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to spesso il suo nome nel mio pensiero. E nel fine di questa quinta parte dico donne mie care, a dare ad intendere che son donne coloro cui parlo. La seconda parte incomincia Intelligenza nova; la terza Quand'egli è giunto; la quarta Vedela tal; la quinta So io ch'el parla. Potrebbesi più sottilmente ancora dividere, e più fare intendere, ma puossi passare con questa divisione, e però non mi trametto di più dividerlo.

Oltre la spera, che più larga gira (1),
Passa il sospiro, ch'esce del mio core;
Intelligenza nova, che l'Amore
Piangendo mette in lui, pur su lo tira:
Quand'egli è giunto là dov'el desira,
Vede una donna che riceve onore,
E luce sì, che per lo suo splendore
Lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando il mi ridice,
Io non lo intendo, sì parla sottile

(1) Intendi: Il sospiro ch'esce dal mio cuore tanto si alza, che va al di là della nona

Al cuor dolente, che lo fa parlare. So io ch'el parla di quella gentile Perocchè spesso ricorda Beatrice, Sicch'io lo intendo ben, donne mie care.

Appresso a questo Sonetto apparve a me una mirabil visione, nella quale vidi cose, che mi fecero proporre di non dir più di questa benedetta, infintantoche io non potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sa veracemente. Sicchè, se piacere sarà di Colui, per cui tutte le cose vivono, che la mia vita per alquanti anni perseveri, spero di dire di lei quello che mai non fu detto d'alcuna. E poi piaccia a Colui, ch'è Sire della Cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria della sua Donna, cioè di quella benedetta Beatrice che gloriosamente mira nella faccia di Colui, qui est per omnia saecula benedictus.

ed ultima sfera (il primo Mobile), e giun ge all'Empireo.

FINE

DISSERTAZIONE SULLA MONARCHIA

Quando nel 1311 Arrigo di Lussemburgo ( gare, le quali sventuratamente in que'secoli

imperatore romano scese in Italia, Dante a sostenere e ad afforzare il ghibellinismo, cui egli apparteneva già da più tempo, mandò in pubblico il presente trattato della Mo narchia, il quale,secondochè opina il Witte, era stato da lui scritto varii anni davanti(1). In esso si prefigge l'autor di provare: 1° che al ben essere dell' umana società e all' otti ma disposizione del mondo è necessaria la monarchia; 2o che l'officio della monarchia, o sia dell'impero, appartenne ed appartiene di dritto al popolo romano, e per conseguenza al re de' romani, ossia all'imperatore; 3° che l'autorità del monarca dipende immediatamente da Dio, e non da alcun suo ministro o vicario (2). Tanto omai note sono le

(1) Vedi la nota, posta in fine di questa Disserta

zione.

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(2) Il libro della Monarchia di Dante, sebbene

fervevano fra il sacerdozio e l'impero, che nissuno farà per certo le meraviglie, vedendo come Dante consacri tutto il terzo libro di questa operetta a provare, che l'autorità dell'impero non può da quella del sacerdozio aver la sua origine. Ma come questa quistione, alla quale oggi non v'ha più chi pensi, potrebbe per altro lato trarre alcuno in inganno (e già vel trasse di fatto), presentando a prima vista il sospetto, che Dante limiti la potestà del sommo pontefice alla spirituale soltanto, nè conceda che questi possa ad un tempo essere e sacerdote e sovrano, così io credo opportuno il dire intorno a ciò due parole.

