenza dell' Imperador Federigo ne tolse, cioè i bei costumi.

Ivi, v. 5. in età novella, cioè in persone d'età giovanile.

Ivi, v. 9. il perso, color turchino.

Ivi, v. 12, 13. nessun si vanti, dicendo: per ischiatta i' son con lei, cioè colla nobiltà; imperciocchè Qui genus laudat suum aliena laudat, Seneca; ed Ovidio Et genus et Proavos et quae non fecimus ipsi Vix ea nostra voco.

Ivi, v. 15. reo per reato. Così nel Poema Inf. IV, 40: Per tai difetti e non per altro rio Semo perduti; e Purg. VII. 7: l'son Virgilio e per null' altro rio Lo ciel perdei.

Ivi, v. ult. ben posta, cioè disposta in ogni parte perfettamente.

St. VII, v. 7. Adorna. il Trivulzio dice le ragioni per cui dee preferirsi la variante acconcia. Nell'un caso e nell' altro questa voce

Ivi, v. ult. che è morto e va per terra. In-è qui adoprata non come nome ma come vertendi che ha cessato di esser uomo, e va qual bestia aggirandosi sulla terra.

St. III, v. 5-8. Intendi : Similmente andò errato quegli che tenne impero, (cioè Federigo di Svevia nominato di sopra) poichè prima pone il falso, e quindi procede con errore ec. Ivi, v. 11. Perocchè vili son di lor natura. Ed essendo vili ne viene che per la viltà sono contrarie a nobiltà. E qui s'intende viltà per degenerazione, la quale alla nobiltà si oppone (Tratt. IV, cap. X).

St. III, v. 5, par che s' offenda, cioè par che si confuti da per sè stessa.

Ivi, v. 9, 10. Ancor segue.... che siam tutti gentili ovver villani. Così disse Boezio:

Omne hominum genus in terris
Simili surgit ab ortu:
Unus enim pater est,
Unus, qui cuncta ministrat;
Mortales igitur cunctos
Edit nobile germen, etc.

Ivi, v. 15. i lor diri, cioè i loro parlari, i loro discorsi. Diri plurale della voce dire. Così l'istesso Dante nel Sonetto XXV:

A danno nostro e delli nostri diri. St. V, v. 1. Che nobiltà vien da virtù. Così Giovenale, alla cui autorità pure appoggiasi Dante nel relativo commento, cantò: Nobilitas sola est atque unica Virtus:

Paulus vel Cossus vel Drusus moribus esto; Hos ante effigies maiorum pone tuorum: Praecedant ipsas illi, te consule, virgas, etc. Ivi,v.5. ch'en, ch'enno, cioè che sono, modo che si conserva ancora dai nostri contadini.

bo, ed in significato di ornare, abbellire. St. ult., v. 3. la donna nostra, la Filosofia. Ivi, v. ult. dell' amica vostra, della vera Nobiltà, amica della Filosofia, della Virtù. CANZONE XXIX.

Io non pensava che lo cor giammai.

Questa Canzone fu malamente attribuita a Dante dalla veneta edizione del 1518. I Giunti però la rifiutarono siccome lavoro del Cantor di Beatrice, e la stamparono in fine della loro Raccolta a c 125 sotto il nome d'incerto autore. Non l'abbiamo rinvenuta in nessuno dei Codici da noi esaminati, contenenti Rime di Dante Alighieri. All'incontro nei Codici Laurenziani 20, 34, 37 (dice Antonio Cicciaporci nell' edizione delle Rime di Guido Cavalcanti da lui procurata in Firenze nel 1813), nel Riccardiano 1050, e nei Magliabechiani 1108 e 1187 Palch. 18 e nel Ghigiano, data a Guido Cavalcanti. Di più in quest' ultimo Codice trovasi la seguente nota: « Da » alcuni questa Canzone viene attribuitaa Cino » da Pistoia, ma per quello si vede nella » terza Stanza, pare debba essere di Guido, » poichè quando dice Amor, tu sai allora » ch' io ti dissi ec., accenna il Sonetto V, >> che incomincia Gli miei folli occhi ec. »

Sette Codici adunque l'attribuiscono a Guido Cavalcanti, mentre non la potremmo dare a Dante Alighieri che sull' autorità della mal sicura veneta edizione. Lo stile meno vibrato di quello di Dante la fa credere piuttosto di Guido, fra le rime del quale la stampò con tutta sicurezza il sullodato Cicciaporci nella rammentata edizione a pag. 31.

Anche il Muratori (Perfetta poesia vol. St. VI, v. 4. e converso, cioè al contra- I, pag. 12, Ven. 1724) citando questa Canrio. È un latinismo, ed uno di quegli av-zone, dice d'averla veduta in un MS. col nome verbi, i quali, come e contrario, ex oppo- di Guido Cavalcanti. E col nome di Guido si sito, ab aeterno ec. erano dai nostri anti- trova pure nella Raccolta dei Poeti del primo

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