Dico adunque, che nel libro di Dante non è espressione, la quale chiarifichi quel sospetto e l' avveri: che per l' opposito vi se ria sentenza porgono tutto l'appoggio. La ne rinvengono alcune, le quali alla contranon quanto la Divina Commedia famoso, ba diritto di farsi apprezzare come parto di quella mente metesi del ghibellino scrittore intorno questo desima, da cui uscì in luce quel maraviglioso comsubietto si è, che la Chiesa non ha virtù di ponimento.... La lettura delle opere d' Aristotile e dare autorità all' imperatore romano: se l'adell' Aquinate avea rivolta la mente dell' Alighieri vesse, l'avrebbe o da Dio, o da altro impealle scienze sociali;ma tra l'empirismo del primo,e ratore, o dal consentimento di tutti gli uoil razionalismo del secondo, egli si elevò ai più alti mini, od almeno della maggior parte (libro concetti della filosofia del diritto, ed apprezzò con savio temperamento e con squisita sagacità ciò ch'eIII, § 13). Ma non l' ha da nessuno di essi, sige dalla ragione la struttura organica de'corpi poe tanto meno da altro imperatore; percioclitici, e la pericolosa indole delle passioni nemi- chè questi, chiunque si fosse, o Costantino, che dell' ordine che la scompigliano. Il suo libro o Carlo Magno, od altri, non poteva trasfepuò dirsi il primo, nel quale le scienze sociali abbiano posto in alleanza tra loro i bisogni della spe-l'imperatore ricevere, la giurisdizione imrire nel pontefice, nè il pontefice poteva dalculazione e quelli dell'esperienza; della qual veri. tà nelle prime linee del libro dell'Alighieri le tracce manifeste s'incontrano; avvertendo egli, esservi nello scibile umano cognizioni, le quali, vere di loro natura, possono bensì dall'ingegno degli uomini specularsi, ma non costruirsi; ed altre esserve. ne, le quali, di lor natura essenzialmente pratiche, possono sperimentalmente formarsi; tra le quali cognizioni egli colloca la relativa alle materie po. litiche; col che avverte il lettore, aver egli nella sua opera inteso di costruire una politica....

» Lo scopo filosofico del lavoro si manifesta dal suo principio. Lo scrittore riconosce la necessità, che un secolo accolga le cognizioni di quelli che lo precederono, e ne aumenti la massa ad utilità dei secoli che verranno: chiama parasiti coloro,i quali si empiono della dottrina del tempo passato senza farla fruttare a vantaggio delle cose pubbliche del tempo loro. Il Machiavelli e il Montesquieu non po tevano avere una professione di fede filosofica più ampia e più alta di questa dell' Alighieri. Egli cerca un principio: lo ravvisa in un fine, dalla natura del quale deduce quella de' mezzi necessarii per giungervi. Questo fine è la civiltà, verso la quale la natura umana ba una irresistibil tendenza. Ma que sta tendenza ha bisogno di direzione; e poichè la DANTE. Opere Minori.

periale, perocchè questa non si può scinde-
re, nè permutare, nè dissipare (libro III,
S 10 e segg.). Dopo di che soggiunge: Nien-
tedimeno poteva l'imperatore, in aiuto
della Chiesa, il patrimonio e le altre cose
deputare, stando sempre fermo il superio-
re dominio, l'unità del quale non soffre
divisione. E poteva il vicario di Dio rice-
vere, non come possessore, ma come di-
spensatore de frutti a' poveri di Cristo, la
qual cosa sappiamo essere stata dagli Apo-
stoli fatta. Quello dunque che l'imperatore
non poteva trasferir nel pontefice era l'auto-
rità imperiale, non il patrimonio e le altre
cose, le quali poteva benissimo deputare a
civiltà non è nè può essere d'una parte degli uomi-
ni, ma dev'esser di tutti, l' Alighieri a quest' astra-
zione della civiltà ne aggiunge una nuova e più
grande, quella della umanità, per la quale, e non
per tale o tal altra frazione di uomini, in
Scrivere. (CARMIGNANI, Dissertazione s"
chia di Dante, nell'edizione Torel Tox

Soltanto adunque intendea l' Alighieri di combattere le pretese della curia papale; le quali, per dir vero, erano assai stravaganti, poichè i papi pretendevano non solo dare e togliere i regni, e faceanlo veramente, ma talvolta pure pretesero che risedesse in essi la imperiale autorità. È noto infatti come Giovanni XXII ripetea sempre nelle sue Bolle d'esser egli vicario dell' impero, né doversi perciò ritenere per imperatore Lodovico di Baviera e Federigo d' Austria.

modo di feudo libero, rimanendo soltanto nell'impero l'alto dominio. Dunque ciò che la Chiesa avesse ricevuto dalla liberalità degl' imperatori, lo avrebbe tenuto di dritto. Ma le donazioni degl'imperatori non si rimanevano per Dante allo stato d'ipotesi: elle erano un fatto; e già nella Commedia (Inf. | canto XIX, v. 115 csegg.) aveva esclamato: « Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre Non la tua conversion, ma quella dote Che da te prese il primo patre: » Venendo ora a toccare alcun poco l'altra E qui (lib. III, S 12), dopo aver mostrato, come l'impero esisteva, e in tutta la sua for- quistione intorno il subietto della sua tralza si stava, innanzi che la Chiesa di Cristo tazione, vale a dire la monarchia, dico che si fosse; donde appalesavasi l'assurdo degli per essa intende l' Alighieri la monarchia ecclesiastici, perchè, vere essendo le loro universale,poichè, com'egli s'esprime (libro pretese, l'effetto avrebbe preceduto alla cau-III), nell' unità dell' universale monarchia sa, con queste parole prosegue: Se Costantino non avesse avuto autorità, quelle cose dell' imperio che deputò alla Chiesa in patrocinio di essa, non avrebbe potuto di ragion deputare; e così la Chiesa ingiusta mente userebbe quel dono... Ma il dire che la Chiesa cosi usi male il patrimonió a sè deputato, è molto inconveniente. Adunque è falso quello di che questo conseguita.

Le riportale espressioni del ghibellino scrittore dicono pertanto chiaramente, la Chiesa tenersi di dritto tutto quanto le fu dagl'imperatori donato: onde resta affatto escluso il sospetto, che l'argomento del libro poteva a prima vista indurre in alcuno. Non intendeva adunque l' Alighieri che nel pontefice non potessero unirsi la spirituale e la secolare potestà per modo che egli si fosse di dritto sovrano ne' proprii Stati, ma sibbene escludeva l'autorità universale sopra gli Stati altrui. Egli teneva, secondo l'opi: nione vera e cattolica, e secondo il detto di San Paolo omnis potestas a Deo venit, che ogni principe temporale abbia, in quanto all'esser di principe, una potestà immediata da Dio, non mediata per il pontefice. Anzi, mentre Dante conchiude la combattuta tesi, protesta, che questa quistione non si deve così strettamente intendere, che l'imperatore romano non sia al pontefice in alcuna cosa soggetto, conciossiachè questa mortale felicità alla felicità immortale sia ordinata. Cesare adunque (egli esclama) quella reverenza usi a Pietro, la quale il primogenilo figliuolo usare verso il padre debbe, acciocchè egli illustrato dalla luce della palerna grazia, con più virtute il circolo della terra illumini (libro III, presso la fine) (1).

(1) Roma era un nome e una località: eravi un pontefice che si diceva romano, ed eravi un imperatore che pur romano dicevasi. Dante non lodava, ma non impugnava la temporale sovranità del pontefice negli Stati a lui asseriti donati dalla liberalità degl' imperatori. Ma un animo generoso, ed educato ai classsici studii, poteva essersi abituato a connettere l'idea d'impero con quella di Roma, e poteva suonare nella mente dell'Alighieri quel ver

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consiste l'imperio. La sovranità imperiale, derivata dal principio d'unità che regola l'universo, era quel tipo sul quale, secondo l'autore, dovca modellarsi il sistema civile e il legame delle diverse genti d' Italia, anzı di tutte quante le nazioni del mondo (1).

so del suo maestro Virgilio: Tu regere imperio populos, Romane, memento. Questo suono era però sommerso nel rumore, si temuto da lui, delle due

fazioni, le quali disputavano colle armi alla mare,

se la suprema protezione de'municipii in Italia dovesse spettare o all'imperatore romano, o al romano pontefice. Ma questo stato di cose non era en patibile col principio dell'unità del potere politica professato da Dante. In queste circostanze egli, m conoscendo la suprema autorità pontificia nella èrezione spirituale delle anime; dicendo che in questo riguardo l'imperatore doveva rispetto, venerazione ed obbedienza al pontefice; poneva in bilancia l'autorità temporale estesa all' Italia dell'uno, e l'autorità suprema dell'altro per determinare a qual delle due dovesse competere la preferenza. L'Al

ghieri poteva sciogliere il nodo coll' autorità di sas

Tommaso d'Aquino; ma egli non vide che i Decre talisti, e con poca prudenza pretese sopraffarti cel la erudizione storica e colla classica, nella quae sentiva tutta la propria superiorità.» (CARMIGIAN, loc. cit.)

lettivo, come l'ottimo, e come quello che alla d(1) « L'Alighieri dà alla civiltà un carattere gnità dell' umana natura conviene, e crede mem necessari a ottenerlo la tranquillità e la pace. Ma la direzione, di cui ha bisogno la civiltà, deve par tire dall'impero. Le autorità d'Aristotile, d'Omen,

d'Averroe determinano lo scrittore ad adouare i principio dell'unità, senza la quale non può essere è principio direttivo nè pace. Dante adotta il dom ma filosofico di Pittagora, il suo Monas, il princ pa dell'unità, come creatrice, ordinatrice e conserva. trice di tutto ciò ch'è buono e pieghevole all'orf · ne; e rigetta il Dias, il principio della duas, a duali smo, come producente disunione e disordine. Sono degui d'osservazione gli sforzi ontologio, pe sti in opera dallo scrittore per adattare al goveras delle volontà umane il sistema teogonico, costegonico e psicologico di Pittagora. Con finissimo ar corgimento, onde dare ad oggetti material: il formale dell'unità ontologica, incomincia colle ziete. le quali possono concepirsi come formanti una te se unica, e finisce colle fiamme come le pas lari. a concepirsi riunite in un solo e medesimo apice.

L'applicazione del principio dell'unità alle cost politiche conduce l' Alighieri a rigettare dalla mu teoria tutte le forme di governo, che non te d

Non intendeva egli già d'accordare al supremo imperante un assoluto e illimitato potere; ma voleva che questi fosse siccome capo e moderatore di tanti governi confederati, i quali da per sè colle proprie leggi si reggessero, al tempo stesso che dipendevan da lui, quasi centro e anima vivificante di molte membra, destinate a fare, per la general forza ed unione, un solo vastissimo corpo. È da considerarsi (egli s' esprime, libro I) che quando si dice, che per uno supremo principe il genere umano si può governare, non s' intende che qualunque minimo giudicio di qualunque villa,possa da quell'uno senza mezzo disporsi, conciossiachè le leggi municipali alle volte manchino e abbiano bisogno di direzione: imperocchè le nazioni, regni e città hanno tra loro cerle proprietà, per le quali bisogna con differenti leggi governare...chè altrimenti conviene regolare gli Sciti, altrimenti i Garamanti. Da questo brano e da altri pure che qui non riporto, si vede chiaro, che egli non voleva un assoluto padrone, ma un magistrato supremo, che si conformasse alle leggi delle varie nazioni, dappoichè se le

suscettibili; la democrazia, l' aristocrazia, l'oligarchia, che egli chiama forme di governo oblique, vale a dire composte di forze nascenti da cupidigie parziali, divergenti tra loro, e non suscettibili d'esser dirette ad un punto di riunione reciproca di parti al tutto; di dilezione unica, vale a dire di ve duta di bene generale; e ravvisa tutti questi requisiti di concordia e di pace nella monarchia, avendo forse presente all' animo la vera e spaventevole sentenza di Lucano, omnisque potestas impatiens consortis erit, che senza citarlo, o averlo potuto citare, spessissimo esprime. Non bisogna creder però, che l' Alighieri rigetti la forma democratica di governo in modo assoluto. Egli la rigetta per la impossibilità di farne un governo comune agli uomini tutti uniti in un solo e medesimo corpo poli tico; ma non esclude, anzi ammette, che i molti corpi politici, ne' quali si divide e suddivide l'umanità, abbiano ciascuno il regime politico, che loro rispettivamente conviene.

leggi non son dirette all'utile de'governanti, non han di leggi che il nome, Si ad utilitalem eorum qui sub lege, leges directae non sunt, leges nomine solo sunt,re autem leges esse non possunt (lib. II) (1).

E quantunque i ghibellini sembrino in apparenza meno italiani de' guelfi (poiché, come molti dicono, questi stavano per un principe nazionale, qual era il papa, e quelli per uno straniero qual era l'imperatore), pure la cosa era in sostanza il contrario. E questo apparirà per due ragioni, delle quali la prima fia la seguente. Il re dei Romani, ch'assumeva quindi la dignità d' imperatore, faceasi, nella guisa stessa che il papa, per elezione. E mentre la scelta, per antica consuetudine, andava a cadere sopra personaggio di famiglia alemanna e cattolico, pure nè nella Bolla d'oro, nè negli statuti che ad essa precessero, io rinvengo che ne dovesse venir escluso quel principe che tenesse sede e dominio in Italia: anzi noi veggiamo che nel secolo XIII fu assunto all' Impero Federigo II della casa di Svevia, nel mentre ch'egli era re di Sicilia ed in Sicilia ed in Puglia si stava. Oltredichè, dentro a' confini d'Italia e meglio in Roma, dovendo a giudicio di Dante (Purg., VI ec.), tener la sua stanza e la propria sua sede l'eletto monarca, poteva dunque e dovea per più lati considerarsi siccome italiano, ancor ch' ei nol fosse o per famiglia o per nascita. È chiaro dunque che i ghibellini non teneano l'imperatore e re dei Romani per istraniero. Che se tale egli fosse invero da dirsi, non dovrebbe dirsi pur tale il pontefice, che il più delle volte veniva da fuori, e che i guelfi, ciò non ostante, come principe nazionale consideravano ?

(1)« L'edifizio politico eretto su queste basi presenta la soluzione del problema sociale in un accordo comune di cose tra loro dissociabili, l'impero e la libertà: problema, al parer di Tacito, sciolto di fatto, se non di diritto, dagl' imperatori romani de

Il principio dell'unità si presentava alla mentegni di questo nome; lo che risponde al mal misura. dell' Alighieri da tutte le parti : dalla filosofia pittagorica, dal simplex dumtaxat et unum, dalla teoria e dal sentimento del bello ideale: dalle quali astrazioni passando a quella della bontà, compiacevasi di ravvisarla in un monarca del genere umano, comechè gli sembrasse che questa posizione d' un uomo tenga da lui lontana qualunque cupidigia perturbativa dell'ordine,e impeditiva della retta amministrazione della giustizia; la quale perciò egli pensava non potersi sperare che sotto il monarca. Non può negarsi, che la monarchia dell'Alighieri, considerata come teoria politica, presenti spesso l' aspello d'un'astrazione, e un complesso d'astrazioni accessorie, che le danno il carattere d'un lavoro prettamente ideale. Ma questo carattere è più quel io della filosofia professata da lui, che quello del partito a cui si suppone che egli abbia voluto servire. Nel giudicar del suo libro non è stato tenuto conto nè delle speciali circostanze di luogo e di tempo, nelle quali trovavasi, e che lo determinarono a scrivere; nè del carattere storico razionale della sua teoria politica; nè del vero suo personale carattere; nè dell' indole di ciò che vi ha d'ideale nel suo lavoro. » (Carmignani, loc. cit.)

to rimprovero fatto a Dante d'aver co'suoi ghibellini progetti posto il mondo in pericolo di gemere sotto il pazzo e brutal dispotismo de' tiranni di Roma. Dante applica il suo principio dell' unità del potere a più società civili, le quali hanno nella lo. ro struttura organica i lor diritti intangibili e la lor libertà. Nel suo sistema l'impero è un' egida che le cuopre, e sotto alla quale un comune interesse le obbliga a starsi unite in nodo di fraterna concordia. Dante ha considerato il suo sistema come utile ai progressi della ragione, per l'epoca de' quali, qualora lo sperarli non fosse disperatissima cosa, egli non ha scritto progetti..... Ma ciò che ridonda a maggior gloria di Dante, e risponde ai rimproveri di quasi fatuità fatti alla sua teoria politica, è che questa teoria medesima alla fine del secolo decimosettimo fu concepita in identici termini dalla gran mente di Leibnitz in una sua opera, pubblicata sot. to il finto nome di Cesarino Furst-Ner, nella quale sostenne, dover tutti i popoli inciviliti, senza distin. zione di grandi o di piccoli Stati, riconoscere una supremazia spirituale nel romano pontefice, ed una temporale nell'imperatore germanico.» (Ca NI, loc. cit.)

La seconda poi, ch'è da valutarsi forse più, della prima ragione, consiste nel vedere che scopo de'ghibellini era quello di riunire tutte in un corpo le discordi membra d' Italia, e farle, quasi raggi, nel comun centro d'una moderatrice suprema potestà convergere. Vedea Dante tornar vana la speranza che ogni singolo municipio d'Italia mantener potesse la propria libertà e indipendenza senza convenire in un capo, cui afforzassero l'autorità delle leggi e la potenza dell' armi. Ond'è ch'ei ripeteva quella sentenza de sacri libri, che ogni regno in sè diviso sarà desolato;ed amantissimo, siccome egli era, delle antiche glorie italiane e della grandezza del nome romano,ei considerava che soltanto pel mezzo d'una general forza ed autorità poteva l'Italia dalle interne contese e dalle straniere invasioni restarsi sicura, e recuperare l'antico imperio sopra tutte le genti. Coll'esempio allora presente non lasciava di persuadere, che la divisione in tanti piccoli Stati, senza una potestà a tutti superiore, era la causa che commettea discordia tra le città, e le urtava fra loro in perpetua guerra, le proprie forze invan consumando. Sicchè, non volendo l'Italia soffrire un' altra potenza regolatrice, verrebbe in breve a cadere sotto il dominio straniero; e così a nazioni un tempo già a lei soggette resterebbe sottoposta quella, che pel corso di mille anni era stata la signora del mondo. Per questo appunto nella sua grave epistola, indiritta, nella venuta d' Arrigo, a principi e popoli italici, esclama: Rallégrati oggimai, Italia, di cui si dee avere misericordia, la quale incontanente parrai per tutto il mondo essere invidiala, perocchè il tuo sposo, ch'è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il pietosissimo Arrigo, alle tue nozze di venire s'affrella. Asciuga, o bellissima, le tue lagrime, e gli andamenti della tristizia disfù, imperocchè egli è presso colui che ti libererà dalla carcere de'malvagi. E mentre Dante invita gl'Italiani a riconoscere in Arrigo l'unico loro regolatore, non esige però che essi pongano nel di lui arbitrio le loro libere costituzioni: Vegghiale tulli (egli dice), e levatevi incontro al vostro re, o abilatori d'Italia; e non solamente serba te a lui ubbidienza, ma come liberi il reggimento (1). A questo dunque eran volte le

(1) La costituzione di Roma, succeduto alla repubblica l'impero, divenne una repubblica militare; ma in questa repubblica i municipii avevano un'indipendente esistenza politica. Erano essi auto. nomi; il popolo partecipava al potere legislativo, eleggeva nel proprio seno magistrati a guisa della repubblica madre; la rappresentanza municipale regolava le pubbliche imposte, all' esazione delle quali vegliavano i decurioni; finchè nel declinar dell'impero divennero debitori in proprio delle somme che il dominatore politico domandava. Gl' imperatori fino ai tempi di Adriano rispettarono tanto l'indipendenza de' municipii, che non sdegnarono,

mire e gli sforzi del magnanimo ghibellino, di procurare il riordinamento, l'unione e la gloria d'Italia; e nella dolce lusinga che cio fosse per accadere vicino, ed allo scopo di preparare la sospirata riconciliazione fraterna, e far tacere le ire intestine ognor rinascenti, scriveva appunto quella epistola, e pateticamente gridava: Perdonate, perdonale oggimai, carissimi, che con meco avete ingiuria sofferta.

Nè soltanto al vantaggio d'Italia, ma al ben essere di tutta l'umana generazione pensava Dante che fosse necessaria l' universal monarchia. Un solo principato ( dic'egli nel Convito, tratt. IV, cap. 4) è uno principe avere, il quale tutto possedendo, e più desiderare non possendo, li re tenga contenti nelli termini delli regni, sicchè pace intra loro sia, nella quale s posino le cittadi. E questo principio egli ripete ed a lungo sviluppa nel primo libro della presente operetta. Laddove pertanto è pace, quivi si trova pubblica felicità; ma quivi solo è pace laddove è giustizia. Ond'è che in effetto tanto più ampiamente dominar deve giustizia, quanto più sia potente l'uom giusto preposto ad amministrarla: dunque la miglior guarentigia della pubblica felicità risiede nella massima potenza del supremo imperante. E poichè tolta la cupidigia, nulla rimane d'ostacolo alla giustizia, il monarca, il quale nulla abbia a desiderare, esser deve giustissimo per necessità (1). Desso è causa

sebbene signori del mondo, di accettare le cariche municipali del paese ov'erano nati.

» Non si può far dunque il rimprovero alla teoria politica dell'Alighieri d'aver sacrificati all'amore di parte i sacrosanti diritti dell'umanità, quelli di catadinanza, e le politiche libertà. Egli vuol d fesi, e non alterati dal monarca i diritti naturali dell'uma nità nell'individuo; quelli delle affezioni del sangue nella famiglia; quelli della socialità nel municip €,

quelli dell' interna ed esterna difesa colla riunisce delle forze di più municipii nella città; quelli tisa

mente di nazionalità nelle relazioni reciproche d-pa città tra loro in un regno. Egli ha calcolato i divers: bisogni de'climi,delle località e delle industrie L'A lighieri non fa dei cittad ni della sua monarchia una mandra, la quale alla rinfusa ammucchiata obbedi sca alla verga del pastor che la guida, e alla mane che la munge, la tonde e la scanna. La monarcha dell'Alighieri conosce ed apprezza tutte le esisterze morali e civili, che nella loro ordinata gerarchia compongono i corpi politici. Il monarca è l'aator a direttrice suprema, e garante della fedele ed esata amministrazione della giustizia e della pace,e de la concordia reciproca tra tutti i municipii,le città edi regni che cuoprono la terra, indipendenti tra loro nella gestione de'loro sociali interessi.» (CARMIGNA NI, loc. cit.)

(1) Il bello ideale che Platone dette alla sua repubblica, l' Alighieri lo diè al suo monarca: coa questa differenza però, che un uomo, sebbene investito del potere supremo, può sentire ed agire come Dante s'imagina, mentre una moltitudine d'uemini non potranno mai vivere col regime che loro ha proposto Platone. Dante ravvisa il monarca us versale, per la sua posizione, un' autorità tutelare ed inoffensiva: egli pensa essere nel naturale ordne delle cose, che un uomo, il quale ha eguale ac

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